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Cassazione civile sez. lav., 30/07/2024, n.21223

Massima

Il licenziamento del dirigente, motivato da una condotta colposa o comunque manchevole, deve essere considerato di natura disciplinare, indipendentemente dalla sua inclusione o meno tra le misure disciplinari previste dallo specifico regime del rapporto. Detto provvedimento deve essere assoggettato alle garanzie dettate a tutela del lavoratore circa la contestazione degli addebiti e il diritto di difesa. L’applicabilità dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori ad ogni dirigente comporta, quindi, la necessità della previa contestazione dell’addebito, in modo conforme ai requisiti di specificità e tempestività, e la sua immodificabilità.

Supporto alla lettura

STATUTO DEI LAVORATORI

La L. 300/1970 reca “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”. Si tratta di un corpo normativo fondamentale del diritto del lavoro italiano che, parzialmente modificato e integrato nel corso degli anni, ancora oggi costituisce la disciplina di riferimento per i rapporti tra lavoratore e impresa e i diritti sindacali.

  • Titolo I (artt. 1 – 13): disciplina diritti e divieti volti a garantire la libertà e dignità del lavoratore; in particolare in materia di libertà di opinione del lavoratore (art. 1), regolamentazione del potere di controllo (artt. 2 – 6) e disciplinare (art. 7), di mansioni e trasferimenti (art. 13).
  • Titolo II (artt. 14 – 18): dedicato alla libertà sindacale, nell’affermare e disciplinare il principio cardine del diritto di costituire associazioni sindacali nei luoghi di lavoro e di aderirvi (art. 14), sancisce la nullità degli atti discriminatori (art. 15), pone il divieto di costituire o sostenere sindacati di comodo (art. 17) e, allo scopo di rendere effettivi tali diritti, introduce la garanzia della stabilità del posto di lavoro, disponendo le tutele accordate al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo (art. 18).
  • Titolo III: si tracciano le prerogative dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro, attraverso il riconoscimento al sindacato del potere di operare nella sfera giuridica dell’imprenditore, per il conseguimento dei propri obiettivi di rappresentanza e di tutela. Valgono a tale scopo il fondamentale diritto alla costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali (art. 19), nonché le ulteriori prescrizioni finalizzate a consentire l’esercizio dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro, nelle sue varie forme di manifestazione (assemblea, affissione, permessi, locali e garanzie della funzione sindacale – artt. 20 – 27).
  • Titolo IV: oltre alle disposizioni in materia di permessi e aspettative per i dirigenti sindacali (artt. 30 – 32), assume una posizione cruciale l’art. 28, che predispone un particolare strumento giudiziario volto a reprimere condotte antisindacali, in quanto impeditive o limitative dell’esercizio dell’attività sindacale o del diritto di sciopero.

Ambito oggettivo di applicazione

Fatto
RILEVATO CHE:
1. La Corte d’Appello di Venezia ha accolto l’appello della (omissis) Srl e, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto la domanda proposta da (omissis), dirigente dal febbraio 2012, volta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli il 28 novembre 2013.

2. La Corte territoriale ha premesso di aver concesso alle parti termine per note solo sulla questione del difetto di specificità della contestazione disciplinare e della sua integrazione in sede giudiziale; ha dato atto della acquisizione, ai sensi dell’art. 437 c.p.c., del verbale della deposizione resa dal teste (omissis) nel corso del procedimento penale a carico del (omissis) per il reato di cui all’art. 615-ter c.p., allegato alle note depositate dalla società appellante.

3. Ha riportato la contestazione disciplinare mossa al dirigente del seguente tenore: “Da un recente controllo sul nostro sistema informatico sono stati rilevati accessi non autorizzati nonché numerosi tentativi di accesso alle cartelle di posta elettronica nominate “cavicchiolo” e “amministrazione”, come specificamente indicati nel tabulato allegato che deve ritenersi parte integrante della presente comunicazione. Inoltre, a seguito di accertamenti contabili eseguiti nel mese di ottobre 2013 è emerso che nel periodo dal mese di gennaio 2010 al mese di dicembre 2011 compreso lei ha provveduto a liquidare in proprio favore compensi provvigionali diversi da quelli pattuiti, trasmettendo al consulente del lavoro (omissis) Sas l’ammontare di detti compensi per l’elaborazione delle buste paga. Dal medesimo controllo contabile è emerso che le provvigioni corrisposte nel periodo dal mese di novembre 2010 al mese di dicembre 2011, come da lei elaborate e cominnicate al consulente aziendale (omissis) Sas, sono state calcolate su voci di bilancio non afferenti alla (omissis) Srl”.

4. Ha ritenuto, richiamando precedenti di legittimità (Cass. n. 3147 del 2019; 23894 del 2018; n. 3175 del 2013) e l’art. 22 del c.c.n.l. dirigenti industria, che il datore di lavoro avesse la facoltà di esplicitare o integrare i motivi del licenziamento in sede giudiziale; che tale facoltà era stata esercitata dalla appellante e nessuna lesione al diritto di difesa del dirigente si era verificata, poiché questi aveva dimostrato di avere ben compreso le ragioni poste a base del recesso e si era difeso nel merito con lettera del 14 novembre 2013 e anche in sede di audizione il successivo 23 novembre. Ha quindi escluso ogni vizio inerente al difetto di specificità della contestazione disciplinare.

5. Nel merito, ha accertato la sussistenza degli addebiti contestati, sia quanto ai sistematici accessi o tentativi di accesso alle caselle di posta elettronica “cavicchiolo” e “amministrazione” e sia quanto alla indebita percezione di provvigioni, ed ha giudicato gli stessi di gravità tale da incrinare in maniera definitiva il vincolo fiduciario, integrando una giusta causa di licenziamento.

6. Avverso tale sentenza (omissis) ha proposto ricorso per cassazione, affidato a nove motivi. La società della (omissis) Srl ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

7. Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380-bis 1 c.p.c., come modificato dal D.Lgs. n. 149 del 2022.

Diritto
CONSIDERATO CHE:
8. Con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione o falsa applicazione dell’art. 7, legge n. 300 del 1970, degli artt. 2,3 e 10 della legge n. 604 del 1966, dell’art. 22 c.c.n.l. Dirigenti Industria, degli artt. 1362 e 1363 c.c., dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Inoltre, nullità della sentenza per motivazione omessa, perplessa, incomprensibile, violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c. e dell’art. 12 delle preleggi, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 e n. 5 c.p.c. Si impugna la decisione d’appello nella parte in cui (in difformità dalla pronuncia di primo grado che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per difetto di specificità della contestazione disciplinare), ha considerato legittima la “specificazione contestuale della motivazione del recesso” (p. 10, primo c.p.v..) e appurato che nel caso di specie la società, “costituendosi in primo grado (avesse) esaustivamente e del tutto legittimamente specificato le circostanze in cui si concreta il disvalore degli addebiti contestati al (omissis)” (p. 11, primo c.p.v..). Il ricorrente assume che la Corte d’Appello, per effetto di una erronea applicazione dei principi espressi nelle sentenze Cass. n. 3147 del 2019; 23894 del 2018; n. 3175 del 2013, riferiti al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ha ritenuto che gli addebiti mossi al dirigente fossero emendabili dalla datrice in sede giudiziale ed ha quindi proceduto a valutare quanto specificato dalla società nella memoria difensiva di primo grado sebbene non previamente contestato. Sostiene che l’art. 7. St. lav., pacificamente applicabile al rapporto di lavoro dirigenziale, impone l’onere di specificità della contestazione disciplinare non emendabile in sede giudiziale, essendo preclusa al giudice la valutazione di fatti non previamente e specificamente contestati.

9. Con il secondo motivo è denunciata violazione o falsa applicazione dell’art. 7, legge n. 300 del 1970, dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Inoltre, nullità della sentenza per motivazione omessa, perplessa, incomprensibile, violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c. e dell’art. 12 delle preleggi, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. Omesso esame di due fatti storici decisivi, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. Il ricorrente impugna la sentenza nella parte in cui, relativamente all’addebito di determinazione per eccesso delle provvigioni, ha giudicato lo stesso “già specifico nella contestazione disciplinare nella parte in cui individua i periodi temporali in cui sono stati erogati al (omissis) indebiti emolumenti”. Sottolinea il carattere apparente della motivazione sul punto per essere i periodi temporali solo genericamente richiamati, senza alcuna precisazione, pure a fronte di un rapporto di lavoro durato oltre dieci anni. Deduce l’omesso esame di fatti storici decisivi consistenti nel fatto che la contestazione disciplinare, concernente il periodo gennaio 2010 – dicembre 2011, è giunta a distanza di due – tre anni dal periodo di corresponsione degli emolumenti e non tiene conto del giudizio positivo espresso dall’azienda con la promozione a dirigente, risalente al gennaio 2012. Afferma il carattere apparente della motivazione anche riguardo all’addebito sui presunti accessi alle caselle di posta elettronica, descritti tramite generico rinvio al tabulato e senza alcuna indagine sul contenuto dello stesso e ribadisce la denuncia di genericità della contestazione sul punto.

10. Con il terzo motivo è dedotta violazione o falsa applicazione dell’art. 7, legge n. 300 del 1970, dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 1362 e ss. c.c., Data p sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Inoltre, nullità della sentenza per motivazione omessa, perplessa, incomprensibile, violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c. e delle preleggi, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. Omesso esame di un fatto storico decisivo, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. Si censura la sentenza d’appello nella parte in cui hai escluso ogni vulnus al diritto di difesa del lavoratore sul presupposto che questi avesse ben compreso le ragioni poste a fondamento del recesso, ricavando tale convincimento dal contenuto delle giustificazioni scritte e dall’audizione a difesa. Si assume che, al contrario, le giustificazioni e l’audizione rendevano evidente la lesione del diritto di difesa del lavoratore, risultando incomprensibile come la sentenza d’appello fosse giunta a opposte conclusioni.

11. Con il quarto motivo di ricorso si censura la sentenza d’appello per violazione o falsa applicazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c., degli artt. 2727 e 2697 c.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Inoltre, nullità della sentenza per motivazione omessa, perplessa, incomprensibile, violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c. e dell’art. 12 delle preleggi, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 e n. 5 c.p.c. Si critica la decisione nella parte in cui ha desunto dal tabulato, allegato alla contestazione disciplinare, e dalla deposizione del teste (omissis) la prova della attribuibilità al sig. (omissis) degli accessi e dei tentativi di accesso non autorizzati.

12. Con il quinto motivo di ricorso si deduce violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., nonché nullità della sentenza omessa pronuncia e/o omessa motivazione, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. Si censura la sentenza d’appello per non aver esaminato le eccezioni sollevate dal lavoratore all’udienza dell’11.3.2021 sulla tardività delle produzioni documentali di controparte, in particolare del verbale di deposizione testimoniale resa dal sig. (omissis) in sede penale in data 25 agosto 2018 e depositato unitamente alle note del 25.2.2021.

13. Con il sesto motivo di ricorso si deduce violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., nonché nullità della sentenza per motivazione omessa, perplessa, incomprensibile, violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c. e dell’art. 12 delle preleggi, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. Omesso esame di due fatti storici decisivi, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. Si censura la sentenza d’appello per avere immotivatamente giudicato “generica e non circostanziata” la deposizione della teste Andreatta e “non completamente indifferente la sua deposizione”, sulla scorta di documentazione prodotta tardivamente dalla società, come prontamente eccepito al lavoratore.

14. Con il settimo motivo di ricorso si deduce violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c., degli artt. 115 e 116c.p.c., dell’art. 437 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., nonché nullità della sentenza per motivazione omessa, perplessa, incomprensibile, violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c. e dell’art. 12 delle preleggi, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. Omesso esame di due fatti storici decisivi, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. Si censura la sentenza nella parte in cui fa leva sul dato della conoscenza o conoscibilità delle password aziendali da parte del signor (omissis), in quanto nominato custode delle stesse, in tal modo modificando illegittimamente le ragioni della contestazione disciplinare e del licenziamento e addebitando al dirigente circostanze nuove mai contestate.

15. Con l’ottavo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., dell’art. 2697 c.c., degli artt. 651,652,653 e 654 c.p. e dell’art. 2909 c.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., nonché nullità della sentenza per motivazione omessa, perplessa, incomprensibile, violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c. e dell’art. 12 delle preleggi, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. Omesso esame di un fatto storico decisivo, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. Si censura la sentenza d’appello per non avere considerato irrevocabile la sentenza penale di assoluzione del signor (omissis), emessa dal Tribunale di Treviso, benché tale irrevocabilità costituisse fatto pacifico e incontroverso; inoltre, per non aver considerato vincolante il contenuto di tale sentenza in ordine alla insussistenza del fatto addebitato.

16. Con il nono motivo di ricorso si deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 1362 e ss., 2104,2095,2119 c.c., dell’art. 7, legge n. 300 del 1970, degli artt. 115 e 116 c.p.c., dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., nonché nullità della sentenza per motivazione omessa, perplessa, incomprensibile, violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c. e dell’art. 12 delle preleggi, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. Omesso esame di due fatti storici decisivi, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. Si censura la sentenza impugnata per avere, anzitutto, giudicato specifica la contestazione disciplinare e per averne modificato il contenuto, ricomprendendovi nuovi fatti non previamente contestati. In particolare, per aver affermato che “l’indebito inserimento va imputato quantomeno sub specie di omesso controllo dei dati confluiti nella base di calcolo”, in tal modo riconoscendo l’insussistenza dell’addebito disciplinare che concerneva un’intenzionalità dolosa del dirigente nell’inserimento dei dati e non già un omesso controllo, condotta quest’ultima di cui non vi è cenno nella contestazione disciplinare e nella memoria difensiva di primo grado della società. Argomenta, ancora, che la sentenza d’appello ha addossato al dirigente un obbligo di controllo (nemmeno contestato) sulla correttezza degli emolumenti ricevuti negli anni 2010 e 2011, che fa capo invece alla società datoriale, e non ha considerato che nessun grave inadempimento poteva imputarsi al dipendente né spiegato come una differenza di calcolo degli emolumenti proporzionalmente modesta (pari a 6.000,00 Euro) fosse idonea a far venir meno il rapporto fiduciario e non potesse essere considerata come frutto di un errore privo di rilevanza disciplinare.

17. Preliminarmente, devono respingersi le eccezioni di inammissibilità del ricorso sollevate dalla società controricorrente, atteso che il ricorso contiene una adeguata esposizione di specifici motivi di censura, alla luce dei vizi di cui all’art. 360 c.p.c., e rispetta il canone di autosufficienza come recentemente rideterminato da questa Corte, alla luce dei principi contenuti nella sentenza CEDU Succi e altri c. Italia del 28 ottobre 2021 (v. Cass., S.U. n. 8950 del 2022; v. anche Cass. n. 12481 del 2022).

18. I motivi di ricorso dal primo al quarto possono essere trattati congiuntamente e non sono fondati, dovendosi tuttavia correggere in parte la motivazione della sentenza d’appello.

19. Sul licenziamento disciplinare del dirigente, le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 7880 del 2007, hanno affermato il principio per cui le garanzie procedimentali dettate dall’art. 7, commi secondo e terzo, della legge 20 marzo 1970, n. 300, devono trovare applicazione nell’ipotesi di licenziamento di un dirigente – a prescindere dalla specifica collocazione che lo stesso assume nell’impresa – sia se il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento negligente (o, in senso lato, colpevole) sia se a base del recesso ponga, comunque, condotte suscettibili di farne venir meno la fiducia. Dalla violazione di dette garanzie, che si traduce in una non valutabilità delle condotte causative del recesso, ne scaturisce l’applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione, non potendosi per motivi, oltre che giuridici, logico-sistematici assegnare all’inosservanza delle garanzie procedimentali effetti differenti da quelli che la stessa contrattazione fa scaturire dall’accertamento della insussistenza dell’illecito disciplinare o di fatti in altro modo giustificativi del recesso (v. tra le pronunce successive conformi Cass. n. 897 del 2011; n. 5175 del 2015).

20. Al riguardo, la Corte Costituzionale, con alcune pronunce riprese nella sentenza delle S.U., aveva evidenziato che devono essere assicurate tutte le garanzie procedurali della L. n. 300 del 1970, art. 7 nel caso di lavoratore investito dalla più grave delle sanzioni disciplinari ed indipendentemente dal numero dei dipendenti del datore di lavoro “perché non vi è dubbio che il licenziamento per motivi disciplinari, senza l’osservanza delle garanzie suddette, può incidere sulla sfera morale e professionale del lavoratore e crea ostacoli o addirittura impedimenti alle nuove occasioni di lavoro che il licenziato deve poi necessariamente trovare” (Corte Cost. sentenza 25 luglio 1989 n. 427); che la L. n. 300 del 1970, art. 7, commi 2 e 3, esige come essenziale presupposto delle sanzioni disciplinari lo svolgersi di un procedimento, di quella forma cioè di produzione dell’atto che rinviene il suo marchio distintivo nel rispetto della regola del contraddittorio; rispetto che tanto più è dovuto per quanto competente ad irrogare la sanzione è (non già – come avviene nel processo giurisdizionale – il giudice, per tradizione e legge, super partes, ma) una pars (Corte Cost. sentenza 30 novembre 1982 n. 204); che nell’esercizio di un potere disciplinare – riferito allo svolgimento di qualsiasi rapporto di lavoro subordinato (di diritto privato o di pubblico impiego) ovvero di lavoro autonomo e professionale – al principio di proporzione deve coniugarsi la regola del contraddittorio, “secondo cui la valutazione dell’addebito, necessariamente prodromica all’esercizio del potere disciplinare, non è un mero processo interiore ed interno a chi tale potere esercita, ma implica il coinvolgimento di chi versa nella situazione di soggezione, il quale – avendo conosciuto l’addebito per essergli stato previamente contestato – deve poter addurre, in tempi ragionevoli, giustificazioni a sua difesa, sicché -sotto questo secondo profilo – è necessario il previo espletamento di un procedimento disciplinare che, seppur variamente articolabile, sia rispettoso della regola audiatur et altera pars” (cfr. Corte Cost. sentenza 1 giugno 1995 n. 220).

21. La generalizzata estensione delle procedure di contestazione dei fatti posti a base del recesso, che caratterizza la giurisprudenza costituzionale richiamata, trova la sua effettiva ratio nella capacità dei suddetti fatti di incidere direttamente al di là dell’aspetto economico, sulla stessa persona del lavoratore, ledendone talvolta, con il decoro e la dignità, anche la sua stessa immagine in modo irreversibile. Sul punto la citata sentenza delle S.U. ha osservato che, se il tratto caratterizzante della L. n. 300 del 1970, art. 7 va individuato, come emerge dagli interventi della Corte Costituzionale, nell’esigenza di garantire ad ogni lavoratore – nel momento in cui gli si addebitano condotte con finalità sanzionatorie – il diritto di difesa, e se non è, come si è visto, di certo estraneo alla ratio della norma in esame l’intento di tutelare la “persona” del lavoratore nella professionalità, nel decoro e nella sua stessa immagine, tutto ciò attesta che non risponde a consequenzialità logica una lettura restrittiva del dato normativo che finisca per penalizzare i dirigenti, i quali – specialmente se con posizioni di vertice e se dotati di più incisiva autonomia funzionale – possono subire danni, con conseguenze irreversibili per la loro futura collocazione nel mercato del lavoro, da un licenziamento, che non consentendo loro una efficace e tempestiva difesa, può lasciare ingiuste aree di dubbio sulla trasparenza del comportamento tenuto e sulla capacità di assolvere a quei compiti di responsabilità correlati alla natura collaborativa e fiduciaria caratterizzante il rapporto lavorativo.

22. Deve quindi ribadirsi che il licenziamento del dirigente, motivato da una condotta colposa o comunque manchevole, deve essere considerato di natura disciplinare, indipendentemente dalla sua inclusione o meno tra le misure disciplinari previste dallo specifico regime del rapporto, sicché deve essere assoggettato alle garanzie dettate a tutela del lavoratore circa la contestazione degli addebiti e il diritto di difesa (Cass. n. 18270 del 2013; n. 2553 del 2015; n. 269 del 2024).

23. L’applicabilità dell’art. 7 dello St. lav. ad ogni dirigente comporta la necessità della previa contestazione dell’addebito, in modo conforme ai requisiti di specificità e tempestività, e la immodificabilità della stessa. Risulta quindi errata in diritto l’affermazione dei giudici di appello su una “legittima” specificazione delle “circostanze in cui si concentra il disvalore degli addebiti contestati al (omissis)” operata dalla società nella memoria di costituzione in primo grado (sentenza, p. 11, primo c.p.v..). Tale errore in diritto non determina, tuttavia, l’accoglimento del ricorso ma unicamente la correzione sul punto della motivazione, ai sensi dell’art. 384, ultimo comma, c.p.c., atteso che il dispositivo risulta conforme a diritto, avendo comunque la sentenza impugnata escluso, nel caso concreto, il difetto di specificità della contestazione disciplinare e la lesione del diritto di difesa.

24. Su quest’ultimo profilo, questa Corte ha chiarito che la previa contestazione dell’addebito, necessaria nei licenziamenti qualificabili come disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratore l’immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c.; per ritenere integrata la violazione del principio di specificità è necessario che si sia verificata una concreta lesione del diritto di difesa del lavoratore (Cass. n. 9590 del 2018; n. 6889 del 2018; n. 29240 del 2017; n. 7546 del 2006). Si è aggiunto che l’accertamento relativo al requisito di specificità della contestazione costituisce oggetto di un’indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito (v. tra le tante Cass. n. 10154 del 2017; n. 7546 del 2006; n. 1562 del 2003). Spetta, infatti, al giudice di merito verificare se la mancata precisazione di alcuni elementi di fatto abbia determinato un’insuperabile incertezza nell’individuazione dei comportamenti imputati, tale da pregiudicare in concreto il diritto di difesa (Cass. n. 6889 del 2018 cit.) e se gli elementi ulteriori introdotti dal datore di lavoro nel corso del giudizio costituiscano circostanze nuove rispetto a quelle contestate, tali da implicare una diversa valutazione dell’infrazione, in violazione del diritto di difesa (v. Cass. n. 26678 del 2017), oppure se si tratti di circostanze confermative in relazione alle quali il lavoratore possa agevolmente controdedurre (v. Cass. n. 19023 del 2018) ovvero che non modifichino in senso sostanziale il quadro di riferimento della contestazione (v. Cass. n. 11159 del 2018; v. anche Cass. n. 8293 del 2019).

25. La Corte d’Appello si è attenuta ai principi appena richiamati e, con accertamento in fatto congruamente motivato, ha giudicato specifica la contestazione mossa al dirigente sugli accessi non autorizzati al sistema informatico in quanto recante l’individuazione delle “caselle di posta elettronica oggetto degli accessi abusivi (…) della data, ora e codice identificativo del computer che ha operato gli accessi abusivi attraverso il richiamo per relationem del tabulato allegato alla contestazione” (sentenza, p. 12, secondo c.p.v.), là dove nella memoria di costituzione in primo grado la società aveva solo specificato che “il codice identificativo del computer dal quale sono stati eseguiti gli accessi non autorizzati è quello in uso esclusivo al (omissis) ” (sentenza, p. 12, secondo c.p.v.). Analogamente, sull’addebito di determinazione per eccesso delle provvigioni, i giudici di appello hanno appurato che la contestazione individuava gli emolumenti indebiti e i periodi temporali in cui gli stessi erano stato erogati e tanto bastava a soddisfare il canone di specificità (sentenza, p. 12, primo c.p.v.).

26. Non solo, la sentenza impugnata ha escluso qualsiasi concreto vulnus al diritto di difesa del dirigente, avendo accertato come questi avesse “dimostrato di avere ben compreso le ragioni poste dalla società fondamento del recesso, difendendosi nel merito sin dalla lettera di giustificazioni del 14.11.2013 e anche in sede di incontro (…) del 23.11.2013” (sentenza, p. 12, ultimo c.p.v.) e di avere anche compreso “il contenuto del CD, pacificamente fornito dalla società in aggiunta al tabulato allegato alla contestazione, contenente i rilievi in ordine agli accessi non autorizzati” (sentenza, p. 13, primo c.p.v.) e tale accertamento, ampiamente argomentato con puntuali riferimenti al contenuto degli addebiti e delle difese opposte dal lavoratore, non è suscettibile di revisione in questa sede di legittimità.

27. Non solo non ricorre la violazione dell’art. 7, St. Lav., ma non possono trovare accoglimento neppure le residue critiche, dovendosi ribadire quanto ancora di recente affermato dalle Sezioni unite civili circa l’inammissibilità di censure che “sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione”, così travalicando “dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 c.p.c., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti” (cfr. Cass. SS. UU. n. 34476 del 2019; conf. Cass. SS. UU. n. 33373 del 2019; Cass. SS. UU. n. 25950 del 2020). Le critiche mosse con i motivi in esame, infatti, non solo non descrivono anomalie atte ad integrare la violazione delle norme di diritto, sostanziale e processuale, denunciate, ma investono direttamente ed unicamente l’apprezzamento in fatto eseguito dai giudici di appello e determinano, di conseguenza, un rilievo di inammissibilità.

28. Riguardo alla eccepita violazione delle regole di formazione della prova, deve ribadirsi che l’art. 115 c.p.c. si limita a richiedere che la decisione si basi su elementi validamente acquisiti al processo, con divieto del giudice di utilizzare prove non dedotte dalle parti o acquisite d’ufficio al di fuori dei casi in cui la legge conferisce un potere officioso d’indagine (Cass. n. 27000 del 2016; n. 13960 del 2014), mentre esula dall’ambito applicativo di tale disposizione ogni questione che involga il modo in cui siano stati valutati gli elementi acquisiti, profilo su cui il controllo di legittimità può svolgersi solo con riguardo alla motivazione, in termini di violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c., oppure nei limiti di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. (v. Cass., S.U. n. 8053 e n. 8054 del 2014), attraverso la denuncia di omesso esame di un fatto storico, determinato e avente valore decisivo; a nessuna di tali previsioni è possibile ricondurre le critiche svolte nei primi due motivi.

29. Parimenti infondata è la censura di violazione dell’art. 116 c.p.c., che presuppone, come più volte precisato da questa Corte (cfr. Cass., S.U. n. 20867 del 2020; Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 25029 del 2015; Cass. n. 25216 del 2014), che il giudice valuti una prova legale secondo prudente apprezzamento o un elemento di prova liberamente valutabile come prova legale, e la censura di violazione dell’art. 2697 c.c. di inversione degli oneri di prova. Nessuna di queste situazioni è rappresentata nei motivi di ricorso in esame ove è unicamente e inammissibilmente dedotto che il giudice ha male esercitato il suo prudente apprezzamento delle prove.

30. Non vi è spazio per ravvisare la violazione dell’art. 132 c.p.c. Le Sezioni Unite di questa Corte (sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014 cit.) hanno sancito come l’anomalia motivazionale, implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante, integri un error in procedendo che comporta la nullità della sentenza solo nei casi di “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”; si è ulteriormente precisato che di “motivazione apparente” o di “motivazione perplessa e incomprensibile” può parlarsi là dove essa non renda “percepibili le ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talché essa non consenta alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice” (Cass. SS. UU. n. 22232 del 2016; v. pure Cass. SS. UU. n. 16599 del 2016), senza che rilevi il difetto di sufficienza della motivazione. Nel caso di specie, basta ripercorrere il testo della pronuncia per avvedersi di come la Corte distrettuale abbia dato conto delle ragioni che hanno orientato il suo convincimento, sorretto dalle prove raccolte, giudicate idonee a dimostrare la sussistenza degli addebiti contestati.

31. Il quinto motivo è parimenti da respingere. Deve, anzitutto, precisarsi come il vizio di omessa pronuncia sia configurabile solo nel caso di mancato esame di questioni di merito, e non anche di questioni processuali (v. Cass. n. 13649 del 2005; n. 7406 del 2014; n. 25254 del 2018) e che neppure vi è spazio per ritenere integrata la violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c. atteso che il verbale della deposizione resa dal teste (omissis) in sede penale, che si assume tardivamente acquisito, è stato qualificato dai giudici di appello come sostanzialmente confermativo della dichiarazione stragiudiziale già in atti (come emerge dal contenuto dei due atti trascritto a p. 15 della sentenza), dal che discende la non decisività della censura in oggetto.

32. Il sesto motivo è inammissibile per le ragioni già espresse sui motivi finora esaminati, dovendosi peraltro rilevare come il giudizio di inidoneità della deposizione resa dalla teste Andreatta poggi, essenzialmente, sulla natura “generica e non circostanziata” della stessa (sentenza, 16, ultimo c.p.v.) oltre che sul suo carattere “non dirimente” (sentenza, p. 17, primo c.p.v.) e anzi “inconferente rispetto al disvalore oggetto di contestazione disciplinare che, per come formulato, è relativo non alla conoscenza/conoscibilità delle password aziendali ma agli accessi e ai tentativi di accesso non autorizzati effettuati dal (omissis) ” (sentenza, p. 17, terzo c.p.v.), e solo in parte sulla condizione di non indifferenza della medesima rispetto all’esito del giudizio, il che rende la censura, ancora una volta, priva tra l’altro del requisito di decisività.

33. Il settimo motivo è inammissibile, oltre che per quanto già detto a proposito dei precedenti motivi, perché non si confronta con la ratio decidendi della sentenza impugnata che, lungi dal modificare i fatti contestati, ha escluso che la contestazione e la decisione di recesso fossero fondati sulla mancata custodia delle password ed ha anzi sottolineato la gravità della condotta di accesso abusivo e di violazione della riservatezza delle comunicazioni in quanto posta in essere proprio da parte di chi, quale amministratore di sistema e custode delle credenziali informatiche, aveva un ruolo di protezione dei dati informatici (sentenza, p. 19, secondo c.p.v.).

34. L’ottavo motivo è infondato in quanto la Corte d’Appello (che, pur avendo rilevato il difetto di prova della irrevocabilità della sentenza penale, ha “in ogni caso” esaminato la questione, v. p. 20, quarto c.p.v.) si è attenuta ai principi affermati in sede di legittimità secondo cui, in tema di rapporti tra procedimento penale e procedimento disciplinare, il giudicato penale non preclude, in sede disciplinare, una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità, fermo solo il limite dell’immutabilità dell’accertamento dei fatti nella loro materialità – e dunque, della ricostruzione dell’episodio posto a fondamento dell’incolpazione – operato nel giudizio penale (v. Cass., Sez. Un., 9 luglio 2015, n. 14344; Cass., Sez. Un., 24 novembre 2010, n. 23778; Cass., Sez. Un., 18 ottobre 2000, n. 1120), dovendosi peraltro rilevare che la sentenza penale allegata al ricorso per cassazione reca, nel dispositivo, l’assoluzione ai sensi “dell’art. 530, comma II, c.p.c.”, il che impedisce in radice ogni effetto preclusivo del giudicato penale nel giudizio civile (v. Cass. n. 17708 del 2023; n. 4764 del 2016).

35. Neppure il nono motivo di ricorso può essere accolto, oltre che per quanto già detto nell’esame dei precedenti motivi, inoltre perché non si confronta con la ratio decidendi della sentenza d’appello che ha ritenuto “provato” l’indebito inserimento nella base di calcolo per le provvigioni dovute al (omissis) non solo della fattura (omissis), come ammesso dal (omissis) medesimo, ma altresì delle fatture relative alle altre quattro società sopra indicate e solo ad abuntantiam ha aggiunto che l’addebito sarebbe imputabile al dirigente “quantomeno sub specie di omesso controllo colposo dei dati confluiti nella base di calcolo” (p. 21, ultimo c.p.v.).

36. Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto.

37. La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.

38. Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.500,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.Ai sensi dell’art. 13, co. 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale dell’11 giugno 2024.

Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2024.

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