Svolgimento del processo
Con ricorsi del 25 marzo 1993 al Tribunale di Siracusa (omissis) e gli altri qui indicati in epigrafe esponevano di avere manifestato alla datrice di lavoro Azienda siciliana trasporti la volontà di voler restare in servizio fino al sessantacinquesimo anno d’età oppure fino al raggiungimento della contribuzione previdenziale massima, ai sensi del D.L. 22 dicembre 1981, n. 791, art. 6, conv. in L. 26 febbraio 1982, n. 54. L’Azienda li aveva nondimeno collocati in pensione ai primi del 1988 con interpretazione della norma ora detta poi ritenuta illegittima dalla giurisprudenza costituzionale, che si era espressa nel senso dell’applicabilità della stessa norma al caso specifico.
Assumendo perciò come illegittimo il comportamento dell’Azienda, i ricorrenti chiedevano il risarcimento del danno da mancato trattenimento in servizio, in misura pari alla differenza tra retribuzione non percepita e pensione, nonchè del danno pensionistico da omessa contribuzione previdenziale.
Costituitasi la convenuta, che tra l’altro eccepiva la decadenza dal diritto di impugnare il licenziamento, il Tribunale rigettava la domanda con decisione del 4 luglio 2000, riformata dalla Corte d’appello di Catania, che con sentenza non definitiva del 29 novembre 2003 accoglieva le domande dei lavoratori e con sentenza definitiva del 24 marzo 2005 liquidava i danni.
Nella sentenza non definitiva la Corte negava che il rigetto, espresso dall’Azienda, dell’istanza di trattenimento in servizio equivalesse a licenziamento e, perciò, che i lavoratori fossero soggetti alla comminatoria di decadenza contenuta nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 6; la loro inerzia successiva al detto rigetto ed alla sentenza della Corte costituzionale 3 maggio 1990, n. 226 non escludeva il diritto al risarcimento del danno nella misura richiesta.
L’incertezza normativa durata fino alla pubblicazione di questa sentenza costituzionale non bastava ad escludere l’elemento soggettivo dell’illecito contrattuale addebitarle all’Azienda.
Nè ad escludere o a limitare il danno da mancato percepimento delle retribuzioni e da omessa contribuzione valeva il fatto che, dopo il rigetto dell’istanza, i lavoratori non avessero formalmente offerto le prestazioni a loro carico.
Contro le due sentenze, non definitiva e definitiva, ricorre per cassazione la s.p.a. Azienda siciliana trasporti mentre gli intimati (omissis) ed altri controricorrono ed illustrano il controricorso con memoria.
Motivi della decisione
L’eccezione di inammissibilità del ricorso per cassazione contro la sentenza non definitiva non è fondato poichè la riserva venne manifestata con atto del 25 novembre 2003.
Con una seconda eccezione i controricorrenti osservano che il decesso del litisconsorte (omissis), avvenuto “il giorno stesso (omissis) della discussione della causa” venne comunicato il successivo 23 settembre all’Azienda ora ricorrente, che tuttavia non notificò il ricorso agli eredi, così incorrendo nell’inammissibilità. L’eccezione è inammissibile per difetto di interesse del controricorrente. In ogni caso negli atti esiste bensì un certificato di morte di (omissis), rilasciato dal Comune di Siracusa in data 13 aprile 2005, ma esso non risulta comunicato all’attuale ricorrente nè risulta la data del deposito negli atti di causa. Perciò il ricorso va comunque dichiarato ammissibile.
Col secondo motivo, da esaminare con precedenza per ragioni di buon ordine espositivo, la ricorrente, invocando gli artt. 1206, 1225, 1227, 1375, 1460 e 2043 c.c., lamenta avere la Corte d’appello trascurato la circostanza che i lavoratori, ricevuto nei primi giorni del 1988 il rigetto dell’istanza di trattenimento in servizio e pur dopo la pubblicazione della sentenza costituzionale n. 226 del 1990, da cui risultò l’illegittimità di quel rifiuto, rimasero inerti per circa tre anni, ossia non offrirono le loro prestazioni lavorative e così non manifestarono alcun interesse al ripristino di fatto del rapporto. Solo nel marzo 1993 essi si attivarono attraverso l’esercizio dell’azione giudiziaria.
Il motivo è fondato.
Non è controverso che il recesso del datore di lavoro, in contrasto con la norma imperativa della L. n. 54 del 1982, art. 6, è nullo onde, data la sua non equiparabilità al licenziamento di cui alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 6, la sua impugnazione non è assoggettata a termine di decadenza (Cass. 23 giugno 2000 n. 8252).
Ciò non comporta tuttavia che della nullità possa giovarsi il lavoratore che abbia tenuto un comportamento concludente oggettivamente rilevante come contrario alla prosecuzione del rapporto di lavoro.
Dall’art. 1175, che assoggetta il creditore alle regole della correttezza, e dall’art. 1375 c.c., che impone alle parti di eseguire il contratto secondo buona fede, nonchè dalla comparazione con ordinamenti prossimi al nostro, la giurisprudenza di questa Corte da tempo valuta il comportamento del contraente titolare di una situazione creditoria o potestativa, che per lungo tempo trascuri di esercitarla e generi così un affidamento della controparte nell’abbandono della relativa pretesa, come idoneo a determinare la perdita della stessa situazione soggettiva. La dottrina tedesca parla in questi casi di Verwirkung come di una sorta di decadenza derivante dal divieto, più familiare agli ordinamenti latini, di venire contra factum proprium. Si ha così la preclusione di un’azione, o eccezione, o più generalmente di una situazione soggettiva di vantaggio, non per illiceità o comunque per ragioni di stretto diritto, ma a causa di un comportamento del titolare, prolungato, non conforme ad essa e perciò tale da portare a ritenere l’abbandono.
Che poi di questo comportamento rilevi l’atteggiamento soggettivo di rinuncia tacita ovvero la valutazione oggettiva, resa dall’interprete, di non conformità alla correttezza o alla buona fede, tutto ciò non importa ai fini del risultato finale di perdita della situazione di vantaggio.
E così, ad es., il ritardo nella contestazione dell’addebito disciplinare produce la perdita del potere di licenziare per giusta causa (Cass. 10 novembre 1997 n. 11095).
Il ritardo nell’esercizio del diritto può portare, nell’insieme delle specifiche circostanze, a ravvisare una tacita rinuncia secondo Cass. 15 marzo 2003 n. 5240, 26 febbraio 2004 n. 3861, 26 giugno 2008 n. 13549.
In termini, Cass. 4 giugno 1998 n. 5500 ritiene inefficace l’esercizio del diritto di protrarre il rapporto di lavoro oltre i limiti d’età, quando il lavoratore abbia dimostrato disinteresse per fatti concludenti. E vedi anche Cass. 12 novembre 1997 n. 11209. Alla stregua di questi orientamenti appare errata in diritto la sentenza impugnata, che ha ritenuto irrilevante comportamento dei lavoratori i quali, abbandonato il posto di lavoro e conseguita la pensione, nei circa tre anni successivi alla pronuncia della Corte costituzionale che consideravano a loro favorevole, non si curarono neppure di offrire le loro prestazioni all’impresa datrice di lavoro.
L’errore comporta la cassazione della sentenza impugnata e, in difetto della necessità di nuovi accertamenti di fatto, alla decisione nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, col rigetto delle domande proposte dagli attuali intimati.
Rimane così assorbito il primo motivo di ricorso, concernente la qualificabilità come illecito contrattuale del comportamento tenuto dalla datrice di lavoro.
Gli alterni esiti dei gradi di merito, derivati anche dall’oggettiva incertezza della situazione normativa, inducono a compensare le spese processuali.
P.Q.M.
La Corte:
Accoglie il secondo motivo e dichiara assorbito il primo motivo di ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta le domande proposte dagli attuali intimati con l’atto introduttivo del giudizio; spese compensate per l’intero processo.
Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2009.
Depositato in Cancelleria il 28 aprile 2009
