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Cassazione civile sez. lav., 26/11/2020, n. 27078

Massima

In tema di demansionamento professionale, la Cassazione riafferma che sul datore di lavoro grava l’onere di provare l’esatto adempimento dell’obbligo di mantenere la professionalità del lavoratore, non essendo sufficiente ad escludere la dequalificazione il mero conferimento di un incarico, come quello di vice-dirigenza, in assenza di un effettivo esercizio di poteri direttivi. Il danno alla professionalità conseguente al demansionamento può essere accertato e provato anche in via presuntiva, basandosi sullo stato di inoperosità in cui il dipendente è stato posto.

Supporto alla lettura

Demansionamento

Il demansionamento consiste nell’assegnazione al lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle per cui è stato assunto o addirittura la sottrazione di mansioni precedentemente esercitate. Oggi il demansionamento rappresenta, seppur con limiti, un’espressione dello ius variandi. Il datore di lavoro, nell’ambito dei suoi poteri direttivi, può adibire il lavoratore a mansioni inferiori solo nelle ipotesi tassativamente previste dalla legge, ovvero dall’art. 2103 c.c., nella formulazione recentemente modificata dall’art. 3 D.Lgs. n. 81/2015 (c.d. Jobs Act) e nelle altre ipotesi previste dalla legislazione speciale.

Ambito oggettivo di applicazione

Fatti di causa

1. La Corte d’appello di Roma ha respinto l’appello principale e quello incidentale proposti avverso la decisione di prime cure che aveva parzialmente accolto il ricorso proposto da un lavoratore, per il riconoscimento del demansionamento posto in essere dalla società datrice di lavoro e per la condanna al risarcimento del danno alla professionalità corrispondente alle metà della retribuzioni mensili percepite.

La Corte ha ritenuto provata la dequalificazione sulla base delle allegazioni del lavoratore e in  difetto di prova contraria da parte della società; ha inoltre ritenuto  corretta la determinazione del danno cagionato e, nel respingere l’appello incidentale, ha escluso la ricorrenza del danno morale.

2. Per la cassazione della sentenza propone ricorso la società, resiste, con controricorso, il lavoratore.

 

Motivi della decisione

3. Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103, 2697, 2087, 1218, 1230 cod. civ., 115 e 116 cod. proc. civ. e 10 L. n. 604 del 1966, la nullità della sentenza per difetto di motivazione, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.

4. La Cassazione ritiene le prime due censure infondate.

La società assume che non si sia data rilevanza al conferimento, al lavoratore, dell’incarico di vice dirigenza, in violazione dell’art. 2103 c.c..  Sul punto, tuttavia, la Cassazione specifica che, nonostante il conferimento della vicepresidenza, non risulta mantenuta la professionalità del lavoratore, anche in virtù del fatto che non era risultato, dall’istruttoria espletata, l’esercizio di poteri effettivi direttivi.

La Cassazione precisa che in sede di legittimità non può farsi valere una asserita erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma esclusivamente eccepire , la circostanza (eventuale) che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (cfr. Cass. 27.12.2016 n. 27000; Cass. 19.6.2014 n. 13960).

5. In relazione alla denunciata violazione dell’art. 2697 c.c., va rilevato che, per consolidata giurisprudenza di legittimità, (ex plurimis, Sez. IlI, n. 15107/2013), la Cassazione specifica che essa è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma; il giudice di merito, nel caso al suo esame, invece, correttamente aveva gravato la società in merito all’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo con ciò riferendosi alla prova circa la mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’una o l’altro siano stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o, comunque, in base al principio generale risultante dall’art. 1218 cod. civ., da un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (Cfr., sul punto, Cass. n. 4211 del 03/03/2016).

6. Con il secondo motivo di ricorsosi denunzia con riguardo al ritenuto danno da demansionamento, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103, 2697, 2087, 1218, 1230 cod. civ., 414, 115 e 116 cod. proc. civ., la nullità della sentenza per difetto di motivazione, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.

7. Per la Cassazione non v’è alcun vizio di motivazione della sentenza di merito, considerato che la Corte Territoriale ha ampiamente motivato e ritenuto dimostrato il danno in questione in concreto mediante la prova per presunzioni (sulla prova indiziaria, con particolare riguardo al danno non patrimoniale, dopo SSU n. 6572/2006, si veda, fra le più recenti Cass. n. 24585 del 02/10/2019).

La Corte territoriale aveva ritenuto provato,applicando il metodo presuntivo, lo stato di piena inoperosità in cui il ricorrente era stato posto dalla società, nonostante il conferimento della vice dirigenza per la quale, tra l’altro, non erano state indicate quale fossero le attribuzioni di tale figura professionale.

Sul denunciato vizio relativo all’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, la Cassazione afferma che, avverso il motivo di gravame in realtà mira ad ottenere una diversa valutazione di merito, inammissibile in sede di legittimità.

8. La Cassazione, quindi, respinge il ricorso proposto dalla società datrice di lavoro, decidendo sulle spese di lite in base al principio della soccombenza.

P.Q.M.

Respinge il ricorso.

Condanna la parte ricorrente alla rifusione, in favore della parte controricorrente, delle spese di lite, che liquida in complessivi euro 6000,00 per compensi e 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

Allegati

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