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Cassazione civile sez. lav., 26/04/2004, n. 7891

Massima

La notificazione dell’atto di appello effettuata, anziché al procuratore costituito a norma dell’art. 330 c.p.c., al domiciliatario di quest’ultimo, non è inesistente ma nulla e, conseguentemente, passibile di sanatoria “ex tunc” per effetto della costituzione in giudizio dell’appellato, anche se avvenuta al solo scopo di eccepire il vizio “de quo”, avendo la notificazione raggiunto, comunque, il suo scopo, ed essendo, altresì, astrattamente idonea a raggiungerlo, per essere diretta a persona avente pur sempre un collegamento con il legittimo destinatario dell’atto.

Supporto alla lettura

COMUNICAZIONI E NOTIFICAZIONI TELEMATICHE

Ai sensi della normativa vigente, le comunicazioni prescritte dalla legge o dal giudice vengono inviate, nei casi in cui non sia previsto diversamente, direttamente all’indirizzio di Posta Elettronica Certificata (PEC) del soggetto destinatario. Il DM 44/2011 e le specifiche tecniche di cui al provvedimento del 16 aprile 2014 regolamentano le modalità di invio.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo
Con ricorso depositato il 19 ottobre 1995 (omissis) chiedeva al Pretore di Sulmona di dichiarare nulli, nei confronti della (omissis) s.r.l., il lodo del Collegio di conciliazione e arbitrato del 9.5.95 e il provvedimento disciplinare inflittogli dalla società, sua datrice di lavoro, in data 8.4.1994.

Esponeva che la sanzione disciplinare di sei giorni di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, ed il lodo che aveva ridotto la sospensione a tre giorni, non avevano rispettato il disposto dell’art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300 sull’obbligo di preventiva contestazione degli addebiti.

La società (omissis), costituitasi, negava la violazione delle regole sul procedimento disciplinare.

Con sentenza del 2 febbraio 1996 il Pretore rigettava la domanda.

L’appello del lavoratore, cui resisteva la società, veniva rigettato dal Tribunale di Sulmona con sentenza del 27 settembre/6 ottobre 2000.

I giudici di secondo grado ritenevano che il fatto (essere stato sorpreso a dormire durante un turno di sorveglianza) era stato regolarmente contestato con nota del 9.3.1994; che con il telegramma del 9.3.1994 il lavoratore non aveva fornito alcuna giustificazione, limitandosi a negare in modo generico il fatto ascrittogli; che l’inciso “avendo ritenuto gravissime le sue affermazioni”, contenuto nel provvedimento irrogativo della sanzione, andava interpretato come presa d’atto, da parte del datore di lavoro, della insufficienza delle giustificazioni a sua difesa.

Il Tribunale ravvisava giusti motivi per compensare fra le parti le spese di entrambi i gradi di giudizio.

Per la cassazione di tale decisione ricorre, formulando due motivi di censura, (omissis).

L'(omissis) s.r.l., già (omissis) Città di L’Aquila e Provincia – (omissis) s.r.l., resiste con controricorso, con il quale eccepisce, in via preliminare, la inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione, per essere stata fatta non presso il procuratore costituito in appello, ma presso il procuratore esclusivamente domiciliatario. Con lo stesso controricorso viene proposto sostanziale ricorso incidentale, ancorché privo di apposito titolo, avverso la parte della sentenza che ha compensato, per giusti motivi, le spese dei due gradi di merito.

Diritto

Motivi della decisione

Va preliminarmente esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso principale per asserita inesistenza della notifica.

Dall’esame della sentenza qui impugnata risulta che l’Istituto resistente era rappresentato, in appello, dall’avv. (omissis) ed era elettivamente domiciliato in Sulmona, via (omissis), presso lo studio dell’avv. (omissis).

Il ricorso per cassazione risulta notificato, in data 5 ottobre 2001, “all'(omissis) Città di L’Aquila e Provincia (omissis) s.r.l., in persona del legale rappresentante pro-tempore e per esso al Procuratore domiciliatario Avv. (omissis) con studio in Sulmona alla via (omissis) mediante consegna a mani proprie del domiciliatario nella persona dell’Avv. (omissis)”.

L’orientamento invocato dal ricorrente (Cass., 29 gennaio 1993 n. 1143; 6 luglio 1982 n. 4036), secondo il quale la notificazione dell’atto di impugnazione non viene ad esistenza, con la conseguente preclusione della sanatoria, quando sia stata effettuata alla parte non presso il suo procuratore costituito nel giudizio di appello, bensì presso il domiciliatario di questi a norma dell’art. 82 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37, è stato superato dalla più recente giurisprudenza. Con sentenza del 5 novembre 1998 n. 11111, conforme a Cass. 11 dicembre 1987 n. 9164, la Corte ha ritenuto che la notificazione dell’atto di appello effettuata, anziché al procuratore costituito a norma dell’art. 330 c.p.c., al procuratore domiciliatario di quest’ultimo, non è inesistente ma nulla e, conseguentemente, passibile di sanatoria ex tunc per effetto della costituzione in giudizio dell’appellato, anche se avvenuta al solo scopo di eccepire il vizio de quo, avendo la notificazione raggiunto, comunque, il suo scopo, ed essendo altresì astrattamente idonea a raggiungerlo, per essere diretta a persona avente pur sempre un collegamento con il legittimo destinatario dell’atto.

Tale più recente indirizzo trova conforto in Cass., S.U., 10 ottobre 1997 n. 9859, per la quale l’inesistenza è limitata ad una discrepanza assoluta dal modello legale, mentre le divergenze di minore entità si inquadrano nella nullità.

Alla luce di tale orientamento, cui il Collegio ritiene di dare continuità, l’eccezione di inammissibilità del ricorso va rigettata; la notificazione a mani dell’avv. (omissis), domiciliatario della (omissis), già (omissis) Città dell’Aquila e Provincia (omissis) s.r.l., non è inesistente ma nulla ed è stata sanata dalla costituzione della società.

Con il primo motivo, denunciando violazione dell’art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, la difesa del signor (omissis) deduce che i giudici di appello hanno omesso di rilevare che il tenore del provvedimento disciplinare evidenziava che la sanzione era stata inflitta a causa delle “gravissime affermazioni” contenute nel telegramma del 19.3.1994 e non dell’addebito contestato con nota del 9 marzo 1994.

Riporta il testo della nota di contestazione: “Il giorno 25.2.1994 alle ore 2,40 mentre era in servizio presso lo stabilimento (omissis) veniva sorpreso a dormire dall’Appuntato (omissis) e dal rappresentante sindacale sig.(omissis). Restiamo in attesa conoscere le osservazioni che, in merito, vorrà fornire”.

Riporta il testo del telegramma del 19.3.1994: “In risposta alla Vostra contestazione ricevuta il 14.03.1994 faccio presente che mi sono sempre comportato diligentemente e correttamente nell’espletamento delle mie mansioni e rigetto, pertanto, il fatto contestatomi in quanto falso e pretestuoso”.

Riporta, infine, il testo del provvedimento disciplinare dell’8 aprile 1994: “OGGETTO: PROVVEDIMENTO DISCIPLINARE In riferimento alla ns. del 9 Marzo c. a. e sue del 8 e 19 Marzo c. a., avendo ritenuto gravissime le sue affermazioni, siamo con la presente a comminarle n. 6 giorni di sospensione in data da destinarsi”.

Espone che aveva impugnato il provvedimento e promosso la costituzione del Collegio di conciliazione e arbitrato, per mancata contestazione dell’addebito, atteso che la società aveva comminato la sanzione non già perché egli si sarebbe addormentato sul posto di lavoro, ma avendo giudicato gravissime le affermazioni contenute nell’esposto denuncia del 7 marzo 1994 (esposto che, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, non riporta) e nel telegramma del 19 marzo 1994.

Deduce che la sentenza impugnata, nel ritenere che l’inciso contenuto nel provvedimento disciplinare potesse “ragionevolmente essere interpretato come presa d’atto da parte del datore della insufficienza delle giustificazioni allegate dal lavoratore a propria difesa, e dalla necessità di dare seguito alla irrogazione della sanzione, in relazione alla originaria mancanza”, ha male interpretato l’inequivocabile tenore letterale della nota dell’8 aprile 1994.

Aggiunge che, in ipotesi, la sanzione disciplinare risulterebbe irrogata non solo per l’episodio del 25 febbraio 1994, ma anche per le gravi affermazioni del ricorrente.

Con il secondo motivo, denunciando vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia, la difesa del ricorrente deduce che il Tribunale non ha tenuto conto che, prima del telegramma del 19.3.1994, il (omissis) aveva già provveduto a discolparsi, raccontando i fatti accaduti la notte del 25 febbraio 1994 nell’esposto denuncia del 7 marzo 1994.

Assume che la motivazione della sentenza impugnata è contraddittoria nella parte in cui afferma che “… valorizzando il senso letterale delle parole e la connessione fra esse, emerge piuttosto come l’inciso in questione possa essere interpretato come presa d’atto da parte del datore della insufficienza delle giustificazioni allegate dal lavoratore a propria difesa, e dalla conseguente necessità di dare seguito alla irrogazione della sanzione, in relazione alla originaria mancanza”. Sostiene che, se il datore di lavoro avesse ritenuto insufficienti le giustificazioni del lavoratore, non avrebbe dovuto fare altro che affermare che le giustificazioni addotte erano insufficienti.

I due motivi del ricorso principale, che si trattano congiuntamente in considerazione della loro connessione, non sono fondati.

Con essi si denuncia, in sostanza, una generica violazione delle regole di ermeneutica contrattuale, con particolare riferimento all’art. 1362 c.c., nonché vizio di motivazione, in ordine alla interpretazione che il Tribunale ha dato della nota dell’8 aprile 1994.

La censura si concreta, però, nella semplice contrapposizione di una diversa interpretazione a quella data dal Tribunale, e nell’insistito riferimento al senso letterale della espressione “avendo ritenuto gravissime le sue affermazioni”.

Ma il Tribunale ha dato una interpretazione del provvedimento alla luce di tutta la vicenda; partendo, quindi, dalla contestazione del fatto (l’essere stato, il lavoratore, sorpreso addormentato durante un turno di servizio), dalla ritenuta assenza di giustificazioni, dal conseguente esercizio del potere disciplinare.

Si tratta di una interpretazione ragionevole, che non risulta confliggere con le regole di ermeneutica né presenta illogicità o contraddizioni.

Del resto il ricorrente neppure spiega in cosa è consistita la violazione delle regole di ermeneutica nella interpretazione seguita dal giudice di appello, né tantomeno contesta la ritenuta insussistenza di giustificazioni (in ordine alle quali si limita a sostenere di averle fornite, anche se non con il riportato testo del telegramma del 19.3.1994, ma con un esposto-denuncia stranamente precedente alla riferita data di ricevimento della contestazione, esposto-denuncia che si guarda bene dal riportare in ricorso, con violazione del noto principio di autosufficienza di questo mezzo di impugnazione).

Il ricorso principale va pertanto rigettato, non sussistendo nella interpretazione che il giudice del merito, nel suo istituzionale potere di interpretazione del fatto, ha dato della nota che irrogava la sanzione disciplinare, alcuna violazione di legge né vizio di motivazione.

Quanto al ricorso incidentale, che, seppur privo di intestazione, la resistente ha proposto con la contestazione della compensazione delle spese dei due gradi del giudizio di merito operata dal giudice di appello, anche tale ricorso è infondato e va rigettato.

È consolidato, infatti, l’orientamento secondo il quale l’apprezzamento dei giusti motivi che, in alternativa alla soccombenza reciproca, consentono la compensazione totale o parziale delle spese di giudizio, integra una valutazione di tipo equitativo, senza che sussista l’obbligo del giudice di specificare tali motivi, essendo la statuizione relativa assistita da una presunzione di conformità a diritto (v., fra le tante, Cass., 12 marzo 1999 n. 2216; 11 febbraio 2002 n. 1898; 1 ottobre 2002 n. 14095).

Si ritiene equo compensare per la metà, fra le parti, le spese di questo giudizio di legittimità, in considerazione del rigetto di entrambi i ricorsi; la restante metà va posta a carico del ricorrente principale, atteso il diverso rilievo delle due impugnazioni.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale ed il ricorso incidentale; compensa per la metà, fra le parti, le spese di questo giudizio di legittimità e condanna il ricorrente principale, (omissis), al rimborso, nei confronti della società resistente, della restante metà di tali spese, che liquida, nell’intero, in € 13,00 per spese ed in € 2.500,00 per onorario di avvocato.Così deciso in Roma il 3 dicembre 2003.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 26 APR. 2004.

Allegati

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