Svolgimento del processo
Essendo stati — previa contestazione degli addebiti e successiva sospensione cautelare — licenziati con lettera dell’11 marzo 1980 della società «(omissis)» alle cui dipendenze prestavano la loro opera rispettivamente, come tecnico di radiologia o come infermiera presso l’«(omissis)» di Latina – per avere, entrambi, con un esposto al procuratore della repubblica, affisso anche nella bacheca di un locale dell’istituto accessibile al pubblico, con un esposto alle autorità regionali, con una intervista del TG/2 e con altre dichiarazioni, e la seconda anche con una intervista a (omissis), diffuso notizie che discreditano l’attività dell’Istituto e per avere ancora, la seconda, indebitamente partecipato allo sciopero del personale di un reparto diverso dal suo, risposto con arroganza alla richiesta di giustificazioni del suo comportamento e rifiutato la instaurazione di un dialogo costruttivo con la direzione, (omissis) e (omissis) adirono con separati ricorsi del 15 luglio successivo il Pretore di Latina perché accertasse la legittimità del loro comportamento, da ritenersi contenuto nei limiti di una corretta, fondata e doverosa denunzia di disservizi dell’istituto, e la illegittimità, per converso, dei disposti licenziamenti, nonché, per la (omissis), di una sospensione per cinque giorni inflittale nel novembre precedente, e perché in conseguenza quel giudice ordinasse — come già era stato vanamente richiesto in via di urgenza — la loro reintegrazione nei posti di lavoro e condannasse la convenuta a risarcirli dei danni.
Le domande, contrastate dalla (omissis), vennero dal pretore rigettate, previa riunione dei procedimenti, con sentenze del 15 giugno-10 luglio 1981, sul rilievo che il comportamento degli attori si era tradotto in gravi effetti diffamatori in danno della società convenuta esorbitanti dai limiti del diritto di critica e
come tali incompatibili con la prosecuzione del rapporto; ma su appello dei soccombenti esse vennero poi accolte dal Tribunale di Latina con sentenza del 6 giugno-8 luglio 1982 sull’opposto assunto che i fatti divulgati dai due lavoratori, essendo «sostanzialmente rispondenti» – come in particolare risultava anche da nuovi elementi probatori acquisiti in seconde cure – «alla reale situazione esistente all’interno dell’istituto», non comportavano un «risultato di discredito e diffamatorio su un piano di oggettiva rilevanza effettuale».
Contro quest’ultima decisione la (omissis) ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi, da ultimo illustrati anche con memoria.
I due lavoratori hanno proposto controricorso.
Motivi della decisione
Col primo mezzo del ricorso si fa carico al giudice a quo di violazione e falsa applicazione degli art. 2094, 2104, 2105, 2110, 1175 e 1375 c.c., nonché delle leggi sanitarie e in materia di gestione delle case di cura e dell’impiego dei medici specializzati, con particolare riguardo alla 1. n. 1203 del 1965 e al d.p.r. n. 680 del 1968, nonché di carenza e contraddittorietà di motivazione anche per travisamento di fatti essenziali: per avere appuntato il suo esame, anziché sulla compatibilità, con particolare riferimento al requisito della fiducia, della condotta dei lavoratori con la prosecuzione dei rapporti, sulle presunte carenze e colpe sulla gestione dell’azienda, nel presupposto che «l’indagine sull’intento diffamatorio, scandalistico da parte del dipendente non costituisce un prius per la valutazione del comportamento che in ipotesi legittima l’intervento della sanzione disciplinare» e che questo dovesse ritenersi giustificato «fin tanto che i fatti denunciati siano rispondenti al vero e lo strumento di diffusione utilizzato sia contenuto in quello che nel momento storico delineato venga ritenuto come una normale esplicazione del diritto di critica»; per essersi in conseguenza occupato solo di «stabilire quanto di vero (o non di vero) sia contenuto nelle affermazioni diffuse, con vari strumenti, dai due dipendenti, questa volta abbandonando lo schema delle lettere di contestazione e direttamente puntando sugli enunciati formulati», mentre una più completa indagine estesa agli intenti dei due dipendenti avrebbe messo in luce come la loro condotta si fosse posta in «radicale contrasto con l’obbligo di collaborazione e col vincolo fiduciario» perché costituita da una «sistematica opera di denigrazione dell’azienda» messa in atto con dolo, senza fini costruttivi e, in ragione dei mezzi adoperati, con particolare efficacia; per avere sottoposto a verifica il fondamento solo di talune — e non delle più gravi, come quelle di falso, truffa, condotta antisindacale, omissione di atti di ufficio e abuso di potere — delle accuse che i resistenti avevano mosso all’azienda con i loro esposti e con le loro dichiarazioni e senza tener conto dell’esito negativo che le accuse stesse avevano avuto in sede giudiziaria e amministrativa; per avere compiuto tale verifica, oltreché con riferimento ad imprecisate, inammissibili e comunque inesistenti risultanze probatorie emerse in grado di appello, sulla base di presupposti erronei o indimostrati, tanto in diritto — come quello che le radiografie non potessero essere eseguite autonomamente dal personale paramedico, secondo quanto è
invece previsto dal combinato disposto dalla l. n. 1203/65 e dal d.p.r. n. 680/68, che fosse illecito l’impiego a tale fine a tempo limitato di due tecnici sottufficiali dell’aeronautica, o che fosse obbligatoria l’assunzione in pianta-stabile e la continua presenza di medici radiologi, analisti e cardiologi — quanto in fatto — come la pretesa necessità tecnica di tali presenze, il preteso «mistero» del decesso post-operatorio di un ricoverato, che invece era stato giudiziariamente accertato essere dipeso da cause naturali, o i gravi pericoli corsi dai pazienti, o la inefficienza, realtà solo marginalmente, temporaneamente o rimediabilmente verificatasi delle c.d. cardioline.
Col secondo mezzo si denunziano violazione e falsa applicazione degli art. 414, 416, 421 e 437 c.p.c. e carenza e contraddittorietà di motivazione su un punto essenziale della controversia,anche per travisamento dei fatti, con riferimento alla meramente affermata acquisizione in grado di appello di nuove e non specificate prove documentali di rilevanza tale da indurre a dissentire dalle conclusioni cui era pervenuto il pretore e alla del pari meramente affermata non opposizione dell’appellata a tale acquisizione, in realtà non desumibile da alcun comportamento significativo; e con evidenziazione, nelle congetturali ipotesi che le nuove prove dovessero concernere il fatto che i paramedici sottufficiali dell’aeronautica erano mariti di due dipendenti dell’istituto, della assoluta irrilevanza dello stesso.
Col terzo mezzo si ravvisano violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 c.c. e dell’art. 7 l. n. 300/70 e carenza e contraddittorietà di motivazione su di un punto decisivo della controversia nel fatto che il tribunale ha affermato, in contrasto con la ritenuta piena legittimità del comportamento dei resistenti, la sproporzione rispetto ad esso della sanzione del licenziamento, e ciò senza alcun ragguaglio delle ragioni del suo convincimento.
Col quarto mezzo, infine, si esprime doglianza — sotto il profilo della violazione e falsa applicazione dell’art. 18 l. n. 300 del 1970 e dagli art. 1223 ss. e 2697 c.c. e sotto quello della carenza e contraddittorietà della motivazione per la condanna della ricorrente ad un risarcimento in favore dei resistenti commisurato senz’altro all’ammontare delle retribuzioni non corrisposte fino alla data della sentenza, laddove sarebbe stata necessaria, per quanto eccedeva il limite minimo di cinque mensilità fissato dalla legge, una valutazione in concreto del pregiudizio effetivo patito dai lavoratori.
Esaminati congiuntamente in ragione della loro stretta inter connessione, i primi tre motivi del ricorso appaiono fondati nei limiti delle considerazioni che seguono.
I principi enunciati dal tribunale a fondamento della sua decisione — che, cioè, l’indagine sull’intento diffamatorio «è secondaria» rispetto a quella sulla «oggettiva rilevanza effettuale» di un «risultato di discredito» e che la rispondenza al vero dei fatti denunziati ed il contenimento dello «strumento di diffusione utilizzato … in quello che nel particolare contesto … venga ritenuto … normale esplicazione del diritto di critica» — vanno in primo luogo integrati con le precisazioni che l’elemento soggettivo necessario alla configurazione di un illecito civile (costitutivo, in ipotesi, ex art. 2043, 2106 e 2119 c.c., di responsabilità extracontrattuale o disciplinare o di giusta causa di recesso) può consistere, oltre che nel dolo (in cui si traduce il menzionato «intento diffamatorio»), anche nella colpa dell’agente e che, per contro, la verità dei fatti divulgati di per sé non basta, neppure in rapporto alla responsabilità penale, ad escludere l’illiceità di una azione diffamatoria.
Va poi osservato che il diritto di critica, che a giustificazione del proprio operato i resistenti adducono di avere nel caso esercitato, è, come il diritto di cronaca, una specificazione del generale diritto, a «tutti» direttamente attribuito dall’art. 21 Cost., «di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, con lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione » e che questo trova naturali limiti nella necessità del suo contemplamento con altri diritti concernenti beni di pari rilevanza costituzionale, tra cui in particolare i diritti fondamentali della personalità, della cui ratio è esso stesso evidentemente partecipe — anche se nella Carta costituzionale è specificamente considerato sotto il profilo della utilità politico-sociale — in ragione del fatto che la personalità essenzialmente si estrinseca e ristruttura proprio nella comunicazione e perciò stesso costituisce il cardine e il nucleo di sviluppo della socialità (con la conseguenza, per converso, della effettualità autolesiva e al limite autodistruttiva per la personalità dell’agente di ogni comportamento antisociale).
Quando, dunque, il diritto di critica sia esercitato in maniera da ledere obiettivamente l’onore o la reputazione o un altro attributo fondamentale della personalità, come tale direttamente tutelato dall’art. 2 e indirettamente — per il suo riferimento alla «dignità» — dall’art. 3 Cost., la liceità di esso viene a porsi in rapporto di necessaria dipendenza dell’esistenza di una causa di giustificazione che possa operare — alla stregua dei casi considerati dagli art. 51 ss. c.p. — come discriminante, e la giustificazione non può essere ravvisata se non in riferimento al valore che l’ordinamento esplicitamente e implicitamente attribuisce all’interesse concreto in funzione del quale la critica è svolta. In altri termini: il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero in forma critica non basta di per sé a legittimare la lesione di beni costituzionalmente garantiti, ma questa può essere giustificata se — e in tanto in quanto <cfr. Cass. 24 ottobre 1983, imp. Zollo, Foro.it, 1984, II, 386; 30 giugno 1984, imp. Ansaloni, id., 1984, II, 531; 18 ottobre 1984, n. 5229, id., 1984, I, 2711) — l’azione che la pone in essere sia ragionevolmente e prudentemente ordinata al soddisfacimento di interessi di rilievo (sul piano giuridico) almeno pari a quello del bene leso.
Nell’ambito, poi, del rapporto di lavoro — caratterizzato, come si sa, dalla natura personale delle prestazioni — il diritto di critica del dipendente nei confronti del datore di lavoro (in quanto tale non codificato) si atteggia in modo particolare in ragione degli obblighi di collaborazione, fedeltà e subordinazione del primo, che lo autorizzano, da un canto, ad ingerirsi nelle modalità di esercizio dell’attività dell’imprenditore sotto il profilo dell’incidenza che questa ha sulle condizioni di vita e di lavoro dei prestatori d’opera e accentuano, dall’altro, il dovere di chiunque di astenersi, in assenza di adeguate ragioni, dalla diffusione di notizie e giudizi pregiudizievoli all’esercizio dell’impresa.
Per la decisione della controversia occorreva dunque nel caso in esame gradualmente stabilire se: i comportamenti addebitati ai due resistenti, considerati nel loro complesso, si fossero tradotti in obiettiva lesione della reputazione dell’istituto ricorrente (e dei suoi dirigenti); se le accuse e i giudizi, in ipotesi, diffamanti fossero stati espressi in obiettiva funzione di interessi giuridicamente rilevanti; se le modalità e l’ambito di diffusione delle accuse e dei giudizi fossero da ritenersi ragionevolmente adeguati alle esigenze di tutela dei detti interessi (Cass. 22 ottobre 1976, n. 3792, id., Rep. 1976, voce Lavoro (rapporto), n. 833; 17 maggio 1979, n. 2846 id., Rep. 1979, voce cit., n. 1079; 12 aprile 1984, n. 2375, id., Rep. 1984, voce Sindacati, n. 58) o se i fatti denunziati fossero in tutto o in parte veri o fossero stati comunque nella loro verità e gravità prudentemente apprezzati dai propalatori; se, nell’ipotesi di accertamento indicativo della illiceità della condotta di questi, la stessa dovesse essere loro imputata a titolo di dolo o di colpa; e da ultimo, se tale condotta, valutata nel suo aspetto oggettivo e in quello soggettivo e con particolare riferimento al requisito della fiducia, venisse a risultare, oppur no, compatibile con la prosecuzione dei rapporti in questione.
Ora il tribunale, come viene diffusamente lamentato dal ricorrente, ha affermato la verità in genere dei fatti denunziati dai resistenti, trascurando però alcuni dei contenuti dei loro esposti e delle loro dichiarazioni; non ha in alcun modo considerato l’entità degli effetti della loro divulgazione sulla reputazione dell’istituto e raffrontato la stessa a quella, singola e globale, dei ritenuti disservizi, giustapposti, peraltro, alla constatazione che le attività esercitate dall’istituto con l’impiego, seguito sempre da «risultati pregevoli», di «tecniche di avanguardia», lo avevano «imposto all’attenzione internazionale»; ha categoricamente asserito, in discordanza dai più articolati e comprensivi principi sopra esposti che «costituisce diritto del dipendente, non solo la tutela, con ogni mezzo, della dignità del proprio lavoro, ma anche di estrinsecare con comportamenti adeguati l’intento di non assumere una posizione di connivenza e di tolleranza rispetto a deficienze organizzative ed operative; ha senza il sostegno di una motivazione specifica che tenesse analiticamente conto delle considerazioni svolte al riguardo in fatto e in diritto dall’istituto, in correlazione con tale enunciato senz’altro ritenuto «né sproporzionato, né tendenzialmente rivolto a rappresentare condizioni di inefficienza non rispondenti alla realtà… il parlare con riferimento alla mancanza di un cardiologo a tempo pieno e di turni
di medici specialisti, alla inefficienza degli apparecchi per eseguire l’e.c.g., alla assenza di un medico radiologo… di grave pericolo per la salute dei pazienti e di sconcio …, giudicato «gli strumenti adoperati in perfetto equilibrio con la finalità, legittima, di informare l’opinione pubblica ed altresì obiettivamente non diffamatori» e giustificata dalla legittimità delle proteste «anche l’affisione della copia dell’esposto alla procura nella bacheca dei locali dell'(omissis) esposti al pubblico»; ed è infine pervenuto sul la sola base di cosiffatte considerazioni alla conclusione che «il comportamento dell'(omissis) e della (omissis) non era tale da rendere legittimo o quanto meno proporzionato il licenziamento per giusta causa e come sanzione disciplinare».
Tanto basta, a giudizio del collegio, per stabilire, senza bisogno di scendere ad ulteriori dettagli, la necessità dell’accoglimento per quanto di ragione dei primi tre motivi del ricorso; con la conseguenza, risultando in questa conclusione eveidentemente assorbito il quarto motivo, della cassazione della sentenza impugnata e dal rinvio della causa, per nuovo esame informato agli esposti principi, ad altro giudice di appello, che si designa, nel contempo commutandogli il regolamento delle spese di questo giudizio, nel Tribunale di Frosinone.
P.Q.M.
La Corte accoglie per quanto di ragione i primi tre motivi del ricorso; dichiara assorbito il quarto motivo; cassa la sentenza impugnata; rinvia la causa per nuovo esame al Tribunale di Frosinone, che provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 25 giugno 1985.