Massima

In materia di orario di lavoro nell’ambito dell’attività infermieristica, nel silenzio della contrattazione collettiva (nella specie, c.c.n.l. comparto sanità pubblica del 7 aprile 1999), il tempo di vestizione-svestizione dà diritto alla retribuzione, al di là del rapporto sinallagmatico, trattandosi di obbligo imposto dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene, riguardanti sia alla gestione del servizio pubblico sia la stessa incolumità del personale addetto.

Supporto alla lettura

ORARIO DI LAVORO

L’orario di lavoro è quel periodo in cui il lavoratore è al lavoro e a disposizione del datore di lavoro, con l’obbligo di esercitare la sua attività o le sue funzioni. Qualsiasi periodo che non rientra nell’orario di lavoro è definito come periodo di riposo.

Un’importante limitazione definita dalla legge, ed integrata dalla contrattazione collettiva, riguarda invece il lavoro notturno.

Si distingue inoltre tra:

  • orario di lavoro normale: fissato in 40 ore settimanali (anche se ci sono deroghe a questa regola generale introdotte dalla legge);
  • orario di lavoro straordinario: eccedente il normale orario di lavoro e che, per espressa disposizione di legge, deve essere contenuto nonchè remunerato a parte e compensato con maggiorazioni previste dal contratto collettivo, che a sua volta può consentire, in alternativa o in aggiunta, che i lavoratori fruiscano di riposi compensativi. La legge prevede però dei casi in cui lo straordinario è comunque ammesso, a prescindere dalla volontà del singolo lavoratore, e salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi (es. eccezionali esigenze tecnico-produttive; casi di forza maggiore; mostre, fiere e manifestazioni collegate all’attività produttiva)

In ogni caso si desume il diritto al riposo del lavoratore dopo sei giorni consecutivi di lavoro.

In merito al tema della reperibilità, oggetto di possibili modifiche, sono previsti precisi diritti del lavoratore tenuto ad essere reperibile di domenica; mentre, oggetto di numerose controversie è il tempo necessario al lavoratore per indossare la divisa di lavoro: secondo un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale esso deve essere ricompreso nell’orario di lavoro (cd. “tempo tuta”).

Ambito oggettivo di applicazione

Fatto
RILEVATO

che con sentenza in data 20.2.2012, la Corte di Appello di Ancona, in parziale accoglimento dell’appello avverso la sentenza n. 36 del 2007 del Tribunale della medesima città, ha dichiarato il diritto di (omissis) ed altri quattordici infermieri presso vari reparti dell’Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti Umberto I -G.M. Lancisi- G. Salesi di Ancona, alla retribuzione del tempo delle operazioni propedeutiche per la vestizione della divisa di dotazione per dieci minuti prima di ciascun turno di lavoro, condannando l’Azienda a retribuire tale tempo di lavoro, con decorrenza dal 19 dicembre 2002 al primo settembre 2004;

che avverso la sentenza della Corte territoriale l’azienda Ospedaliera propone ricorso affidato a due motivi, cui resistono i lavoratori con controricorso;

che la Procura Generale ha depositato le proprie conclusioni chiedendo il rigetto del ricorso;

che il  (omissis) e gli altri controricorrenti hanno depositato memoria.

Diritto
CONSIDERATO CHE:

1. con il primo motivo l’Azienda ricorrente deduce omessa insufficiente o contraddittoria motivazione circa l’esercizio del potere direttivo dell’azienda sanitaria nella imposizione della operazione di vestizione del camice di dotazione, fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) per difetto di esame e di valutazione del risultato dei mezzi di prova che nel corso del primo grado di giudizio hanno avuto a specifico oggetto l’attività di vestizione e svestizione del camice – violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.;

2. con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 26, comma 1 e art. 4, comma 2 punto 8^ dell’accordo collettivo nazionale di lavoro CCNL del personale del Comparto Sanità Pubblica 7.4.1999 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), che fissano il limite dell’orario di lavoro in 36 ore e che dispongono che in sede di contrattazione integrativa siano regolati i criteri per le politiche dell’orario di lavoro; 1.1. sul primo motivo, il collegio osserva che il ricorrente non censura l’adozione del criterio discretivo adottato dalla Corte d’appello secondo cui è ricompreso nel lavoro effettivo il tempo dedicato alla vestizione, qualora tale operazione sia sottoposta al potere organizzativo del datore di lavoro, che ne disciplina tempo e luogo. La censura riguarda il vizio di motivazione che consisterebbe nell’aver ritenuto sussistente il potere direttivo nell’imposizione dell’operazione di vestizione del camice e nella violazione delle norme processuali in tema di valutazione delle prove;

Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato. Inammissibile in quanto diretto alla rivalutazione delle risultanze istruttorie al fine di ottenere una diversa valutazione di merito ed infondato in quanto non viene evidenziato in che cosa consista la violazione del disposto di cui agli artt. 115 e 116 c.p.c., rientrando anzi, nel potere del giudice di merito, la individuazione delle fonti del proprio convincimento, l’apprezzamento delle prove, il controllo dell’attendibilità dei testimoni, l’affidabilità e la concludenza e la scelta tra le varie risultanze istruttorie di quelle ritenute idonee e rilevanti, con l’unico limite di supportare con logica ed idonea motivazione l’accertamento eseguito;

2.1. il secondo motivo è infondato, ritenendo il collegio di dare continuità al principio affermato da questa Corte (Cfr. Cass. n. 27799 del 2017) secondo il quale, nel silenzio della contrattazione collettiva, il tempo di vestizione/svestizione dà diritto alla retribuzione, al di là del rapporto sinallagmatico, trattandosi di obbligo imposto dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene, riguardanti sia la gestione del servizio pubblico sia la stessa incolumità del personale addetto;

3. per le esposte motivazioni il ricorso deve essere rigettato;

4. le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo;

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso;condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 24 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2018.

Allegati

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