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Cassazione civile sez. lav., 24/04/2020, n. 8167

Massima

E’ illegittimo stabilire un limite minimo di statura per il lavoratore che, in definitiva, dovrà svolgere mansioni amministrative, anche se collegate a un servizio, come quello delle ferrovie, che richiede di manovrare impianti e impone dunque una certa prestanza fisica. Risulta contro i principi costituzionali, poi, la previsione di livello minimo di altezza che sia identico per uomini e donne. E laddove la disposizione scaturisca da un decreto ministeriale come nel caso del settore dei trasporti la legittimità del provvedimento deve essere apprezzata dal giudice del merito che può anche disapplicarlo.

Supporto alla lettura

DISCRIMINAZIONE DI GENERE

L’evoluzione della legislazione in applicazione dei principi di parità tra uomini e donne introdotti con la Costituzione può essere descritta come una parabola ascendente, che si è sviluppata inserendo progressivamente nel tessuto normativo nuovi strumenti di analisi della realtà e nuovi strumenti di intervento. Si possono ravvisare, in particolare, tre tappe nella suddetta evoluzione legislativa, che possono essere così riassunte:

  1. la fase dei divieti di discriminazione;
  2. la fase delle pari opportunità;
  3. la fase della considerazione delle differenze nelle generali politiche del diritto.

Posto che le identità dei lavoratori sono inevitabilmente diverse, il legislatore ha costruito un diritto speciale con cui, attraverso innanzitutto le prime due fasi, ossia i divieti di discriminazione e gli strumenti di diritto diseguale, ha perseguito la finalità di garantire che i soggetti “diversi” non risultassero penalizzati dalle loro differenze, e che avessero pari opportunità di lavoro e nel lavoro.

La L. 903/1977 (c.d. “Legge di parità”) ha affermato il principio di parità, o meglio di non discriminazione, estendendolo alla disciplina dei rapporti di lavoro in tutti i suoi aspetti e nei momenti preliminari alla costituzione dei medesimi. Ha quindi esteso il divieto di discriminazione fondata sul sesso al complessivo trattamento della lavoratrice sia nell’accesso al lavoro sia nello svolgimento del rapporto, in funzione della realizzazione della parità dei diritti tra lavoratori in ragione del sesso.

L’art. 1 della suddetta legge (ora trasfuso nell’art. 27 D. Lgs. 198/2006 “Codice delle pari Opportunità”) dispone espressamente il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma, o in qualsiasi altra forma, indipendentemente dalle modalità di assunzione (ossia tramite i servizi pubblici per l’impiego, o agenzia privata di collocamento, o in caso di assunzione diretta, oggi generalizzata dal D.Lgs. 276/2003, o in caso di meccanismi di selezione di tipo concorsuale) e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale. Deroghe alla tutela antidiscriminatoria sono state previste in caso di assunzione in attività della moda, dell’arte e dello spettacolo, nelle quali legare l’assunzione all’appartenenza all’uno o all’altro sesso non costituisce discriminazione, quando ciò sia essenziale alla natura del lavoro o della prestazione.

La parità di trattamento retributivo, ai sensi dell’art. 2 L. 903/1977 (ora trasfusa nell’art. 28 D. Lgs. 198/2006) opera quando le prestazioni richieste siano uguali o di pari valore. Tale tutela paritaria è riferita espressamente alle mansioni assegnate (e in questo senso deve intendersi anche l’espressione “parità di lavoro” utilizzata dall’art. 37 Cost.), a prescindere da qualsiasi considerazione legata al rendimento individuale. Inoltre, in tema di inquadramento professionale, strettamente connesso alla retribuzione, i sistemi di classificazione devono adottare criteri comuni per uomini e donne; si considerano, quindi, illegittime le classificazioni separate per sesso e le distinzioni a fini retributivi tra lavori considerati tipicamente maschili e lavori ritenuti femminili. Sono altresì vietate le discriminazioni nell’attribuzione di mansioni e di qualifiche e nella progressione di carriera.

La L. 125/1991 (modificata dal D.Lgs. 196/2000 e dal D.Lgs. n. 145/2005, in attuazione della Direttiva n. 2002/73/CE, e ora trasfusa nel D. Lgs. n. 198/2006) ha esteso la tutela antidiscriminatoria, mediante strumenti e tecniche normative in grado di cogliere le ragioni sostanziali della discriminazione di sesso.

La legge, ha introdotto una nozione generale di discriminazione diretta e indiretta, il testo attuale definisce espressamente:

  • discriminazione diretta: qualsiasi atto o patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole, discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso, e comunque intesa come il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga;
  • discriminazione indiretta: quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori dell’altro sesso.

Dalla violazione del divieto di discriminazione dei lavoratori e delle lavoratrici per ragioni di sesso deriva, secondo l’art. 13 della L. 903/1977, la sanzione della nullità dell’atto (o patto) discriminatorio. In particolare, in applicazione dell’art. 15 L. 300/1970 (“Statuto Lavoratori”), riformato proprio dall’art. 13 della L. 903/1977, è nullo qualsiasi atto o patto diretto a discriminare il lavoratore per motivi di sesso. Gli atti discriminatori sono dunque impugnabili secondo il rito ordinario e nell’ambito di un’azione di nullità.

Anche a seguito della L. 92/2012 di riforma del mercato del lavoro, il legislatore, per i licenziamenti discriminatori, ha mantenuto ferma la tutela reintegratoria piena: anche a seguito della modifica dell’art. 18 S.L., infatti, la lavoratrice discriminata ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro e all’integrale risarcimento del danno (pari alle mensilità di retribuzione globale di fatto che questa avrebbe dovuto percepire dal giorno del licenziamento nullo a quello dell’effettiva reintegra). Tale indennità non può comunque essere inferiore alle cinque mensilità e da essa va dedotto quanto percepito dalla lavoratrice per l’effettuazione di un’altra attività lavorativa.

Ambito oggettivo di applicazione

Fatto

RILEVATO

– che, con sentenza dell’11 febbraio 2015, la Corte d’Appello di Roma, confermava la decisione resa dal Tribunale di Roma e rigettava la domanda proposta da (omissis) nei confronti di Trenitalia S.p.A., avente ad oggetto la costituzione ex art. 2932 c.c., del contratto di lavoro a tempo indeterminato con inquadramento nel profilo di Capo Servizio Treno, per il quale la Società aveva indetto apposita procedura selettiva e dalla quale la (omissis) era stata esclusa solo perchè dichiarata non idonea per deficit staturale;

– che la decisione della Corte territoriale discende dall’aver questa ritenuto non imputabile alla Società alcun comportamento discriminatorio dovendosi ritenere la ragionevolezza del requisito di altezza, del resto posto a presidio di esigenze di sicurezza ed essendo risultato accertato tramite CTU, disposta in altro giudizio ma legittimamente acquisibile in relazione alla generalità del quesito, l’estrema difficoltà del compimento di operazioni comprese nelle mansioni del soggetto non in possesso del requisito medesimo;

– che per la cassazione di tale decisione ricorre la (omissis), affidando l’impugnazione a tre motivi, cui resiste, con controricorso, la Società che ha poi presentato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

– che, con il primo motivo, la ricorrente, nel denunciare la violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 37 e 117 Cost., imputa alla Corte territoriale di aver dato rilievo a disposizioni regolamentari risalenti e come tali non riferibili al caso di specie in ragione della diversità del regime giuridico del soggetto datore, alla novità del profilo professionale del Capo Servizio Treno, al rinnovamento tecnologico del materiale rotabile, così disconoscendo l’irragionevolezza del limite ed il suo carattere discriminatorio;

– che, con il secondo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 191 e 201 c.p.c., la ricorrente imputa alla Corte territoriale di essersi valsa di una CTU disposta in altro giudizio, disattendendo le regole procedurali relative, con particolare riguardo alla nomina di un consulente di parte ed impedendone così la necessaria valutazione critica, per mutuarne il giudizio a valenza generale reso circa l’inidoneità fisica di un qualsiasi soggetto gravato da deficit staturale;

– che, nel terzo motivo, il vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio è prospettato con riguardo alla decisione resa dalla Corte territoriale di inammissibilità del motivo d’appello relativo alla mancata pronunzia del primo giudice in ordine all’illegittimità del bando relativo alla procedura selettiva, decisione che si assume fondata sull’errato rilievo dell’assenza di una specifica censura;

– che, prendendo le mosse dall’orientamento invalso nella giurisprudenza di questa Corte (cfr., da ultimo, Cass. 4 febbraio 2019, n. 3196 ma già prima Cass. 14 dicembre 2017 n. 30083) cui il Collegio intende dare continuità, orientamento per il quale “in tema di requisiti per l’assunzione, qualora in una norma secondaria sia prevista una statura minima identica per uomini e donne, in contrasto con il principio di uguaglianza, perchè presupponga erroneamente la non sussistenza della diversità di statura mediamente riscontrabile tra uomini e donne e comporti una discriminazione indiretta a sfavore di queste ultime, il giudice ordinario ne apprezza, incidentalmente, la legittimità ai fini della disapplicazione, valutando in concreto la funzionalità del requisito richiesto rispetto alle mansioni”, si deve ritenere infondato il primo motivo atteso che il carattere risalente del limite staturale ed il riferimento ad un profilo professionale non coincidente con quello attuale qui considerato valgono ad indurre soltanto un maggior rigore nella dimostrazione in concreto della congruità tra statura minima e mansioni e, di contro, meritevole di accoglimento il secondo motivo, difettando nell’accertamento della Corte territoriale, basato su una CTU volta a sancire in via generale ed astratta l’inidoneità fisica del soggetto gravato del deficit staturale, la verifica della congruità in concreto tra condizione fisica della (omissis) e le mansioni da espletare, accoglimento da cui consegue l’assorbimento del terzo motivo;

– che, pertanto, rigettato il primo motivo, va accolto il secondo, con assorbimento del terzo e la sentenza impugnata cassata in relazione al motivo accolto con rinvio alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, che provvederà in conformità, disponendo altresì per l’attribuzione delle spese.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo, rigettato il primo ed assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 29 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 aprile 2020

Allegati

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