Ha rilevato che la lavoratrice era addetta alla pulizia delle vetture dei treni, raccogliendo rifiuti, svuotando cestini e portacenere; che il datore di lavoro aveva l’obbligo, D.P.R. n 547 del 1955, ex art. 377 di mettere a disposizione dei lavoratori idonei strumenti di protezione e di mantenerli in buono stato di conservazione in presenza di lavorazioni o di operazioni o condizioni ambientali che presentavano particolari pericoli; che in assenza di specificazione legislativa delle lavorazioni che richiedevano l’uso di mezzi di protezione e dei dispositivi di protezione la nozione di strumento di protezione si caratterizzava in ragione della sua funzione e della diversità delle situazioni.
La Corte ha ritenuto che nella specie le mansioni della lavoratrice si svolgevano nella pulizia di cose e spazi esposti al flusso di persone, a polvere e sporcizia, che richiedevano l’uso di indumenti, sopra quelli privati, idonei a proteggere da agenti che potessero essere di pregiudizio alla salute; che pertanto doveva essere indossato un indumento che rappresentasse uno schermo verso agenti patogeni, con la conseguenza che la tuta di cotone, utilizzata dalla lavoratrice, doveva essere considerata mezzo di protezione con conseguente obbligo dell’azienda di provvedere al lavaggio.
Avverso la sentenza ricorre la soc (omissis) spa. La (omissis) resiste con controricorso. Il Collegio ha autorizzato la motivazione semplificata.
Diritto
Con il terzo motivo la società (omissis) denuncia la violazione dell’artt. 2697, 1175, 1226 e 1227 c.c., oltre ad insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia. Si duole che la sentenza impugnata abbia riconosciuto alla lavoratrice un indennizzo per la pulizia da effettuare con apposite cautele e separazione da altri indumenti, e che tale indennizzo poteva essere equamente stabilito nella misura della retribuzione di un’ora di lavoro straordinario diurno per settimana lavorata, ritenendo così, senza adeguata prova, sussistente un danno alla lavoratrice su cui invece gravava l’onere probatorio, danno da ridursi ai sensi dell’art. 1227 c.c. laddove la lavoratrice aveva contribuito con la sua condotta alla causazione dello stesso, non avendo mai rivendicato l’obbligo datoriale di lavare il vestiario in questione.
I motivi, che per la loro connessione possono congiuntamente esaminarsi, sono infondati.
La questione è stata già esaminata da questa Corte in numerosi precedenti riguardanti la stessa impresa (omissis) (tra le tante cfr. Cass. n. 23005/2014; n 22375/2014; n 17833/2014; n 17589/2014).
La sentenza impugnata ha ritenuto accertato in fatto che la ricorrente svolgeva attività di pulizia delle vetture, raccogliendo i rifiuti, svuotando i cestini e portacenere e che pertanto veniva a contatto con la sporcizia derivante da tale attività sottolineando che l’attività di pulizia di cose e spazi particolarmente esposti ad afflusso di persone comportava l’inevitabile contatto con sostanze nocive o patogene, come la polvere, la sporcizia, residui organici.
Da ciò la Corte ha tratto l’ulteriore conseguenza che gli indumenti usati dalla lavoratrice, ed eventualmente sovrapposti a quelli personali, servissero a fini “igienici”, ovvero di protezione del lavoratore.
A ciò deve aggiungersi che costituisce una questio facti l’identificazione in concreto dei dispositivi di protezione individuale (Cass., 23 giugno 2010, n. 15202): sul punto, la motivazione della sentenza impugnata è sufficientemente e non contraddittoriamente motivata, poichè la Corte territoriale ha accertato in fatto la funzione protettiva svolta dagli indumenti per cui è causa, con una valutazione in concreto che prescinde dalla loro qualificazione o meno in tal senso da parte delle fonti contrattuali richiamate dalla ricorrente. Si consideri, inoltre, che per i lavori di pulizia di ambienti, treni, ecc. la semplice tuta di cotone può considerarsi un (seppur minimo) mezzo o dispositivo di protezione individuale, e non solo strumento identificativo dell’azienda per cui si lavora, e come tale essa deve essere fornita dal datore di lavoro e tenuta in stato idoneo alla funzione. Tali affermazioni appaiono congrue e logiche, a fronte di censure, come quelle in esame, che seppure in larga parte svolte sotto il profilo della pretesa violazione di legge e del contratto collettivo, si risolvono nella inammissibile richiesta di un riesame di circostanze fattuali già vagliate dai Giudici del merito, con motivazione coerente con i dati acquisiti ed immune da vizi logici.
La ricorrente svolge considerazioni che incidono direttamente sul fatto, sollecitandone un riesame da parte di questa Corte, affinchè – rivedendo e ribaltando il giudizio di merito – affermi l’inidoneità delle tute di cui era dotata la lavoratrice a svolgere una qualsivoglia funzione di protezione e, dunque, la mancanza di qualità per essere classificate come dispositivi di protezione individuale, con conseguente insussistenza dell’obbligo dell’azienda di provvedere al loro lavaggio. Giudizio in fatto che è invece precluso a questa Corte.
Circa la sussistenza e entità del danno subito dalla ricorrente, i motivi sono in parte inammissibili e in parte infondati.
Essi, invero, presuppongono accertamenti di mero fatto, inammissibili in questa sede di legittimità, inerenti ai minori costi che la parte datoriale assume che avrebbe sostenuto in ipotesi di tempestiva contestazione della debenza a suo carico del lavaggio, senza che, peraltro, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, neppure siano state indicate le fonti probatorie relative agli indicati elementi di conteggio della spesa occorrente.
I motivi sono altresì infondati nel merito dovendosi ricordare che, come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, i lavoratori hanno diritto alla retribuzione dell’attività lavorativa prestata ed al rimborso delle spese sostenute, per la pulizia degli indumenti di protezione, forniti dal datore di lavoro, risultando affetta da nullità parziale, per contrasto con norme imperative, la clausola, in senso contrario, del contratto collettivo che, sostituita di diritto dalle stesse norme inderogabili, concorre a conformare i contratti individuali di lavoro, sui quali si fondano i diritti alla retribuzione ed al rimborso spese dei lavoratori (cfr, ex plurimis, Cass., 26 giugno 2006, n. 14712; Cass., 11729/2009, cit.; Cass., 18 novembre 2010, n. 23314; cfr., altresì, Cass., 5 novembre 1998, n. 11139). Ne consegue che quand’anche la contrattazione collettiva avesse inteso addossare ai lavoratori le spese di lavaggio dei DPI (il che nella specie deve escludersi, perchè prevedere che il lavoratore debba avere cura della buona conservazione degli indumenti non significa di per sè che debba provvedere al loro lavaggio), una siffatta previsione, siccome contraria a norme imperative, non potrebbe comunque esonerare il datore di lavoro dall’onere delle spese di cui qui si controverte.
Va, altresì, osservato che , nella parte in cui si denuncia la violazione dell’art. 1227 c.c, il motivo si profila inammissibile.
L’ipotesi disciplinata dall’art. 1227 cod. civ., comma 2 laddove esclude il risarcimento del danno che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, costituisce oggetto di una eccezione in senso stretto (Cass., 29 luglio 2003, n. 11672; Cass., 19 dicembre 2006, n. 27123), con la conseguenza che, ove il giudice d’appello non l’abbia esaminata, come nella specie, in sede di legittimità il ricorrente, alla luce del principio di autosufficienza dell’impugnazione, deve indicare le espressioni con cui detta deduzione è stata formulata nel giudizio di merito e quando sia avvenuta la detta deduzione.
Infine circa la quantificazione del danno la Corte territoriale, dato atto dell’impossibilità di una quantificazione precisa dei costi e delle spese sostenute, ha ritenuto congruo riconoscere un’ora alla settimana retribuita come straordinario diurno. Siffatta valutazione equitativa compiuta dalla Corte territoriale, in quanto inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimatività, attiene ad una tipica valutazione di merito non censurabile in sede di legittimità perchè motivata in termini sufficienti e non contraddittori (in tal senso, Cass., 18 aprile 2003, n. 6333 e Cass., 23 luglio 2004, n. 13887).
Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere rigettato.
L’esito tra loro difforme, delle pronunce di merito, consiglia la compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso, compensa le spese processuali del presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 1 luglio 2015.
Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2015
