Massima

In tema di tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, gli indumenti con funzione protettiva dal contatto con sostanze nocive o patogene rientrano tra i dispositivi di protezione individuale, previsti dall’art. 40 della l. n. 626 del 1994 (applicabile “ratione temporis”), sicché rispetto ad essi è configurabile un obbligo a carico del datore di lavoro di continua fornitura e di mantenimento in stato di efficienza. (Fattispecie relativa ad una lavoratrice addetta ad attività di pulizia delle vetture dei treni).

Supporto alla lettura

SICUREZZA SUI LUOGHI DI LAVORO

La sicurezza sul lavoro è quell’insieme di misure, provvedimenti e soluzioni adottate al fine di rendere più sicuri i luoghi di lavoro, per evitare che i lavoratori possano infortunarsi durante lo svolgimento delle loro mansioni.

Si tratta di una condizione organizzativa necessaria ed imprescindibile di cui ogni azienda deve essere in possesso per eliminare o quantomeno ridurre i rischi e i pericoli per la salute dei lavoratori.

Attualmente la normativa di riferimento in materia è costuita dal D. L.gs. 81/2008, il quale prevede, tra le principali misure generali di tutela:

  • la valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza;
  • l’eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo;
  • il rispetto dei prinicipi ergonomici;
  • la riduzione del rischio alla fonte;
  • la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è, o è meno pericoloso;
  • l’utilizzo limitato di agenti chimici, fisici e biologici sui luoghi di lavoro;
  • i controlli sanitari periodici dei lavoratori;
  • l’informazione e formazione in materia di sicurezza per i lavoratori;
  • le istruzioni adeguate ai lavoratori;
  • la programmazione di misure per garantire il miglioramento nel tempo;
  • la gestione delle emergenze;
  • la regolare manutenzione di ambienti, impianti, attrezzature e dispositivi di sicurezza.

L’obbligo di rispettare la normativa inerente alla sicurezza sul lavoro è stabilito nei confronti di ogni lavoratore, ovvero di coloro che rientrano nella definizione contenuta nell’art. 2, lett a) del D. Lgs. 81/2008, i quali svolgono un’attività lavorativa nell’ambito di un’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche solo al fine di apprendimento, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari. Inoltre sono equiparati ai lavoratori anche:

  • il socio lavoratore di cooperativa o di società;
  • l’associato di paretcipazione;
  • l’allievo degli istituti di istruzione ed universitari e il partecipante ai corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori, attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici, ecc…

Il datore di lavoro è la figura principale garante e responsabile della tutela della salute e sicurezza nella propria azienda, infatti egli deve ottemperare a quanto stabilito dalla normativa vigente per garantire la corretta applicazione delle misure atte alla riduzione o alla cancellazione di qualsiasi rischio cui sono esposti i lavoratori:

  • la valutazione dei rischi e la stesura del relativo documento (DVR);
  • il dovere di offrire un ambiente lavorativo sicuro;
  • informare e formare i lavoratori sui rischi presenti in loco;
  • vigilare e verificare il rispetto delle norme antinfortunistiche da parte dei dipendenti;
  • l’adozione di idonee misure di prevenzione e protezione, tra cui i dispositivi di protezione individuale.

Oltre alla figura del datore di lavoro, ci sono anche altri soggetti che hanno un ruolo nella gestione della sicurezza sul lavoro, in particolare: il dirigente per la sicurezza; il preposto per la sicurezza; il responsabile del servizio prevenzione e protezione (RSPP); l’addetto al servizio prevenzione e protezione (ASPP); il medico competente; il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS); il lavoratore, quest’ultimo in particolare è anche soggetto attivo che deve essere consapevole delle condizioni del proprio ambiente lavorativo e deve partecipare alla valutazione dei rischi attraverso il rappresentante dei lavoratori (RLS).

I controlli e la supervisione vengono effettuati da diverse entità, sia a livello governativo che aziendale, per esempio l’ispettorato del lavoro e l’azienda sanitaria locale competente per territorio.

Ambito oggettivo di applicazione

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte d’appello di Milano, in riforma della sentenza del Tribunale di Milano, ha riconosciuto il diritto di (omissis), dipendente della soc (omissis) Ambiente spa con mansioni di pulitrice delle vetture, a percepire dal 3/7/02 la retribuzione straordinaria diurna di un’ora alla settimana quale liquidazione equitativa del tempo impiegato per il lavaggio della tuta.

Ha rilevato che la lavoratrice era addetta alla pulizia delle vetture dei treni, raccogliendo rifiuti, svuotando cestini e portacenere; che il datore di lavoro aveva l’obbligo, D.P.R. n 547 del 1955, ex art. 377 di mettere a disposizione dei lavoratori idonei strumenti di protezione e di mantenerli in buono stato di conservazione in presenza di lavorazioni o di operazioni o condizioni ambientali che presentavano particolari pericoli; che in assenza di specificazione legislativa delle lavorazioni che richiedevano l’uso di mezzi di protezione e dei dispositivi di protezione la nozione di strumento di protezione si caratterizzava in ragione della sua funzione e della diversità delle situazioni.

La Corte ha ritenuto che nella specie le mansioni della lavoratrice si svolgevano nella pulizia di cose e spazi esposti al flusso di persone, a polvere e sporcizia, che richiedevano l’uso di indumenti, sopra quelli privati, idonei a proteggere da agenti che potessero essere di pregiudizio alla salute; che pertanto doveva essere indossato un indumento che rappresentasse uno schermo verso agenti patogeni, con la conseguenza che la tuta di cotone, utilizzata dalla lavoratrice, doveva essere considerata mezzo di protezione con conseguente obbligo dell’azienda di provvedere al lavaggio.

Avverso la sentenza ricorre la soc (omissis) spa. La (omissis) resiste con controricorso. Il Collegio ha autorizzato la motivazione semplificata.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE
Col primo motivo la società (omissis) lamenta una insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), consistente nella circostanza se la tuta da lavoro di cotone, priva delle caratteristiche tecniche di impermeabilità, idrorepellenza e resistenza ad urti e strappi, assegnata ai lavoratori della (omissis), fosse o meno dispositivo di protezione individuale, ritenendo erroneamente la sentenza impugnata che non sarebbe l’efficacia protettiva degli indumenti a qualificare la sussistenza dell’obbligo del datore di lavoro, ma l’effettuazione di un’ attività per la quale fosse opportuno prendere delle cautele,anche di non commistione degli indumenti di lavoro con quelli della sfera personale e familiare. Con il secondo motivo la società (omissis) denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 40 e 43 e del D.P.R. n. 547 del 1955, artt. 377 e 379 e dell’art. 39 del c.c.n.l. di categoria (art. 360 c.p.c, comma 1, n. 3). Lamenta che la decisione impugnata non tiene in alcun conto le mansioni effettivamente svolte dalla lavoratrice, non comportanti alcun contatto con sostanze nocive e/o fonti di infezioni, trattandosi di rifiuti o scarti (quali lattine, bottigliette, giornali et similia).Formula il seguente quesito di diritto: “Dica la Suprema Corte se gli indumenti forniti all’odierna intimata dalla società ricorrente in base all’art. 39 del ccnl aziende operanti nell’indotto ferroviario e consistenti in pantaloni, camicia (a maniche lunghe o corte a seconda della stagione) e giubbotto in tessuto misto cotone/poliestere, dalla stessa indossata per la pulizia ordinaria dei vagoni o degli uffici (attività che non comporta esposizione a rischi specifici), possono costituire dispositivi di protezione ai sensi del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 40 sebbene privi di requisiti di impermeabilità, o resistenza, e sebbene non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e la salute della lavoratrice”.

Con il terzo motivo la società (omissis) denuncia la violazione dell’artt. 2697, 1175, 1226 e 1227 c.c., oltre ad insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia. Si duole che la sentenza impugnata abbia riconosciuto alla lavoratrice un indennizzo per la pulizia da effettuare con apposite cautele e separazione da altri indumenti, e che tale indennizzo poteva essere equamente stabilito nella misura della retribuzione di un’ora di lavoro straordinario diurno per settimana lavorata, ritenendo così, senza adeguata prova, sussistente un danno alla lavoratrice su cui invece gravava l’onere probatorio, danno da ridursi ai sensi dell’art. 1227 c.c. laddove la lavoratrice aveva contribuito con la sua condotta alla causazione dello stesso, non avendo mai rivendicato l’obbligo datoriale di lavare il vestiario in questione.

I motivi, che per la loro connessione possono congiuntamente esaminarsi, sono infondati.

La questione è stata già esaminata da questa Corte in numerosi precedenti riguardanti la stessa impresa (omissis) (tra le tante cfr. Cass. n. 23005/2014; n 22375/2014; n 17833/2014; n 17589/2014).

La sentenza impugnata ha ritenuto accertato in fatto che la ricorrente svolgeva attività di pulizia delle vetture, raccogliendo i rifiuti, svuotando i cestini e portacenere e che pertanto veniva a contatto con la sporcizia derivante da tale attività sottolineando che l’attività di pulizia di cose e spazi particolarmente esposti ad afflusso di persone comportava l’inevitabile contatto con sostanze nocive o patogene, come la polvere, la sporcizia, residui organici.

Da ciò la Corte ha tratto l’ulteriore conseguenza che gli indumenti usati dalla lavoratrice, ed eventualmente sovrapposti a quelli personali, servissero a fini “igienici”, ovvero di protezione del lavoratore.

A ciò deve aggiungersi che costituisce una questio facti l’identificazione in concreto dei dispositivi di protezione individuale (Cass., 23 giugno 2010, n. 15202): sul punto, la motivazione della sentenza impugnata è sufficientemente e non contraddittoriamente motivata, poichè la Corte territoriale ha accertato in fatto la funzione protettiva svolta dagli indumenti per cui è causa, con una valutazione in concreto che prescinde dalla loro qualificazione o meno in tal senso da parte delle fonti contrattuali richiamate dalla ricorrente. Si consideri, inoltre, che per i lavori di pulizia di ambienti, treni, ecc. la semplice tuta di cotone può considerarsi un (seppur minimo) mezzo o dispositivo di protezione individuale, e non solo strumento identificativo dell’azienda per cui si lavora, e come tale essa deve essere fornita dal datore di lavoro e tenuta in stato idoneo alla funzione. Tali affermazioni appaiono congrue e logiche, a fronte di censure, come quelle in esame, che seppure in larga parte svolte sotto il profilo della pretesa violazione di legge e del contratto collettivo, si risolvono nella inammissibile richiesta di un riesame di circostanze fattuali già vagliate dai Giudici del merito, con motivazione coerente con i dati acquisiti ed immune da vizi logici.

La ricorrente svolge considerazioni che incidono direttamente sul fatto, sollecitandone un riesame da parte di questa Corte, affinchè – rivedendo e ribaltando il giudizio di merito – affermi l’inidoneità delle tute di cui era dotata la lavoratrice a svolgere una qualsivoglia funzione di protezione e, dunque, la mancanza di qualità per essere classificate come dispositivi di protezione individuale, con conseguente insussistenza dell’obbligo dell’azienda di provvedere al loro lavaggio. Giudizio in fatto che è invece precluso a questa Corte.

Circa la sussistenza e entità del danno subito dalla ricorrente, i motivi sono in parte inammissibili e in parte infondati.

Essi, invero, presuppongono accertamenti di mero fatto, inammissibili in questa sede di legittimità, inerenti ai minori costi che la parte datoriale assume che avrebbe sostenuto in ipotesi di tempestiva contestazione della debenza a suo carico del lavaggio, senza che, peraltro, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, neppure siano state indicate le fonti probatorie relative agli indicati elementi di conteggio della spesa occorrente.

I motivi sono altresì infondati nel merito dovendosi ricordare che, come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, i lavoratori hanno diritto alla retribuzione dell’attività lavorativa prestata ed al rimborso delle spese sostenute, per la pulizia degli indumenti di protezione, forniti dal datore di lavoro, risultando affetta da nullità parziale, per contrasto con norme imperative, la clausola, in senso contrario, del contratto collettivo che, sostituita di diritto dalle stesse norme inderogabili, concorre a conformare i contratti individuali di lavoro, sui quali si fondano i diritti alla retribuzione ed al rimborso spese dei lavoratori (cfr, ex plurimis, Cass., 26 giugno 2006, n. 14712; Cass., 11729/2009, cit.; Cass., 18 novembre 2010, n. 23314; cfr., altresì, Cass., 5 novembre 1998, n. 11139). Ne consegue che quand’anche la contrattazione collettiva avesse inteso addossare ai lavoratori le spese di lavaggio dei DPI (il che nella specie deve escludersi, perchè prevedere che il lavoratore debba avere cura della buona conservazione degli indumenti non significa di per sè che debba provvedere al loro lavaggio), una siffatta previsione, siccome contraria a norme imperative, non potrebbe comunque esonerare il datore di lavoro dall’onere delle spese di cui qui si controverte.

Va, altresì, osservato che , nella parte in cui si denuncia la violazione dell’art. 1227 c.c, il motivo si profila inammissibile.

L’ipotesi disciplinata dall’art. 1227 cod. civ., comma 2 laddove esclude il risarcimento del danno che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, costituisce oggetto di una eccezione in senso stretto (Cass., 29 luglio 2003, n. 11672; Cass., 19 dicembre 2006, n. 27123), con la conseguenza che, ove il giudice d’appello non l’abbia esaminata, come nella specie, in sede di legittimità il ricorrente, alla luce del principio di autosufficienza dell’impugnazione, deve indicare le espressioni con cui detta deduzione è stata formulata nel giudizio di merito e quando sia avvenuta la detta deduzione.

Infine circa la quantificazione del danno la Corte territoriale, dato atto dell’impossibilità di una quantificazione precisa dei costi e delle spese sostenute, ha ritenuto congruo riconoscere un’ora alla settimana retribuita come straordinario diurno. Siffatta valutazione equitativa compiuta dalla Corte territoriale, in quanto inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimatività, attiene ad una tipica valutazione di merito non censurabile in sede di legittimità perchè motivata in termini sufficienti e non contraddittori (in tal senso, Cass., 18 aprile 2003, n. 6333 e Cass., 23 luglio 2004, n. 13887).

Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere rigettato.

L’esito tra loro difforme, delle pronunce di merito, consiglia la compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso, compensa le spese processuali del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 1 luglio 2015.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2015

Allegati

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