Massima

È da ritenersi legittima la soppressione del posto di lavoro precedentemente occupato dal vice-capo del reparto logistica, a seguito della soppressione dell’intero reparto e della conseguente esternalizzazione delle relative attività a soggetto terzo.Tale legittimità permane anche laddove il lavoratore risulti affetto da malattia professionale comportante limitazioni funzionali incompatibili con l’assegnazione a mansioni differenti, in quanto tali limitazioni risultavano compatibili esclusivamente con le attività connesse al soppresso incarico di responsabile tecnico della logistica. In mancanza di posizioni alternative equivalenti e compatibili con le condizioni di salute del lavoratore, la cessazione del rapporto si configura in ossequio ai principi di correttezza, buona fede e oggettiva impossibilità di ricollocazione all’interno dell’organizzazione aziendale, secondo quanto previsto dalla normativa e giurisprudenza in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

(Rocchina Staiano)

Supporto alla lettura

MALATTIA PROFESSIONALE

Per malattia professionale si intende una patologia che insorge a causa dell’attività lavorativa, detta anche tecnopatia, presuppone che il rischio sia provocato dall’attività lavorativa in maniera progressiva e da una serie di atti ripetuti nel tempo, infatti è caratterizzata da un’azione lenta sull’organismo, non violenta e non concentrata nel tempo.

Per fare diagnosi di malattia professionale, possono essere considerate anche le cause extraprofessionali che possono avere contribuito all’insorgere della patologia, purché non siano le sole cause ad aver procurato l’infermità. Va distinta dalla comune malattia, che non è di solito correlata al lavoro (es. l’influenza), e va, inoltre, distinta dall’infortunio, che è invece un evento traumatico che interviene durante l’orario di lavoro, in maniera violenta e concentrata nel tempo.

Deve avere due caratteristiche:

  • essere causata dall’esposizione a determinati rischi correlati al tipo di lavoro, come il contatto con polveri e sostanze nocive, rumore, vibrazioni, radiazioni, o misure organizzative che agiscono negativamente sulla salute;
  • il rischio deve agire in modo prolungato nel tempo e quindi la causa deve essere lenta.

Una volta fatta la diagnosi da parte del medico, è necessario effettuare la denuncia di malattia professionale all’INAIL, compilando l’apposito modulo predisposto dall’ente, che deve essere compilato dalla persona che fa diagnosi di malattia professionale, può quindi essere il medico di base o il medico competente del servizio di prevenzione e protezione aziendale. Denunciata la malattia, l’INAIL deve certificare o meno la presenza della malattia professionale, quindi il lavoratore viene convocato nella sede INAIL territoriale di competenza per essere sottoposto a visita medica e per iniziare l’iter per il riconoscimento della malattia.

Se viene riconosciuta la malattia professionale, e qualora questa impedisca al lavoratore di tornare a lavorare, l’INAIL corrisponde al lavoratore un’indennità dal quarto giorno successivo alla manifestazione della malattia, così retribuita (l’indennità viene calcolata sulla retribuzione corrisposta al dipendente nel 15 giorni prima dell’evento):

  • 60% della retribuzione media giornaliera per i primi 90 giorni;
  • 75% della retribuzione media giornaliera dal 91° giorno fino alla guarigione

Se il dipendente ha riportato un danno biologico, l’indennità di malattia professionale cambia e si ha diritto ad un indennizzo Inail tarato sulla base della percentuale di danno biologico.

Ambito oggettivo di applicazione

Fatto

1. Con sentenza n. 705/2014 il Tribunale di Monza riconosceva il diritto di O.H. a una rendita e ad una somma a titolo di indennità temporanea assoluta da parte dell’INAIL avendo accertato che le patologie di cui egli soffriva erano di origine professionale e comportavano un danno biologico permanente nella misura del 33% e un’inabilità temporanea assoluta di 130 giorni. Con la stessa sentenza il Tribunale di Monza respingeva la domanda dello stesso O.H. relativa all’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo che gli era stato intimato il 26.11.2010 dal suo datore di lavoro, la società Sesto Autoveicoli s.p.a.

2. Avverso la detta sentenza il lavoratore proponeva appello dinanzi alla Corte di appello di Milano, limitatamente alla parte relativa al licenziamento. La Sesto Autoveicoli s.p.a. si costituiva in giudizio per resistere all’impugnazione. L’INAIL si costituiva, pur non essendovi domande spiegate nei suoi confronti.

3. Con sentenza pubblicata il 14.2.2018 la Corte di appello di Milano respingeva l’appello con condanna dell’appellante alla rifusione delle spese del grado nei confronti della società Sesto Autoveicoli s.p.a. e compensava le altre spese del grado.

4. La Corte di appello considerava corrette le conclusioni del giudice di prime cure e quanto alla genuinità della soppressione del posto di lavoro dell’appellante, vice-capo del reparto logistica, in seguito alla eliminazione dello stesso reparto logistica e alla esternalizzazione alla società Escargo di parte delle relative operazioni, e, quanto all’obbligo di repechage, a causa dell’insussistenza di mansioni alternative assegnabili al ricorrente nell’ambito delle figure presenti in azienda. Il giudice di appello da ultimo confermava l’esistenza di limitazioni lavorative dovute alla condizione fisica del ricorrente, limitazioni compatibili con il soppresso ruolo di responsabile tecnico logistica, ma non con lavori gravosi o pesanti.

5. Avverso la citata sentenza della Corte di appello di Milano O.H. propone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi. La società Sesto Autoveicoli s.p.a. resiste con controricorso. Il ricorrente è stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato successivamente alla proposizione del ricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

6. Il ricorrente ha depositato vari documenti, ai sensi dell’art. 372 cod.proc.civ., a sostegno dell’ammissibilità del ricorso, a fronte dell’eccezione di inammissibilità del gravame sollevata dalla società controricorrente, informandone quest’ultima.

L’INAIL non ha svolto attività difensiva in questa sede.

Diritto

1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione degli art. 437 cod.proc.civ. e dell’art. 345, stesso codice, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ., per avere la sentenza impugnata accolto l’eccezione di inammissibilità dei documenti prodotti in appello dall’odierno ricorrente.

2. Con il secondo motivo il lavoratore deduce nullità della sentenza impugnata per carenza di motivazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 cod.proc.civ., giacché le ragioni offerte dalla Corte territoriale a sostegno della propria decisione sarebbero affette da “illogicità e incongruenza delle conclusioni da essa tratte rispetto sia agli elementi di fatto in essa presi in considerazione, sia alle sue premesse logico-giuridiche.”

3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della l. n. 604 del 1966, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ., in quanto la Corte territoriale avrebbe considerato legittima la soppressione del reparto logistica, con la sua (non completa) esternalizzazione per il risparmio dei costi di gestione, in contrasto con l’orientamento costante della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il licenziamento non è oggettivamente giustificato se comporta la sostituzione del lavoratore con un altro meno costoso. Inoltre la sentenza impugnata non sarebbe rispettosa del principio secondo cui l’onere del datore di lavoro di dimostrare l’effettiva sussistenza del giustificato motivo oggettivo addotto nella lettera di licenziamento non si esaurisce nella prova della sussistenza del fatto posto a base del licenziamento, ma implica anche che il datore di lavoro dimostri la sussistenza del nesso causale tra l’accertata ragione, come dichiarata da lui, e l’intimato licenziamento in termini di riferibilità e di coerenza rispetto all’operata ristrutturazione, dimostrazione che sarebbe mancata.

4. Con il quarto motivo il lavoratore si duole di nuovo della violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della 1. n. 604 del 1966, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ., questa volta sotto il profilo dell’allegata violazione dell’obbligo di repechage.

Richiamati i principi enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di onere della prova incombente sul datore di lavoro in materia di repechage, il ricorrente assume, alla luce delle risultanze istruttorie, che sarebbe “rimasta dimostrata la possibilità di un’altra utilizzazione del lavoratore licenziato”, possibilità che però non gli era offerta.

5. Con il quinto e ultimo motivo O.H. deduce, sotto un ulteriore profilo, la violazione e falsa applicazione sempre dell’art. 3 della 1. n. 604 del 1966, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ., rimproverando alla sentenza impugnata di non aver ritenuto l’illegittimità del suo licenziamento per violazione dei principi di correttezza e buona fede, ai sensi dell’art. 1175 cod.civ., nella scelta del ricorrente come destinatario del provvedimento di recesso.

6. In chiusura del ricorso il lavoratore “reitera” la domanda di accertamento della nullità di un secondo licenziamento, intimatogli con lettera del 16.2.2011 per superamento del periodo di comporto, domanda della quale il giudice di prime cure aveva ritenuto superfluo l’esame e che era stata ritenuta assorbita dalla Corte di appello di Milano con la sentenza impugnata.

7. Preliminarmente occorre esaminare l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla datrice di lavoro per la mancata osservanza del termine breve per la proposizione dell’impugnazione. L’eccezione è basata sulla notifica telematica della sentenza di appello, avvenuta il 18.2.2018, mentre il ricorso in cassazione è stato notificato il 10.8.2018, quindi oltre i sessanta giorni di cui all’art. 325 comma 2 cod.proc.civ.

8. Dai documenti depositati dal ricorrente ai sensi dell’art. 372 cod.proc.civ., produzione consentita trattandosi di elementi riguardanti l’ammissibilità del ricorso, emerge quanto segue. Una relazione dell’avv. Mirco Ri., difensore dell’odierno ricorrente nel giudizio dinanzi alla Corte di appello di Milano, attesta che alla data indicata nel controricorso, 18.2.2018, non risultava pervenuta alcuna notifica telematica dall’Avv. Alessandra R., difensore della società datrice di lavoro, all’indirizzo PEC Omissis.

Risultava una notifica telematica effettuata dall’avv. Alessandra R. in data 19.2.2018, ma con allegato illeggibile. Dalla schermata del computer appariva la seguente dicitura: “Acrobat Reader: errore durante l’apertura del documento. Il file e danneggiato e non può essere riparato”. Nella stessa data risultava altra comunicazione proveniente dal medesimo legale e dal medesimo indirizzo (Omissis) relativa alla sola richiesta di pagamento delle spese legali, inerenti alla medesima sentenza n. 2217/2017 della Corte di appello di Milano, comunicazione, questa, andata a buon fine.

9. Il ricorrente ne trae argomento per sostenere che la notifica “asseritamente effettuata da controparte il 18.2.2018” non potrà essere ritenuta validamente effettuata, dovendosi riconoscere la possibilità, in tema di contestazione dell’avvenuta notificazione di un atto digitale, di deduzione di problemi tecnici ovvero inerenti alla contestazione della corrispondenza tra quanto eventualmente indicato nella ricevuta di consegna telematica e quanto realmente pervenuto al destinatario nella propria casella di posta elettronica certificata. In subordine parte ricorrente chiede la rimessione in termini per errore scusabile.

10. Premesso che l’esame della relazione telematica di notifica della sentenza impugnata — anche se erroneamente indicata nel controricorso come “sentenza di primo grado” — in data 18.2.2018 non rivela alcuna anomalia, l’inerzia del difensore del ricorrente in seguito alla constatazione dei problemi di ricezione dell’atto da notificare, secondo la giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal Collegio, conduce a ritenere il perfezionamento della notifica litigiosa.

11. Secondo la sentenza di questa Corte n. 25819 del 2017, si può ritenere che nel momento in cui il sistema genera la ricevuta di accettazione della PEC e di consegna della stessa nella casella del destinatario si determina una presunzione di conoscenza della comunicazione da parte del destinatario analoga a quella prevista, in tema di dichiarazioni negoziali, dall’articolo 1335 cod.civ.

Spetta quindi al destinatario, in un’ottica collaborativa, rendere edotto il mittente incolpevole delle difficoltà di cognizione del contenuto della comunicazione legate all’utilizzo dello strumento telematico. Il principio è stato recentemente ribadito dalla sentenza di questa Corte n 21560 del 2019. Di conseguenza, nel caso di specie, sarebbe stato dovere del difensore dell’odierno ricorrente informare il mittente della difficoltà nella presa visione degli allegati trasmessi via PEC, onde fornirgli la possibilità di rimediare a tale inconveniente. L’avv. R., per sua stessa ammissione, è rimasto inerte, il che conduce a ritenere il perfezionamento della notifica della sentenza di appello e quindi la decorrenza del termine breve di sessanta giorni per la proposizione del ricorso per cassazione.

12. Quanto all’istanza di rimessione in termini, il Collegio osserva che questo istituto, ai sensi dell’art. 153, comma 2, cod.proc.civ., è strumentale al valido e tempestivo compimento dell’atto processuale dal quale la parte istante sia decaduta per causa ad essa non imputabile, sicché non può essere concesso in favore del ricorrente che abbia colpevolmente dato causa alla decorrenza del termine (cfr., tra molte, Cass. S.U. n. 32725 del 2018), in questo caso per la mancata osservanza dei suoi doveri di collaborazione.

13. Ritenuta l’applicabilità del termine breve per la proposizione del ricorso per cassazione, si deve constatare l’inammissibilità del ricorso per il mancato rispetto del suddetto termine, come dedotto dalla parte controricorrente, giacché, come rilevato, la sentenza impugnata è stata notificata il 18.2.2018, mentre il ricorso per cassazione lo è stato il 10.8.2018.

14. Resta assorbita l’ulteriore eccezione di parte controricorrente relativa alla dedotta improcedibilità del ricorso per mancato deposito dell’istanza di trasmissione del fascicolo di ufficio, ai sensi dell’art. 369, comma 3, cod.proc.civ.

15. L’inammissibilità del ricorso esime la Corte dall’esame dei motivi proposti con il gravame.

16. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

17. Non ritiene il Collegio che ricorrano le condizioni per l’applicazione, richiesta dalla controricorrente, dell’art. 96 cod.proc.civ.

18. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 4.000,00 per compensi, oltre spese al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 7 novembre 2019

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