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Cassazione civile sez. lav., 20/11/2020, n. 26508

Massima

La prescrizione dei crediti contributivi previdenziali conserva natura quinquennale anche nel caso di mancata o tardiva opposizione alla cartella esattoriale, non trovando applicazione l’art. 2953 c.c. che disciplina la conversione del termine prescrizionale da breve a ordinario decennale. La Corte di Cassazione ha, infatti, chiarito che tale principio è di portata generale e si estende a tutti i crediti di natura pubblica fondati su titoli esecutivi di natura paragiudiziale.

 

(Rocchina Staiano)

Supporto alla lettura

Prescrizione crediti lavoro

I crediti da lavoro dipendente si prescrivono nel termine di cinque anni, che decorre dalla cessazione del rapporto. Nel caso di pubblico impiego, invece, il termine di prescrizione quinquennale decorre già in costanza di rapporto, a partire quindi dal giorno in cui la mensilità avrebbe dovuto essere pagata.

Ambito oggettivo di applicazione

Fatti di causa

1. La Corte d’appello di Torino, confermando la sentenza di prime cure, ha dichiarato prescritti i crediti contributivi portati in svariate cartelle di pagamento, notificate dall’Inps al lavoratore e da questi opposte;

2. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l’Agenzia delle Entrate – Riscossione sulla base due motivi; il lavoratore e l’Inail hanno resistito con tempestivo controricorso.

Motivi della decisione

3. Con il primo motivo viene denunciata la violazione dell’art. 2946 cod.civ., dell’art. 49 DPR 602/1973 – dell’art. 17 D.lgs. 46/1999 – degli artt. 19 e 20 del d.lgs. n. 112/1999 – Erronea e falsa applicazione dell’art. 3, comma 9 e 10, I. n. 335/95 – Falsa applicazione dell’art. 2953 c.c.”.

L’Agenzia delle Entrate si duole che la Corte territoriale abbia applicato il termine di prescrizione quinquennale laddove avrebbe dovuto essere percorsa, in assenza di previsioni normative derogatorie, la tesi della prescrizione decennale del diritto alla riscossione, perchè termine di prescrizione del rapporto obbligatorio scaturente dal titolo esecutivo.

Precisa, infatti, l’agenzia di riscossione che, pur in seguito alla sentenza delle Sezioni Unite n. 23397 del 2016, a cui il giudice dell’appello si è richiamato, la tesi della prescrizione decennale del diritto alla riscossione sarebbe egualmente sostenibile.

Per l’Agenzia ricorrente, infatti, la sentenza n. 23397/ 2016 si sarebbe limitata a statuire in merito alla sola applicabilità dell’art. 2953 cod. civ. alla fattispecie, ma non avrebbe affrontato il diverso aspetto relativo all’individuazione del termine di prescrizione del rapporto obbligatorio scaturente dal titolo esecutivo, fattispecie concreta oggetto della vertenza.

4. Col secondo motivo viene denunciata l’erronea statuizione in ordine alla condanna alle spese, e, invocando poiché la Corte territoriale avrebbe dovuto disporne la compensazione, per essere mutato l’orientamento giurisprudenziale sulla materia gravata nelle more del giudizio di primo grado.

5. Per la Cassazione il primo motivo è inammissibile considerato che la Corte territoriale ha dato corretta attuazione al principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 23397 del 2016, secondo il quale la prescrizione decennale è applicabile ai soli casi di titoli giudiziali divenuti definitivi e non anche alle cartelle, atti di natura amministrativa, prive dell’attitudine di acquistare efficacia di giudicato. Lo stesso dicasi per l’avviso di addebito dell’INPS, che, dall’ 1 gennaio 2011, ha sostituito la cartella di pagamento per i crediti di natura previdenziale di detto Istituto.

La Cassazione ha specificato che il subentro dell’Agenzia delle Entrate quale nuovo concessionario non determina il mutamento della natura del credito, che resta assoggettato per legge ad una disciplina specifica anche quanto al regime prescrizionale. Pertanto, in assenza di un titolo giudiziale definitivo che accerti con valore di giudicato l’esistenza del credito, continua a trovare applicazione il termine prescrizionale quinquennale.

6. Per la Cassazione anche il secondo dei motivi è inammissibile, atteso che la facoltà di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione.

7. La Corte di Cassazione rigetta il ricorso e statuisce sulle spese di lite secondo il principio della soccombenza.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 200 per esborsi, Euro 3.000 a titolo di compensi professionali nei confronti di G.A.L., con distrazione in favore del difensore dichiaratosi antistatario, ed in Euro 3.000, al medesimo titolo, nei confronti dell’Inail, oltre spese generali nella misura forfetaria del 15 per cento ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17 della I. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso art. 13.

Allegati

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