Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Salerno, con la sentenza in atti, accogliendo il reclamo proposto da (omissis), in riforma della impugnata sentenza, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice ed ha ordinato la reintegra nel posto di lavoro e condannato la resistente Casa di Cura privata Salus Spa al pagamento di una indennità commisurata a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre accessori.
Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione Casa di cura privata Salus Spa con tre motivi di ricorso ai quali ha resistito (omissis) con controricorso. Le parti hanno depositato memorie. Il collegio ha riservato la motivazione, ai sensi dell’art. 380-bis 1, secondo comma, ult. parte c.p.c.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, ai sensi dell’art. 360, numero 3 c.p.c., si deduce violazione e falsa applicazione del CCNL Aiop Personale non medico e del Codice Deontologico delle professioni infermieristiche, nonché degli articoli 1175, 1375, 2104, 2105 c.c. con riferimento alla parte inerente ai doveri del personale ed alla indicazione esemplificativa delle condotte punibili, avendo la lavoratrice commesso gravi illeciti disciplinari; in particolare la Corte d’appello ha trascurato che si esaminava la condotta di un’infermiera professionale che aveva invitato un paziente, il giorno prima del suo intervento programmato, di verificare su Internet le conseguenze ed i rischi dell’intervento medesimo. Questa condotta era stata accertata nella sua realtà e storicità; ed era perfettamente sovrapponibile alle previsioni di cui all’articolo 41 del CCNL Aiop personale non medico, in base a cui è stato avviato il procedimento disciplinare dal quale è originato il licenziamento.
2.- Il motivo è inammissibile non potendo questa Corte interferire con la valutazione effettuata dalla Corte di appello in merito alla ricorrenza dei fatti storici relativi alla esistenza della giusta causa.
La Corte d’appello ha premesso che all’esito dell’istruttoria la contestazione rivolta alla lavoratrice non era rimasta provata con certezza sia sotto il profilo oggettivo, che sotto quello soggettivo; ed ha pure affermato che la condotta della lavoratrice, così come ricostruibile in base alle prove in atti, fuoriusciva dalle ipotesi per le quali la contrattazione collettiva prevede la sola sanzione conservativa e, pertanto, non aveva alcuna valenza disciplinare, neppure in relazione alle previsioni meno gravi punite con sanzioni conservative.
La Corte ha dato una ampia e logica spiegazione della propria decisione del tutto conforme alle norme di legge.
Ha dubitato, anzitutto, della dichiarazione scritta proveniente dal paziente B.B., atteso che si trattava di una dichiarazione sottoscritta presso la Direzione della Casa di Cura privata e predisposta con sistema di scrittura dalla stessa parte datoriale e che lo stesso (omissis) aveva riconosciuto di non aver redatto materialmente il documento. Ha valorizzato, in secondo luogo, le dichiarazioni rese in giudizio dallo stesso paziente, escusso come teste, il quale aveva notevolmente ridimensionato la portata della dichiarazione precedente; posto che era stato lo stesso B.B. a chiedere alla lavoratrice dei rischi dell’intervento; la lavoratrice si sarebbe limitata ad un innocua e comprensibile curiosità sulle ragioni dell’intervento non trattandosi di un soggetto obeso ed a fare presente al B.B., su domanda dello stesso, che l’intervento poteva comportare dei rischi e che poteva trovare informazioni anche su Internet.
Inoltre, il (omissis) aveva affermato in sede giudiziale di essersi determinato a disdire l’intervento dopo aver consultato Internet e che non fosse stata la condotta della (omissis) ad averlo indotto a rinunciare all’operazione. Elementi ancora più dissonanti con la tesi datoriale si rinvenivano secondo la Corte nella testimonianza dell’ausiliaria (omissis) ed anche dalla testimonianza (omissis).
In conclusione, la Corte d’appello ha sostenuto che la condotta della lavoratrice non era conforme alla contestazione elevata perché non era espressiva di ripetute deliberate iniziative nell’ottica di dissuadere il paziente dal sottoporsi ad intervento chirurgico, ipotesi ricostruttiva già di per sé poco spiegabile e verosimile (non vedendosi per quale ragione la ricorrente avrebbe dovuto improvvisamente autolesionisticamente assumere tali comportamenti dissuasivi, dopo tanti anni di servizio presumibilmente tanti pazienti eseguiti, nei confronti del solo (omissis), peraltro senza perseguirne alcun vantaggio), essendosi limitata di sua iniziativa solo ad esprimere la propria comprensibile curiosità per la motivazione dell’intervento; e senza che la generica e finanche scontata risposta, su domanda dell’interessato, sui possibili rischi dell’operazione come per ogni altro evento simile come documentato anche in Internet costituisse una negazione del potere datoriale, eccedesse i propri doveri di assistenza ed informazione (alla luce dell’art. 24 del relativo codice deontologico che prevede una assistenza informativa dell’infermiere) e fosse di per sé idonea a determinare diversamente il paziente, il quale difatti ha in giudizio affermato di essersi deciso a non operarsi “dopo aver consultato Internet” ed a causa della “lettura delle possibili conseguenze negative dell’operazione”, e non quindi già in base alle generiche scontate parole della (omissis), senza appunto considerare le ripetute confidenze raccolte dalla teste (omissis) circa la forte incertezza della volontà del paziente nell’operarsi già a causa delle continue e insistenti telefonate in tal senso della madre che lo esortava “a non operarsi”.
In sintesi, la Corte d’appello ha affermato che il datore di lavoro non avesse provato la condotta contestata, che quella commessa dalla lavoratrice non ascendesse neppure ad un livello di gravità minima tale da essere punita con sanzione conservativa, e non integrasse a maggior ragione la particolare gravità richiesta per il licenziamento dall’art.41 paragrafo 7, lettera A del CCNL .
Non sussistevano pertanto violazioni disciplinari, né poteva integrarne una il fatto di informarsi sulla tipologia dell’intervento di un paziente; e neppure di dare una generica e scontata informazione sui rischi di un intervento a richiesta del paziente.
Pertanto, in conclusione, la valutazione dei fatti operata dalla Corte di appello appare conforme alle regole processuali e sostanziali e si sottrae alle censure sollevate nel ricorso con le quali si chiede, in sostanza, una nuova valutazione degli elementi probatori allo scopo di pervenire ad una diversa ricostruzione dell’accaduto in contrasto con quanto affermato dai giudici di merito, ai quali sono conferiti dall’ordinamento i poteri di selezionare e valutare il materiale probatorio atto allo scopo, postulando pertanto un sindacato chiaramente inibito in questa sede di legittimità (Cass. 2019 n. 30577).
2. Col secondo motivo si deduce ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e della sapiente interpretazione giurisprudenziale di tale disposto, per avere la Corte d’appello ammesso che il paziente avesse desistito dall’intervento programmato all’esito di una ricerca su Internet che ne aveva mostrato le conseguenze negative dei rischi, così come suggeritogli dalla signora A.A. e dall’altro sminuito la portata di tale comportamento considerandolo innocuo, non potendosi prescindere dal contesto in cui si era verificato e dal ruolo di chi l’aveva posto in essere.
Detta valutazione di gravità non può che essere svolta dal datore di lavoro, il quale soltanto sa se il comportamento censurato posto in essere sia o meno tollerabile nell’economia generale della propria attività imprenditoriale.
2.1. Il secondo motivo presenta profili di inammissibilità e profili di infondatezza.
È inammissibile laddove mira in realtà alla rivalutazione del giudizio della Corte in ordine alla inesistenza della giusta causa, talché non si spiega neppure per quale motivo sarebbe violato l’art. 2119 c.c., una volta accertato, da parte del giudice di merito, che quello commesso dalla lavoratrice fosse un comportamento innocuo, del tutto privo di valenza disciplinare sia pure minima.
Il motivo è poi privo di fondamento laddove afferma che soltanto il datore di lavoro può valutare la gravità del comportamento di un lavoratore e l’esistenza di una giusta causa, posto che al contrario l’ordinamento prevede una nozione legale di giusta causa e sottopone al controllo di legalità, attraverso il sindacato giudiziale, l’esercizio del potere di licenziamento di un lavoratore per la stessa causale prevedendo in mancanza dei presupposti l’annullamento del licenziamento con le conseguenze di legge.
3.- Col terzo motivo ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.c. si sostiene, in via subordinata, la violazione e falsa applicazione del disposto dell’art. 18 legge n. 300/70 per aver fatto conseguire all’illegittimità del licenziamento la tutela reintegratoria e non la sola tutela indennitaria, posto che il fatto sarebbe stato accertato nella sua consistenza materiale; atteso che, nel momento in cui la Corte d’appello si era spinta a riqualificare la condotta come innocua, voleva dire che aveva avuto piena contezza di un comportamento che era evidentemente esistente materialmente e storicamente descritto nonché compreso dagli stessi giudici di merito. La Corte ha errato laddove ha fatto conseguire all’illegittimità del licenziamento per tenuità del fatto materiale, dunque per non proporzionalità della sanzione datoriale, la tutela reintegratoria e non la sola tutela indennitaria.
3.1.- Il motivo è privo di fondamento.
La Corte d’appello ha affermato che non vi fosse adeguata e convincente prova che la lavoratrice avesse posto in essere una delle contestate condotte, di cui alle disposizioni dell’articolo 41 paragrafo 6, lettere c, d e f del CCNL (facenti rispettivamente riferimento alla commissione di grave negligenza in servizio, o irregolarità nell’espletamento dei compiti assegnati, al non attenersi alle disposizioni terapeutiche impartite o alle indicazioni o al non eseguire le altre mansioni comunque connesse alla qualifica, assegnate dalla direzione o dal superiore gerarchico diretto, ovvero al compiere insubordinazione nei confronti dei superiori gerarchici o alla seguire il lavoro affidato negligentemente o non ottemperando alle disposizioni impartite); tantomeno con carattere di particolare gravità come previsto dall’articolo 41 paragrafo 7, lettera A, del CCNL; laddove le prime ipotesi sono comunque espressamente punite solo con sanzione conservativa.
In altri termini, come già osservato, non solo non esisteva la condotta così come contestata al lavoratore; ma quella commessa non rientrava neppure tra le ipotesi espressamente punite con sanzione conservativa e tanto meno in quelle punite con licenziamento disciplinare (dovendosi escludere secondo la Corte la particolare gravità).
Ai fini di identificare la nozione di “fatto insussistente” rilevante per la concessione della tutela reintegratoria nella ipotesi c.d. “dimidiata” o “attenuata” prevista dal 4° comma dell’art. 18, riformato dalla legge 92/2012 occorre anzitutto fare riferimento al “fatto contestato”, completo dei suoi elementi oggettivi e soggettivi e delle circostanze atte a qualificarne la gravità; onde ogni divergenza sul piano oggettivo e soggettivo ne determina l’insussistenza. Inoltre, in ogni caso, per pacifica giurisprudenza la condotta innocua ovvero priva di rilievo disciplinare o di illiceità – benché esistente – integra anche essa una fattispecie di insussistenza del fatto contestato (sentenza n. 12174 del 08/05/2019, sentenza n. 10019 del 2016). Infine, anche la mancanza di proporzionalità qualificata, riconducibile alla “previsione disciplinare punita con sanzione conservativa”, comporta la concessione della medesima tutela (Cass. Sentenza n. 11665 del 11/04/2022).
5.- Sulla scorta delle premesse, il ricorso va quindi respinto e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, D.P.R.115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in Euro 5.500,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfettarie, oltre accessori dovuti per legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato D.P.R., se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio del 10 aprile 2024.
Depositata in Cancelleria il 20 giugno 2024.
