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Cassazione civile sez. lav., 18/11/2010, n. 23314

Massima

Essendo il lavaggio indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza, esso non può non essere a carico del datore di lavoro.

Supporto alla lettura

SICUREZZA SUI LUOGHI DI LAVORO

La sicurezza sul lavoro è quell’insieme di misure, provvedimenti e soluzioni adottate al fine di rendere più sicuri i luoghi di lavoro, per evitare che i lavoratori possano infortunarsi durante lo svolgimento delle loro mansioni.

Si tratta di una condizione organizzativa necessaria ed imprescindibile di cui ogni azienda deve essere in possesso per eliminare o quantomeno ridurre i rischi e i pericoli per la salute dei lavoratori.

Attualmente la normativa di riferimento in materia è costuita dal D. L.gs. 81/2008, il quale prevede, tra le principali misure generali di tutela:

  • la valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza;
  • l’eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo;
  • il rispetto dei prinicipi ergonomici;
  • la riduzione del rischio alla fonte;
  • la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è, o è meno pericoloso;
  • l’utilizzo limitato di agenti chimici, fisici e biologici sui luoghi di lavoro;
  • i controlli sanitari periodici dei lavoratori;
  • l’informazione e formazione in materia di sicurezza per i lavoratori;
  • le istruzioni adeguate ai lavoratori;
  • la programmazione di misure per garantire il miglioramento nel tempo;
  • la gestione delle emergenze;
  • la regolare manutenzione di ambienti, impianti, attrezzature e dispositivi di sicurezza.

L’obbligo di rispettare la normativa inerente alla sicurezza sul lavoro è stabilito nei confronti di ogni lavoratore, ovvero di coloro che rientrano nella definizione contenuta nell’art. 2, lett a) del D. Lgs. 81/2008, i quali svolgono un’attività lavorativa nell’ambito di un’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche solo al fine di apprendimento, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari. Inoltre sono equiparati ai lavoratori anche:

  • il socio lavoratore di cooperativa o di società;
  • l’associato di paretcipazione;
  • l’allievo degli istituti di istruzione ed universitari e il partecipante ai corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori, attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici, ecc…

Il datore di lavoro è la figura principale garante e responsabile della tutela della salute e sicurezza nella propria azienda, infatti egli deve ottemperare a quanto stabilito dalla normativa vigente per garantire la corretta applicazione delle misure atte alla riduzione o alla cancellazione di qualsiasi rischio cui sono esposti i lavoratori:

  • la valutazione dei rischi e la stesura del relativo documento (DVR);
  • il dovere di offrire un ambiente lavorativo sicuro;
  • informare e formare i lavoratori sui rischi presenti in loco;
  • vigilare e verificare il rispetto delle norme antinfortunistiche da parte dei dipendenti;
  • l’adozione di idonee misure di prevenzione e protezione, tra cui i dispositivi di protezione individuale.

Oltre alla figura del datore di lavoro, ci sono anche altri soggetti che hanno un ruolo nella gestione della sicurezza sul lavoro, in particolare: il dirigente per la sicurezza; il preposto per la sicurezza; il responsabile del servizio prevenzione e protezione (RSPP); l’addetto al servizio prevenzione e protezione (ASPP); il medico competente; il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS); il lavoratore, quest’ultimo in particolare è anche soggetto attivo che deve essere consapevole delle condizioni del proprio ambiente lavorativo e deve partecipare alla valutazione dei rischi attraverso il rappresentante dei lavoratori (RLS).

I controlli e la supervisione vengono effettuati da diverse entità, sia a livello governativo che aziendale, per esempio l’ispettorato del lavoro e l’azienda sanitaria locale competente per territorio.

Ambito oggettivo di applicazione

RITENUTO IN FATTO
1. Con ricorso al Tribunale di Torino, giudice del lavoro, (omissis) e gli altri intimati indicati in epigrafe, tutti dipendenti dell'(omissis) Torino, chiedevano la condanna della datrice di lavoro a provvedere direttamente al lavaggio degli indumenti di lavoro forniti e la condanna della convenuta al risarcimento dei danni, nei limiti della prescrizione, per avere essi provveduto in proprio al lavaggio degli indumenti. Il Tribunale con sentenza non definitiva del 19 febbraio 2004 accoglieva la domanda nell’an debeatur e con sentenza definitiva del 23 settembre 2004 determinava l’entità del danno per ciascuno dei lavoratori.

2. Proposta impugnazione da entrambe le parti, la Corte d’appello di Torino, con sentenza del 24 marzo 2006, in accoglimento del gravame dei lavoratori, condannava l’Azienda a corrispondere in favore di ciascuno di essi, a titolo di risarcimento del danno, la somma annua di Euro 240,00, oltre accessori legali, in relazione al periodo dedotto in causa dagli stessi e non coperto da prescrizione.

Osservava la Corte territoriale che era pacifico che gli appellanti avessero utilizzato, in relazione alle mansioni svolte, gli indumenti di lavoro, ed in particolare gli oggetti di vestiario richiamati nell’art. 20, comma 4, del contratto collettivo di settore, e che doveva considerarsi notorio che tali indumenti, utilizzati nell’ambito di prestazioni manuali relative alla raccolta di rifiuti, necessitavano di lavaggio periodico, i cui costi (stante l’accertato inadempimento dell’Azienda rispetto al relativo obbligo contrattuale) erano stati sopportati dai ricorrenti, con conseguente danno, da liquidarsi equitativamente, non essendo suscettibile di prova nel suo preciso ammontare.

3. Per la cassazione della sentenza propone ricorso l’Azienda con quattro motivi. Resistono con controricorso gli intimati lavoratori, eccetto (omissis), non costituito. Le parti hanno depositato memorie illustrative ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., dell’art. 112 c.p.c. e del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 40, del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 379 dell’art. 32 Cost., nonchè vizio di motivazione. Si lamenta che la Corte territoriale abbia considerato non controverso che gli appellanti avessero utilizzato, in relazione alle mansioni svolte, gli indumenti di lavoro contemplati nell’art. 20, comma 4, del contratto collettivo di settore non considerando che l’Azienda aveva, sin dalla memoria di primo grado, contestato che i ricorrenti avessero svolto le mansioni indicate in ricorso; che questi ultimi non avevano mai specificato quali fossero gli indumenti di lavoro che avevano utilizzato ed indossato, limitandosi a richiamare la norma contrattuale, che, però, non li individuava; che, in particolare per il periodo precedente all’accordo del 20 dicembre 2000 – che aveva introdotto espressamente l’obbligo aziendale del lavaggio -, non vi era alcuna prova che gli indumenti impiegati dai lavoratori costituissero “dispositivi di protezione individuale”.

2. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta violazione degli artt. 1218, 1223, 1226, 2043, 2056, 2697, 2727 e 2729 c.c.; art. 115 c.p.c., comma 2, e art. 116 c.p.c., nonchè vizio di motivazione. Si deduce che si era presunto come notorio, con motivazione insufficiente ed illogica, l’uso giornaliero di non meglio precisati indumenti e come provata la circostanza che gli stessi fossero stati effettivamente lavati, desumendosi, erroneamente, l’effettiva sussistenza del danno lamentato dalla sola circostanza che l’Azienda era inadempiente all’obbligo di lavaggio.

3. Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., con riferimento alla determinazione del danno risarcibile. Si sostiene che la decisione impugnata si sia fondata su fatti contrastanti con le risultanze processuali, in relazione alla omessa specificazione degli indumenti utilizzati e alla ritenuta cadenza giornaliera di tale utilizzo.

4. Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1226, 1227, 2056 e 2697 c.c. e dell’art. 432 c.p.c., nonchè vizio di motivazione. La ricorrente si duole circa la valutazione equitativa del danno operata dalla Corte di merito, avendo la stessa erroneamente ritenuto che fosse impossibile o gravemente difficoltoso provare il costo dei lavaggi, trascurando di considerare che tale situazione era, in realtà, conseguenza dell’inerzia processuale degli appellanti, che non avevano nemmeno individuato gli indumenti che adducevano di aver lavato, e che, comunque, i relativi costi, ancorchè contestati, non erano stati verificati; inoltre, la sentenza impugnata deve ritenersi errata anche con riferimento ai parametri tenuti presenti ai fini della liquidazione equitativa, avendo la stessa preso in considerazione il tempo impiegato dai familiari per le operazioni di pulizia degli indumenti, pur dovendosi presumere che il lavaggio riguardasse anche altri indumenti; che si erano considerati i parametri di liquidazione prospettati dagli appellanti come non contestati dall’Azienda, sebbene la stessa avesse contestato le avverse richieste; che non erano spiegate le ragioni che avevano indotto la Corte a individuare il numero e la frequenza dei lavaggi.

5. Il ricorso è infondato, come questa Corte ha già ritenuto in analoga controversia (cfr. Cass. n. 11729 del 2009).

5.1. Con riguardo ai primi due motivi, le cui censure sono strettamente connesse, deve rilevarsi come lo svolgimento da parte dei resistenti di mansioni manuali relative alla raccolta dei rifiuti e alle operazioni accessorie, puntualmente indicate unitamente ai relativi periodi temporali di riferimento, è stato qualificato dalla Corte territoriale come fatto incontroverso. L’Azienda osserva, in proposito, di avere contestato tali circostanze nel costituirsi in giudizio, ma tali contestazioni, da un lato, non appaiono tali da contrastare la valutazione del giudice di merito (per la necessaria equiparazione fra la contestazione generica e la mancanza di contestazione), dall’altro, comunque, si estrinsecano nell’asserzione di un onere probatorio che doveva comunque ritenersi assolto, in quanto conseguente all’indicazione specifica di mansioni implicanti il contatto con materiale di rifiuto (essendosi accertato che i lavoratori erano addetti alla raccolta dei rifiuti, o autisti di auto compattatori, o operai di officina addetti alla riparazione degli automezzi).

Al riguardo, mette conto precisare che l’esistenza di un rischio connesso al tipo di lavorazione deve essere accertata, fra l’altro, in relazione al contatto diretto, o anche indiretto, con materiali potenzialmente pericolosi per la salute, che l’operatore deve necessariamente sopportare nell’adempimento della prestazione contrattuale, come anche in relazione alla finalità più generale di garanzia delle condizioni igieniche nelle quali la medesima prestazione deve essere eseguita. Ed infatti, come questa Corte ha già precisato, in tema di tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, ed in particolare di fornitura ai lavoratori di indumenti, alla stregua della finalità della disciplina normativa apprestata dal Legislatore, per “indumenti di lavoro specifici” si debbono intendere le divise o gli abiti aventi la funzione di tutelare l’integrità fisica del lavoratore nonchè quegli altri indumenti, essenziali in relazione a specifiche e peculiari funzioni, volti ad eliminare o quanto meno a ridurre i rischi ad esse connessi (come la tuta ignifuga del vigile del fuoco), oppure a migliorare le condizioni igieniche in cui viene a trovarsi il lavoratore nello svolgimento delle sue incombenze, onde scongiurare il rischio potenziale di contrarre malattie, come appunto deve reputarsi per la divisa dell’operatore ecologico (cfr. Cass. n. 11071 del 2008).

Per il resto, deve osservarsi che la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione, ai fini della prova dei danni lamentati, della nozione giuridicamente rilevante di fatto notorio (art. 115 c.p.c.), assegnando tale rilievo alla circostanza, obiettivamente conosciuta e rilevabile, che gli indumenti di lavoro forniti dal datore di lavoro ai dipendenti addetti alle operazioni di raccolta dei rifiuti abbisognano di lavaggi periodici. Ed invero, il ricorso alle nozioni di comune esperienza attiene all’esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito, il cui giudizio circa la sussistenza di un fatto notorio può essere censurato in sede di legittimità solo se sia stata posta a base della decisione una inesatta nozione del notorio, da intendersi come fatto conosciuto da un uomo di media cultura in un dato tempo e luogo (cfr. Cass. n. 27591 del 2005), e quindi con riferimento a circostanze conosciute e comunemente note dalla generalità dei cittadini o in un determinato luogo e che non presentino margini di rilevante opinabilità. Requisiti di obiettiva certezza del dato di esperienza che, con congruo accertamento, la Corte di merito ha ritenuto sussistere nella situazione in esame, dopo aver opportunamente individuato, sulla base della nozione contrattuale e del lessico comune, gli “indumenti di lavoro” negli “oggetti di vestiario” forniti dall’Azienda stessa (e pure da quest’ultima, pertanto, sicuramente individuabili, tanto che, nel frattempo, l’attività di lavaggio è stata assunta, in adempimento di preciso obbligo contrattuale, dall’Azienda in proprio).

D’altra parte, su un piano più generale, l’idoneità degli indumenti di protezione che il datore di lavoro deve mettere a disposizione dei lavoratori – a norma del D.P.R. n. 457 del 1955, art. 379 fino alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 626 del 1994 e ai sensi dell’art. 40, art. 43, commi 3 e 4, di tale decreto, per il periodo successivo – deve sussistere non solo nel momento della consegna degli indumenti stessi, ma anche durante l’intero periodo di esecuzione della prestazione lavorativa; le norme suindicate, infatti, finalizzate alla tutela della salute quale oggetto di autonomo diritto primario assoluto (art. 32 Cost.), solo nel suddetto modo conseguono il loro specifico scopo che, nella concreta fattispecie, è quello di prevenire l’insorgenza e il diffondersi di infezioni.

Ne consegue che, essendo il lavaggio indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza, l’obbligo del datore di lavoro si riferisce a tutti gli indumenti di lavoro, e dal suo inadempimento consegue l’obbligo di risarcire il danno ai sensi dell’art. 1218 c.c. (cfr. Cass. n. 22929 del 2005).

5.2. Non fondati sono anche il terzo e il quarto motivo. La sentenza impugnata, nel determinare i danni con valutazione equitativa, ha dato atto di come l’impossibilità di provare nel loro esatto ammontare i costi e le spese sostenute derivi proprio dalla natura degli stessi, normalmente affrontati nell’ambito della piccola e quotidiana economia familiare e quindi privi di ogni riscontro di carattere documentale e comunque non dimostrabili con altro mezzo istruttorie, ed ha, altresì, motivatamente specificato i parametri (voci e valori di costo, numero e frequenza dei lavaggi) presi a riferimento per la valutazione ai sensi dell’art. 432 c.p.c.: così ottemperando alle condizioni richieste, secondo l’insegnamento di questa Corte, per il legittimo esercizio da parte del giudice del lavoro del potere di liquidazione del danno in via equitativa, che presuppone l’individuazione, con adeguata motivazione, dei criteri adottati e dell’iter logico seguito, anche con riguardo all’obiettiva impossibilità di una determinazione certa della somma dovuta alla stregua degli elementi acquisiti al processo (cfr. Cass. n. 6333 del 2003; Cass. n. 13887 del 2004).

In particolare, la variabilità di taluni elementi di calcolo – quali quelli evidenziati dalla società ricorrente – è stata specificamente considerata dalla Corte di merito nell’ambito di un giudizio ipotetico di differenza fra la situazione effettivamente avvenuta e quella configurabile senza l’inadempimento, secondo il criterio dettato dall’art. 1225 c.c. (cfr Cass. n. 23897 del 2008), sì che la valutazione dei giudici di merito si rivela, in ogni profilo, conforme ai canoni legali, quanto alle condizioni giustificative ed ai criteri adottati.

6. Il ricorso va, pertanto, rigettato. Secondo il criterio della soccombenza, la ricorrente è tenuta alla rifusione delle spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, in favore dei lavoratori resistenti (non dovendosi provvedere nei confronti di quello rimasto intimato), con distrazione ai sensi dell’art. 93 c.p.c..

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore dei resistenti, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 24,00 per esborsi e in Euro cinquemila per onorario, oltre a spese generali, IVA e CPA, da distrarsi in favore dell’avvocato (omissis), difensore dichiaratosi antistatario.

Così deciso in Roma, il 6 ottobre 2010.

Depositato in Cancelleria il 18 novembre 2010

Allegati

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