Massima

L’importo relativo alle ferie non fruite dal lavoratore, una volta decorso il termine di diciotto mesi previsto dall’art. 10 del D.Lgs. n. 66/2003, costituisce base imponibile ai fini contributivi, indipendentemente dal momento in cui l’indennità sostitutiva venga corrisposta, anche se ciò avvenga in occasione della cessazione del rapporto di lavoro.

(Rocchina Staiano)

Supporto alla lettura

FERIE

Al lavoratore è riconosciuto il diritto irrinunciabile alle ferie annuali retribuite al fine di consentirgli il recupero delle energie e la realizzazione di esigenze anche ricreative personale e familiari.

La durata minima delle ferie è fissata in quattro settimane, i contratti collettivi possono estendere tale periodo, ma non ridurlo. Le ferie maturano nel corso del rapporto di lavoro, anche se questo dura meno di un anno o è in prova; vengono godute nel tempo che l’imprenditore stabilisce, informandone preventivamente il lavoratore. Tuttavia il datore di lavoro deve tenere conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro, realizzando un equo contemperamento.

Salvo diversa previsione le ferie devono essere godute per almeno due settimane nel corso dell’anno di maturazione delle stesse e, nel caso di impossibilità, per il residuo nei 18 mesi successivi a tale anno, il periodo delle ferie deve essere possibilmente continuativo, in considerazione delle finalità dell’istituto.

Se le ferie maturate non vengono godute nel periodo prescritto dalla legge o dal contratto collettivo e non è più possibile neppure l’adempimento tardivo (ad esempio perché è cessato il rapporto di lavoro), spetta la retribuzione corrispondente (c.d. indennità di ferie non godute).

Ambito oggettivo di applicazione

Fatti di causa

La Corte d’appello di Perugia ha accolto l’impugnazione proposta da una società avverso la sentenza di primo grado che rigettava il ricorso in opposizione a verbale ispettivo con il quale l’INPS aveva richiesto il pagamento della contribuzione relativa agli importi dell’indennità sostitutiva di ferie non godute da tredici dipendenti della società nonostante il decorso di diciotto mesi dalla maturazione.

La Corte territoriale ha ribadito la assoluta irrinunciabilità del periodo feriale di 4 settimane per anno, cui consegue il divieto di monetizzazione del loro mancato godimento.

Su tale assunto, ha desunto l’astratta inconfigurabilità di un emolumento a cui poter riconnettere un obbligo contributivo se non quando il rapporto di lavoro sia cessato e non, come assunto dall’istituto previdenziale già dal diciottesimo mese successivo al mancato godimento (ex art. 10 d.lgs. n. 66/2003).

Per la cassazione della pronuncia ricorre l’INPS sulla base di un motivo; la società resiste con controricorso.

Motivi della decisione

1. Con l’unico motivo si deduce la violazione e falsa applicazione degli articoli 27 e 28 d.P.R. n. 797 del 1955, in quanto la prestazione lavorativa resa durante il periodo che si dovrebbe dedicare alle ferie ricade è prestazione resa in violazione di leggi a tutela del lavoratore per la quale vige il disposto dell’art. 2116 c.c.. La questione di cui si discute attiene alla assoggettabilità a contribuzione previdenziale dell’ importo corrispondente alla indennità per ferie non godute dal lavoratore, anche se non corrisposta, allorché siano decorsi i diciotto mesi successivi al momento di maturazione delle dette ferie ed il rapporto di lavoro non sia cessato.

Il Giudice di merito aveva osservato, invece, come il disposto dell’art 10 d.lgs. n. 66 del 2003, vieta del tutto che possa essere corrisposta una indennità per l’ipotesi di ferie non fruite se non al momento in cui il rapporto di lavoro venga a cessare, esplicitando che poiché il lavoratore non può pretendere la monetizzazione delle ferie non godute se non alla cessazione del rapporto di lavoro, allo stesso modo l’INPS non può pretendere il pagamento della contribuzione.

La Suprema Corte osserva che l’art.12 della legge n. 153 del 1969, che regola il sistema di finanziamento previdenziale, prevede che alla base del calcolo dei contributi previdenziali deve essere posta la retribuzione dovuta per legge o per contratto individuale o collettivo e non quella di fatto corrisposta.Evidenzia, inoltre, la Corte che il rapporto assicurativo e l’obbligo contributivo connesso al rapporto di lavoro, sono da considerarsi da questo del tutto autonomi.

Dall’autonomia del rapporto previdenziale dal rapporto di lavoro discende l’erroneità della tesi sostenuta dalla sentenza impugnata.

La Corte precisa che laddove il lavoratore non abbia fruito delle ferie maturate entro il termine indicato dall’art. 10 d.lgs. n. 66 del 2003 e cioè è stato impiegato anche mentre avrebbe dovuto riposare, va necessariamente a integrarsi il presupposto dell’obbligo contributivo richiesto dall’art. 12 I. n. 153 del 1969, giacché la prestazione è stata resa in un periodo in cui la stessa non avrebbe dovuto essere resa, generandosi una maggiore capacità contributiva, quantificabile in termini economici quale indennità per le ferie non godute, che non può non incidere sugli oneri di finanziamento del sistema previdenziale posti a carico dell’impresa che di tale maggior produzione si è avvantaggiata.. L’eventuale effettiva fruizione in epoca successiva ai diciotto mesi, peraltro, ben potrebbe giustificare il diritto del datore di lavoro a recuperare l’importo dei contributi versati a titolo di indennità per ferie non godute.

Per quanto innanzi, resta irrilevante – ai fini previdenziali – che l’indennità possa essere monetizzata tra le parti del rapporto di lavoro solo alla cessazione del medesimo e cioè quando una di tali parti o entrambe deciderà di porvi fine.

La Suprema Corte accoglie il ricorso ;cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Roma che esaminerà la fattispecie alla luce del principio di diritto secondo il quale costituisce base contributiva imponibile l’importo corrispondente alla indennità per ferie non godute nell’ipotesi in cui sia decorso il termine previsto dall’art. 10 d.lgs. n. 66 del 2003, a prescindere dalla cessazione del rapporto di lavoro. Il giudice del rinvio provvederà anche a regolare le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Roma anche per le spese del giudizio di legittimità.

Allegati

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