Massima

La decadenza prevista dall’art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970, nel testo modificato dall’art. 4, comma 1, del decreto-legge n. 384 del 1992, convertito con modificazioni nella legge n. 438 del 1992, sanziona la mancata proposizione, entro i termini prescritti, dell’azione giudiziaria volta al riconoscimento di determinate prestazioni previdenziali. Tale disciplina si articola in scadenze computate con riferimento alle diverse fasi del procedimento amministrativo e mira a garantire la definitività e certezza dei provvedimenti relativi all’erogazione di spese gravanti sui bilanci pubblici, in particolare quelli dell’INPS. Nel caso di specie, la normativa si applicava alla richiesta di riconoscimento dell’indennità di maternità per astensione facoltativa dal lavoro avanzata da una lavoratrice agricola, evidenziando il bilanciamento tra tutela individuale e esigenze di stabilità delle determinazioni amministrative in materia previdenziale. 

 

(Rocchina Staiano)

Supporto alla lettura

MATERNITA’

La legge tutela la lavoratrice madre nelle diverse fasi della gravidanza e nei primi anni di vita del bambino.

Innanzitutto viene tutelata la salute della lavoratrice, vietando che la stessa venga adibita a lavori ritenuti pericolosi, dall’inizio della gravidanza e fino al 7° mese di età del figlio, nonché a lavori notturni (dalle 24 alle 6). Nel periodo di divieto, la lavoratrice deve essere adibita ad altre mansioni, con mantenimento di retribuzione e qualifica. Quanto al compimento di mansioni superiori od equivalenti, si applica l’art. 13, L. 300/1970. Se la lavoratrice non può essere spostata ad altre mansioni, può essere disposta l’interdizione dal lavoro per tutto il periodo di gravidanza e fino al compimento dei 7 mesi di età del figlio. E’ inoltre vietato adibire le donne che allattano ad attività che comportino rischio di contaminazione. La lavoratrice gestante ha diritto a permessi retribuiti per effettuare esami prenatali, accertamenti clinici o visite mediche specialistiche, nel caso in cui questi debbano essere eseguiti durante l’orario di lavoro (dietro presentazione della relativa documentazione giustificativa). Queste tutele sono applicabili anche alle lavoratrici che hanno ricevuto bambini in adozione o affidamento,

La legge prevede poi l’astensione obbligatoria dal lavoro per la lavoratrice da 2 mesi prima la data presunta del parto, sino a 3 mesi dopo (è prevista la possibilità di astenersi in un momento antecedente i 2 mesi precedenti la data presunta del parto – in determinate condizioni di salute della lavoratrice – oppure il mese precedente la data presunta del parto ed i 4 mesi successivi), con diritto all’80% della retribuzione (c.d. congedo di maternità). Molti contratti collettivi pongono a carico del datore di lavoro il pagamento del restante 20%, così da assicurare alla lavoratrice l’intera retribuzione. Ove il parto avvenga oltre la data presunta, l’astensione obbligatoria opera anche per il periodo intercorrente tra la data presunta e la data effettiva del parto, nonché durante gli ulteriori giorni non goduti prima del parto, qualora il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta. Il recente d.lgs. 80/2015 ha poi stabilito che, in caso di parto prematuro, i giorni non goduti prima del parto si aggiungono al periodo di congedo di maternità dopo il parto, anche quando la somma dei periodi (prima e dopo il parto) supera il limite di 5 mesi. Tale disposizione, originariamente prevista in via sperimentale per il solo anno 2015, è stata infine resa definitiva dal d.lgs. 148/2015. Con lo stesso decreto 80/2015 è stato altresì previsto che, in caso di ricovero del neonato in una struttura pubblica o privata, la madre ha diritto di chiedere la sospensione del congedo post partum, riprendendo l’attività lavorativa e differendo la fruizione del congedo dalla data di dimissione del bambino. Tale diritto può essere esercitato una sola volta per ogni figlio ed è subordinato alla produzione di attestazione medica che dichiari la compatibilità dello stato di salute della donna con la ripresa dell’attività lavorativa.

La normativa relativa al congedo di maternità si applica alle lavoratrici dipendenti (comprese le lavoratrici a domicilio, le lavoratrici domestiche e quelle con contratto a tempo parziale) ed alle titolari di collaborazioni a progetto (per le quali, in caso di gravidanza, è prevista la proroga della durata del rapporto di lavoro per 180 giorni). Godono di una indennità di maternità (erogata dall’INPS) anche le lavoratrici autonome e le imprenditrici agricole. L’indennità è erogata per i 2 mesi antecedenti la data del parto e per i 3 mesi successivi ed è pari all’80% della retribuzione minima giornaliera prevista rispettivamente per gli impiegati e per gli operai agricoli a tempo indeterminato. Alle libere professioniste, iscritte a una cassa di previdenza e assistenza, è corrisposta un’indennità di maternità (in misura pari all’80% di 5/12 del reddito percepito e denunciato ai fini fiscali dalla libera professionista nel secondo anno precedente a quello della domanda) per i 2 mesi antecedenti la data del parto e i 3 mesi successivi. L’indennità è corrisposta, indipendentemente dall’effettiva astensione dall’attività, dalla competente cassa di previdenza e assistenza, a seguito di apposita domanda presentata dall’interessata a partire dal compimento del sesto mese di gravidanza ed entro il termine perentorio di centottanta giorni dal parto.

In caso di morte o di grave infermità della madre, nonché in caso di abbandono o di affidamento esclusivo del bambino al padre, è invece il lavoratore padre ad avere la facoltà di assentarsi dal lavoro per tutta la durata del congedo di maternità o per la parte residua che sarebbe spettata alla lavoratrice (c.d. congedo di paternità).

Con la L. 92/2012 di riforma del mercato del lavoro, è stato inoltre introdotto, in via sperimentale per il triennio 2013-2015, un vero e proprio obbligo di astensione dal lavoro anche in capo al lavoratore padre, della durata di un giorno e da fruirsi entro 5 mesi dalla nascita del figlio, con un’indennità giornaliera, a carico dell’INPS, pari al 100% della sua retribuzione. La L. 208/2015 (c.d. Legge di stabilità 2016) ha successivamente esteso l’applicazione di tale congedo obbligatorio anche all’anno 2016, prolungandone la relativa durata a 2 giorni.

A entrambi i genitori è poi riconosciuto il diritto di astenersi dal lavoro facoltativamente e contemporaneamente entro i primi anni di vita del bambino (c.d. congedi parentali). Il diritto all’astensione facoltativa è riconosciuto, ai sensi dell’art. 32 del d.Lgs. 151/2001, ai lavoratori e alle lavoratrici dipendenti (esclusi quelli a domicilio o gli addetti ai servizi domestici) titolari di uno o più rapporti di lavoro in atto, nonché alle lavoratrici madri autonome, seppur per periodi inferiori. Il congedo parentale spetta al genitore richiedente anche qualora l’altro genitore non ne abbia diritto. A seguito delle novità introdotte dai decreti attuativi del Jobs Act, la legge ora prevede che i genitori lavoratori, nei primi 12 anni di vita del figlio (8 anni, nella disciplina pre-riforma), possono astenersi dall’attività lavorativa per un totale di 10 mesi, frazionati o continuativi; i mesi sono 11, se il padre si astiene almeno per 3 mesi. Ciascun genitore può usufruire del congedo parentale per un massimo di 6 mesi, elevabili a 7, per il padre lavoratore che esercita il diritto di astenersi dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato non inferiore a 3 mesi. Nel caso di parto plurimo, il diritto al congedo parentale sussiste per ciascun bambino. Il diritto all’astensione facoltativa è riconosciuto anche ai genitori adottivi e affidatari, che possono usufruire dei congedi parentali entro dodici anni dall’ingresso del minore in famiglia (art. 36 del d.lgs. 151/2001, così come modificato dal d.lgs. 80/2015). Le lavoratrici autonome hanno invece diritto di fruire del congedo parentale per un massimo di 3 mesi entro l’anno di vita del bambino.

La lavoratrice madre o, in alternativa, il lavoratore padre di minore con handicap in situazione di gravità accertata (L. n. 104/1992 art. 4, c. 1) hanno diritto, entro il compimento del 12° anno di vita del bambino, al prolungamento del congedo parentale, fruibile in misura continuativa o frazionata, per un periodo massimo, comprensivo dei periodi di congedo parentale ordinario, non superiore a 3 anni, o, in alternativa, nei primi 3 anni di vita del minore, a un permesso giornaliero di 2 ore retribuite, a condizione che il bambino non sia ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati, salvo che, in tal caso, sia richiesta dai sanitari la presenza del genitore (art. 33 del d.lgs. 151/2001, così come modificato dal d.lgs. 80/2015).

Nel corso della vita del figlio, i genitori lavoratori hanno poi diritto a riposi retribuiti e congedi non retribuiti per le malattie del figlio.

La legge, infine, garantisce la conservazione del posto di lavoro per la lavoratrice madre, o il lavoratore padre che abbia usufruito di congedi, attraverso il divieto di licenziamento dall’inizio della gravidanza sino al compimento di un anno di età del figlio, l’obbligo di convalidare le dimissioni presentate in questo stesso periodo avanti la Direzione Provinciale del Lavoro, nonché il diritto a conservare il proprio posto di lavoro e a rientrare nella stessa unità produttiva cui era adibita precedentemente, con le stesse mansioni. In caso di licenziamento intimato nel periodo di maternità, la legge prevede che il licenziamento debba considerarsi nullo e stabilisce:

  • l’ordine di reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro;
  • la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, nella misura della retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto solo quanto percepito attraverso un’altra occupazione (l’indennità non può comunque essere inferiore alle cinque mensilità);
  • il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per tutto il periodo intercorso fra il licenziamento a quello della reintegrazione;
  • il cd. diritto di opzione a favore della lavoratrice, ossia la possibilità per quest’ultima di scegliere, in luogo della reintegra, il pagamento di un’indennità pari a quindici mensilità.

La richiesta di dimissioni presentata dalla lavoratrice durante il periodo di gravidanza, così come la richiesta di dimissioni presentata dalla lavoratrice o dal lavoratore durante i primi 3 anni di vita del bambino o nei primi 3 anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento, devono essere convalidate dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali competente per territorio. A detta convalida è sospensivamente condizionata l’efficacia della risoluzione del rapporto di lavoro (art. 55, co. 4, d.lgs. 151/2001). In caso di mancato accertamento della volontarietà della richiesta di dimissioni tramite convalida si determina la nullità delle dimissioni anche a prescindere dalla conoscenza dello stato di maternità da parte del datore di lavoro.

Ambito oggettivo di applicazione

Rilevato che

con sentenza n. 1355 del 2014, la Corte di appello di Catanzaro, pronunciando in sede di rinvio a seguito di riassunzione conseguente alla cassazione della sentenza della Corte di Appello di Reggio Calabria n. 1188/2009, ha rigettato l’appello proposto da V.M. avverso la sentenza del Tribunale di Crotone;

tale sentenza, che aveva ritenuto inammissibile, per difetto di domanda amministrativa, la pretesa della predetta bracciante agricola intesa ad ottenere l’indennità di maternità per astensione facoltativa dal lavoro, era stata confermata in appello ma tale ultima sentenza era stata cassata con rinvio dalla Corte di cassazione con sentenza 3560 del 2012;

la sentenza ora impugnata, appurato che in effetti l’indennità di maternità per astensione facoltativa era stata chiesta in sede amministrativa con domanda del 31.1.1997, in relazione al parto avvenuto 3 novembre 1996, ed in sede giudiziaria il successivo 2 dicembre 1998, ha accolto l’eccezione di decadenza ai sensi dell’art. 47 d.P.R. n. 639 del 1970 come modificato dall’art. 4 d.l. n. 384 del 1992;

per la cassazione di tale decisione ricorre V.M., affidando l’impugnazione a quattro articolati motivi, cui resiste l’INPS, con controricorso e successiva memoria;

il P.G. ha rassegnato conclusioni scritte chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o rigettato;

Rilevato che

con il primo motivo, si denunzia violazione e falsa applicazione artt. 24, 37, 111 e 117 Cost., violazione dell’art. 47 C:DUEF, dell’art. 6, n. 1, terzo comma, TUE, degli artt. 27,33,34,51, 52, 53 e 54 CDFUE, dell’art. 6 e 13 CEDU e dell’art. 3 e dello Statuto del Consiglio d’Europa; violazione ed errata applicazione dell’art. 7 I. n. 1204 del 1971, ratione temporis vigente, dell’art. 8 del d.P.R. n. 1026/76, dell’art. 7 I. n. 533/1973, dell’art. 47 d.P.R. n. 639/1970, violazione dell’art. 12 disp. prel c.c., violazione dell’art. 443 c.p.c., in sostanza, la ricorrente, pur affermando di essere consapevole del netto orientamento assunto da questa Corte di cassazione in materia decadenza dalle prestazioni temporanee, ritiene che i principi emergenti dalla normativa comunitaria e dal Trattato di Lisbona, imporrebbero di leggere la disciplina dell’indennità di maternità nel senso di non ritenerla compatibile con la previsione di un termine di decadenza decorrente dalla comunicazione della decisione del ricorso amministrativo anche quando lo stesso intervenga oltre i 300 giorni dalla proposizione del ricorso stesso; si sostiene che in caso diverso si avrebbe una grave limitazione dei diritti degli assistiti previdenziali che, di fronte ad un’inerzia immotivata dell’amministrazione o a comportamenti negligenti ed omissivi o ingannevoli, vedrebbero sacrificato il proprio diritto per il semplice decorso del tempo. Si aggiunge che la S.C. aveva desunto dal R.D.L. n. 1827 del 1935, art. 97, un principio di carattere generale di settore per il quale il decorso della prescrizione risulta sospeso per il tempo di inerzia giustificata, e quindi incolpevole, dell’assicurato e che tale soluzione risponde all’esigenza di interpretare la normativa nazionale in conformità ai trattati internazionali ed al principio dell’equo processo, letto in combinato disposto con la garanzia costituzionale della tutela giurisdizionale ed anche con l’art. 47 della Carta dei Diritti fondamentali UE;

viene, quale secondo motivo, sollevato il dubbio sulla costituzionalità, in ipotesi di conferma della giurisprudenza di legittimità criticata, dell’art. 47 d.P.R. n. 639/1970 in relazione all’art. 117 Cost. e, conseguentemente, all’art. 47 CDFUE, agli artt. 27, 33, 34, 51, 52, 53 e 54 CDFUE, all’art. 6 e 13 CEDU e dell’art. 3 e dello Statuto del Consiglio d’Europa;

con il terzo motivo, si denuncia la violazione degli artt. 2966, 2968, 2969 c.c. in ragione del fatto che la decadenza non potrebbe essere rilevata d’ufficio ma solo su tempestiva eccezione di parte;

con il quarto motivo, si denuncia la violazione e falsa applicazione della legge n. 1204 del 1971, artt. 7 e 15, in relazione al d.l. n. 463 del 1983, art. 5, comma 6, conv. in I. n. 638 del 1983 in ragione del fatto che nel corso del giudizio di primo grado erano stati accertati i presupposti della sussistenza del rapporto di lavoro agricolo a tempo determinato, del requisito contributivo e dell’avvenuto parto per fruire dell’indennità facoltativa di maternità, non impugnata su tali aspetti;

i primi tre motivi, connessi e da trattare congiuntamente, sono infondati;

innanzi tutto, con riferimento particolare al terzo motivo, non può accogliersi la tesi del carattere disponibile della decadenza prevista dall’art. 47 d.P.R. n. 639 del 1970;

come plurime volte affermato da questa Corte di cassazione, infatti, tale decadenza, nel testo di cui all’art. 4, comma 1, del d.l. n. 384 del 1992, conv. con modif. in I. n. 438 del 1992„ che sanziona la mancata proposizione, entro termini computati in riferimento a diverse fasi del procedimento amministrativo, dell’azione giudiziaria diretta al riconoscimento di determinate prestazioni previdenziali, è dettata a protezione dell’interesse pubblico alla definitività e certezza dei provvedimenti concernenti l’erogazione di spese gravanti sui bilanci pubblici, sicché è sottratta alla disponibilità della parte, è rilevabile d’ufficio – salvo il limite del giudicato – in ogni stato e grado del giudizio ed è opponibile, anche tardivamente, dall’istituto previdenziale (Cass. n. 3990 del 2016; n. 28639 del 2018; n. 17792 del 2020);

peraltro, come già osservato in un precedente di legittimità utilmente richiamabile (vd. Cass. n. 26664 del 2016), già la pronuncia del 27.10.2009 n 12718 resa a sezioni unite„ componendo un contrasto insorto nella giurisprudenza di legittimità, in tema di decadenza dall’azione giudiziaria per il conseguimento di prestazioni previdenziali, ha chiarito che il D.P.R. n. 639 del 1970, art, 47, nel testo modificato dal D.L. n. 384 del 1992, art. 4, convertito, con modificazioni, nella L. n. 438 del 1992, dopo avere enunciato due diverse decorrenze delle decadenze riguardanti dette prestazioni (dalla data della comunicazione della decisione del ricorso amministrativo o dalla data di scadenza del termine stabilito per la pronunzia della detta decisione), individua nella “scadenza dei termini prescritti per l’esaurimento del procedimento amministrativo” – la soglia di trecento giorni (risultante dalla somma del termine presuntivo di centoventi giorni dalla data di presentazione della richiesta di prestazione di cui alla L. n. 533 del 1973, art. 7 e di centottanta giorni, previsto) dalla L. n. 88 del 1989, art. 46, commi 5 e 6, oltre la quale la presentazione di un ricorso tardivo pur restando rilevante ai fini della procedibilità dell’azione giudiziaria non consente lo spostamento in avanti del “dies a quo” per l’inizio del computo del termine decadenziale. Tale disposizione – per configurarsi come una norma di chiusura volta ad evitare una incontrollabile dilatabilità del termine di una decadenza avente natura pubblica – deve trovare applicazione anche se il ricorso amministrativo o la decisione sul ricorso siano intervenuti in ritardo rispetto al termine previsto (cfr. Cass. 27.10.2014 n. 22759, che richiama Cass. n. 18528 del 2011, n. 17562 del 2011, n. 7527 del 2010);

tale disciplina non si pone in contrasto con i principi costituzionali o euro unitari richiamati dalla ricorrente, come plurime volte affermato, oltre che da questa Corte di cassazione ( vd. Cass. nn. 4307 del 2020; 29819 del 2017; 22948 del 2016), anche dalla Corte Costituzionale ( vd. Corte Cost. n. 192 del 2005), secondo la quale l’art. 38, secondo comma, della Costituzione, attiene all’adeguamento dei mezzi di carattere previdenziale alle esigenze di vita dell’interessato, piuttosto che alle modalità necessarie a conseguirli, a meno che esse non siano tali da comprometterne il conseguimento, ed ha ritenuto pienamente legittime le regole con cui, nel rispetto degli altri precetti costituzionali, viene condizionata l’insorgenza di tali diritti o di questi disciplinato l’esercizio (v., sul punto, tra le altre le sentenze n. 345 del 1999, n. 71 del 1993, n. 203 del 1985, n. 33 del 1977, n. 33 del 1974 e n. 10 del 1970);

in particolare, la citata sentenza ha ricordato che, sul tema della decadenza, già Corte Cost. n. 192 del 1987 aveva affermato che «l’esercizio di ogni diritto, anche costituzionalmente garantito, può essere dalla legge regolato e sottoposto a limitazioni, sempre che tali limitazioni siano compatibili con la funzione del diritto di cui si tratta e non si traducano nell’esclusione della effettiva possibilità dell’esercizio di esso»;

inoltre, quanto, poi, al profilo della irragionevolezza del termine in ragione della affermata sua brevità, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 192 del 2005 ha pure ribadito che, in tema di valutazione di congruità dei termini di decadenza, la incongruità può ammettersi solo quando il termine sia determinato in modo da non rendere effettiva la possibilità di esercizio del diritto cui si riferisce, e, di conseguenza, inoperante la tutela che si sia inteso accordare al cittadino leso (v. sentenza n. 10 del 1970, cit.), essendo stato chiarito che «la congruità di un termine di decadenza – sia pure con riguardo alla garanzia costituzionale del diritto alla difesa – deve essere valutata non solo in rapporto all’interesse di chi ha l’onere di osservarlo, ma anche con riguardo alla funzione ad esso assegnata nell’ordinamento giuridico» (sentenza n. 284 del 1985);

infine, pur dovendosi rilevare che la fattispecie non presenta caratteri di collegamento con l’ordinamento dell’Unione Europea, va rilevato che neanche le fonti sovranazionali indicate dalla ricorrente confliggono con la previsione dell’art. 47 d.P.R. n. 639 del 1970 dal momento che, proprio in tema di tutela della maternità, la giurisprudenza della CGUE (Corte giustizia UE sez. III, 29/10/2009, n.63) ha affermato la conformità al diritto dell’Unione di ipotesi di decadenza precisando che

<per quanto riguarda il principio di tutela giurisdizionale effettiva dei diritti conferiti ai singoli dal diritto comunitario, risulta dalla giurisprudenza consolidata che le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza), né devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) (v., in particolare, sentenza 15 aprile 2008, causa C-268/06, Impact, Racc. pag. 1-2483, punto 46 e giurisprudenza citata)>;

anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è espressa nel senso che la previsione di limiti temporali relativi all’accesso al giudice non è di per sé in contrasto con l’art. 6 della CEDU, in quanto lo scopo, in definitiva, è quello di realizzare un “equo bilanciamento” (“fair balance”) tra, da un lato, gli interessi generali della comunità e, eventualmente, i diritti dei convenuti e, dall’altro lato, le esigenze di protezione dei diritti fondamentali delle persone (Fayed c. Regno Unito, CEDU, 21 settembre 1994, cit.”;

pertanto, posto che il termine di un anno, dall’esaurimento del procedimento amministrativo, non è certo talmente breve da rendere impossibile l’accesso al giudice, anche sotto tali profili, i rilievi sollevati dalla ricorrente appaiono infondati;

in definitiva, il ricorso va rigettato;

le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo:

P.Q.M.

rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 1700,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese generali in misura del 15%. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis, del citato D.P.R. ove dovuto.

Allegati

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