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Cassazione civile sez. lav., 13/06/2023, n. 16785

Massima

Nulla l’assunzione a termine in sostituzione di dipendente assente, se non può mai essere eseguita per divieto delle mansioni in gravidanza.

Supporto alla lettura

PUBBLICO IMPIEGO

Il pubblico impiego è definibile come quel rapporto di lavoro in cui una persona fisica mette volontariamente la propria attività, in modo continuativo e dietro corresponsione della retribuzione, al servizio dello Stato o di un ente pubblico non economico. Elementi essenziali sono:

  • l’accesso mediante concorso;
  • la natura pubblica dell’ente;
  • la correlazione con i fini istituzionali dell’ente;
  • la subordinazione con inserimento nell’organizzazione amministrativa dell’ente;
  • la continuità (va ricompreso anche il rapporto a tempo determinato);
  • l’esclusività;
  • la retribuzione predeterminata.

Agli inizi degli anni novanta vi è stata la c.d. privatizzazione del pubblico impiego realizzata mediante l’attuazione di due leggi delega e consiste essenzialmente nell’applicazione delle disposizioni di diritto privato al rapporto di pubblico impiego, nell’applicabilità della disciplina della contrattazione collettiva e nell’assegnare alla pubblica amministrazione/datrice di lavoro i medesimi poteri di gestione del rapporto tipici del datore di lavoro privato. Il susseguirsi di provvedimenti che hanno modificato tale disciplina, ha reso indispensabile l’elaborazione di un testo legislativo che riordinasse l’intera disciplina del pubblico impiego, il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che costituisce il testo normativo di riferimento per la disciplina dei pubblici uffici e del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, esso si applica a tutte le P.A. ad eccezione di alcune categorie di lavoratori (es. magistrati, avvocati, personale militare, diplomatici, professori e ricercatori universitari, ecc.)

Ambito oggettivo di applicazione

RILEVATO CHE

1. (omissis), medico psichiatra, in data 31.1.2012 è stata individuata dalla ASL Roma (omissis) (ora Azienda USL Roma (omissis) di seguito AUSL) quale destinataria di contratto a tempo determinato,con apposita determinazione dirigenziale in pari data, seguita stessa giorno dalla sottoscrizione del contratto, in cui si dava atto dell’avvenuta favorevole sottoposizione della medesima alla visita
di idoneità all’impiego, il tutto per il servizio da svolgere presso il Dipartimento di Salute Mentale (SPDC) di Tivoli, in sostituzione di medico assente e ciò dal 16.2.2012 al 15.2.2013 e comunque non oltre la data di rientro del titolare;

successivamente, in data 8.2.2012, la (omissis) aveva palesato all’Azienda il proprio stato di gravidanza, a seguito di ultima mestruazione del 26.10.2011;

in esito a confronti e contestazioni tra le parti, il Direttore delle Risorse Umane aveva dapprima comunicato alla (omissis) che essa non avrebbe dovuto prendere servizio il giorno iniziale stabilito nel contratto, perché lo stato di gravidanza impediva di farlo, stante il divieto di cui all’art. 7 d. lgs. 151/2011, Allegato A punto L;

in data 28.3.2012 la AUSL ha quindi disposto l’annullamento della determina dirigenziale di nomina della (omissis) e del conseguente contratto di lavoro in ragione della inidoneità della stessa alle mansioni;

2. la (omissis) ha agito giudizialmente chiedendo, in primis, previa qualificazione come licenziamento della risoluzione posta in essere dalla AUSL, l’annullamento dello stesso con reintegra e con le conseguenze di cui all’art. 18 L. 300/1970 e, in subordine, comunque, l’accertamento dell’illegittimità della delibera posta in essere in autotutela dalla AUSL, con immediata riammissione in servizio e condanna alle retribuzioni non percepite;

3. la domanda è stata disattesa in primo grado e la pronuncia del Tribunale di Tivoli ha trovato conferma attraverso la reiezione, da parte della Corte d’Appello di Roma, del gravame interposto dalla (omissis);

4. la Corte d’Appello ha ritenuto che nel caso di specie si fosse avuto, un legittimo esercizio di autotutela da parte della P.A. rispetto alla delibera di conferimento dell’incarico, rimarcando come le ragioni poste a base dell’annullamento di essa e del consluente contratto di lavoro fossero risultate anche in conereto sussistenti, stante il disposto dell’art. 7, All. A lettera L cit. che avrebbe impedito lo
svolgimento delle mansioni di assunzione per l’intero periodo di lavoro, senza contare il fatto che il comportamento del medico aveva tratto in errore la controparte, avendo fatto riferimento, in sede di visita, alla regolarità del ciclo mestruale, nonostante il risalire dell’ultima mestruazione a più di tre mesi prima ed avendo in sostanza celato lo stato di gravidanza;

5. (omissis) ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi, poi illustrati da memoria e resistiti dalla AUSL;

CONSIDERATO CHE

1. il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione (art. 360 n. 3 c.p.c.) dell’art. 5 d.lgs. 165/2001 e con esso si sostiene che la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che la P.A. potesse sottrarsi unilateralmente, in via di autotutela, all’osservanza del rapporto di lavoro esistente per effetto del contratto stipulato, non potendosi ritenere ammissibile che quest’ultimo venisse risolto sulla base dell’annullamento della fase c.d. pubblicistica di individuazione del contraente o che l’autotutela pubblicistica potesse costituire un espediente per raggiungere un tal scopo;

il secondo motivo è indirizzato a censurare la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione (art. 360 n. 3 c.p.c.) dell’art. 63 d. lgs. 165/2001 e dell’art. 1418 c.c.;

la ricorrente argomenta, per un verso, sul disposto dell’art. 63 cit. nella parte in cui stabilisce che, in caso di assunzione avvenuta in violazione di norme sostanziali o procedurali la sentenza del giudice abbia effetto rispettivamente costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro, dal che dovrebbe desumersi la necessità della pronuncia giudiziale per l’assicurazione dei predetti effetti, che dunque non potrebbero conseguire automaticamente in ragione dell’accertamento dell’illegittimità della scelta pubblica, dovendosi affermare che il legislatore aboia inteso volutamente escludere un tal effetto automatico e che la patologia del contratto, in tali casi sarebbe non la nullità, ma l’anrullabilità;

il ragionamento è poi condotto richiamando anche la disciplina dell’art. 55-quater del d. lgs. 165/2001 il quale, in caso di falsità documentali o dichiarative, commesse ai fini o in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro, stabilisce che la sanzione sia quella del licenziamento, a riprova della necessità, in tali casi, comunque di un atto di recesso, non bastando ritenere sufficiente che la P.A. possa considerare tout court come mai sorto il vincolo; infine, con riferimento all’art. 1418 c.c., la ricorrente fa leva sul fatto che l’ordinamento regola esplicitamente svariate ipotesi di nullità di contratti di lavoro stipulati dalla P.A., ai sensi del secondo (rectius, terzo) comma della citata disposizione codicistica, il che sarebbe non comprensibile se, per svincolare la P.A. dalle corrispondenti pattuizioni bastasse già il primo comma dell’art. 1418 c.c.;

il terzo motivo fa ancora riferimento all’art. 1418 c.c., in relazione all’art. 1 d. lgs. 198/2006 ed all’art. 7 d. lgs. 151/2001, di cui nel complesso sostiene la violazione e falsa applicazione (art. 360 n. 3 c.p.c.), affermando che un contratto con un lavoratore che, al momento della sua sottoscrizione, non avesse più i requisiti per svolgere l’incarico di dirigente medico per il solo fatto di trovarsi gravidanza, non avrebbe potuto essere considerato nullo) determinandosi altrimenti una palese discriminazione di genere, stante il fatto che un uomo non si troverebbe mai in una condizione analoga, con violazione anche del principi di pari opportunità di accesso al mondo del lavoro (art. 1 d. lgs. 198/2006), erroneamente altresì essendosi ritenuta l’ostatività della condizione di gravidanza con il lavoro, in quanto l’art. 7 cit. prevedeva semmai l’allocazione in altre mansioni;

il quarto ed ultimo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione (art. 360 n. 3 c.p.c.) dell’art. 54, co. 3, lett. A del d. lgs. 151/2001, sul presupposti che la decisione assunta dalla Corte territoriale avrebbe finito per aggirare il divieto di licenziamento previsto da tale norma per il caso in cui il lavoratore avesse omesso di rendere noto al proprio datore di lavoro il proprio particolare stato ipotesi che, per giurisprudenza di questa S.C. non potrebbe integrare una giusta causa di risoluzione;

2. i motivi, da esaminare congiuntamente secondo la loro connessione logica, sono infondati;

2.1 l’art. 63, co. 2, d. lgs. 165/2001 prevede in effetti che se l’assunzione sia avvenuta In violazione di norme sostanziali o procedurali, le sentenze del giudice ordinario hanno anche effetto rispettivamente costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro;

tale norma può tuttavia essere intesa nel senso di escludere le comuni regole riguardanti la nullità dei rapporti di lavoro, quando esistente, la quale, stante la sottoposizione al diritto privato comune, mantiene le proprie caratteristiche di invalidità destinata ad operare di diritto e senza necessità di pronuncia costitutiva, sicché in tali casi la statuizione ha natura meramente dichiarativa e la parte, anche prima ed al di fuori del giudizio, ha diritto a rifiutare l’esecuzione del contratto nullo;

la norma va dunque intesa, in linea con i principi e tenendo conto del fine da essa perseguito di coordinare i poteri del giudice ordinario nei riguardi di atti e comportamenti comunque riferibili, dal punto di vista soggettivo, ad una Pubblica Amministrazione, nel senso di attestare la possibilità di emettere, qualora si renda necessaria, anche una pronuncia costitutitiva nei confronti dell’ente pubblico non economico, così evitandosi ogni dubbio di interferenza della disciplina di cui alla Legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, escluso dall’espresso riconoscimento del possibile esercizio di tali poteri rispetto ai rapporti contrattuali instaurati;

ciò evidentemente non significa però che, se non vi sia necessità di pronuncia costitutiva, non valgano gli ordinari iprincipi sulla natura del vizio invalidante e pertanto, rispetto alla nullità, valgono le comuni regole su,ll’opératività di pieno diritto e sulla portata di mero accertamento della pronuncia giudiziale;

2.2 quanto alle modalità di individuazione dei vizi di nullità dei contratti di lavoro con la P.A., non vi è poi alcuna contraddizione tra le previsioni legali speciali che sanciscono un tale effetto e l’art. 1418, co. 1, c.p.c. in quanto semmai quelle previsioni speciali sono tali da sollevare l’interprete dall’onere di individuare l’imperatività cui l’art. 1418, co. 1, c.c. riconnette la sanzione di nullità;

ma non e poi neppure quello il punto, perche nel caso di specie quella emersa non è una nullità “speciale”, ma è ipotesi  come si dirà, all’art. 1418, secondo comma, c.c.

2.3. in proposito, va intanto richiamato quanto già chiarito da questa S.C. rispetto al disposto dell’art. 55-quater, lett. d) d. lgs. 165/2001, nel senso che l’assunzione sulla base di dati non veridici è causa di decadenza, con conseguente nullità del contratto, allorquando ciò comporti la carenza di un requisito che avrebbe in ogni caso impedito l’instaurazione del rapporto di lavore: con la P.A, mentre è solo nelle altre ipotesi che le produzioni o dicfiiar,azioni false effettuate in occasione o ai fini dell’assunzione possono comportare, una volta instaurato il rapporto, il licenziamento, ai sensi dell’art. 55-quater, lett d), del d.lgs. n. 165 del 2001, in esito al relativo procedimento disciplinare ed a condizione che, valutate tutte le circostanze del caso concreto, la misura risulti proporzionata rispetto alla gravità dei comportamenti tenuti (Cass. 11 luglio 2019, n. 18699);

2.3.1 non vi è dunque a parlale di licenziamento o recesso datoriale, se il rapporto sia viziato ab origine da un vizio di nullità ed in tali casi, l’atto con il quale l’amministrazione revochi un’assunzione o un incarico «equivale> alla condotta del contraente che non osservi il contratto stipulato ritenendolo inefficace perché affetto da nullità, trattandosi di un comportamento con cui si fa valere l’assenza di un vincolo contrattuale» (Cass. 18699 cit; Cass. 8 gennaio 2019, n. 194; Cass. 1 ° ottobre 2015, n. 19626; Cass. 8 aprile 2010, n. 8328), ovverosia, secondo un più risalente ma pur sempre valido precedente, la decadenza in questi casi va apprezzata «semplicemente in termini di rifiuto dell’amministrazione scolastica di continuare a dare esecuzione al rapporto di lavoro a causa della nullità del contratto per violazione di norma imperativa» (Cass. 5 giugno 2006, n. 13150);

2.4 l’inquadramento del vizio, in questo caso, sulla base degli accertamenti di fatto svolti dalla Corte territoriale e previa parziale integrazione dell’argomentazione giuridica da essa svolta, va svolto muovendo dal dato normativo per cui vi è divieto durante la gravidanza all’assegnazione a certe mansioni (art. 7 d. lgs. 151/2000), a tutela della gestante e del feto;

tra queste mansioni rientra quelle di «assistenza e cura- degli infermi nei sanatori e nei reparti … per malattia nervose e mentali» e ciò «durante la gestazione e per i setti mesi dopo il parto» (All. A all’art. 7 lett. L);

a ciò va associata la considerazione, sempre svolta dalla Corte di merito, per cui quel divieto sarebbe stato tale da coprire l’intero periodo del rapporto a termine per esigenze sostitutive instaurato; è chiaro che, a fronte di un contratto a termine per esigenze sostitutive di uno specifico lavoratore, su un incarico con tratti di spiccata professionalità quale è uno psichiatra, non può esservi luogo a ragionare in termini di allocazione altrove della gestante che sia stata assunta a tempo determinato e proprio e solo per quello specifico fine;

quello per cui vi era stata l’assunzione era chia1ramente un incarico in ungibile, sicché non si poteva rimediare spostando la (omissis) ad altro incarico e adibendo un altro lavoratore già in forza a quelle funzioni, ma si sarebbe dovuto ricorrere ad una reiterazione del medesimo contratto con altro sostituto, il che significherebbe piena vanificazione del programma negoziale, inevitabilmente rigido data la natura dell’incarico;

il ricorrere fin dal primo giorno di lavoro di quell’impedimento e divieto, destinato a perdurare per tutta la durata del rapporto, porta a ravvisare nell’accaduto un difetto originario e radicale del contratto, impossibilitato ad essere attuato, secondo il programma negoziale in esso incorporato, per tutta la sua durata;

la fattispecie di pone all’intersezione tra l’ipotesi di una sostanziale impossibilità giuridica dell’oggetto (la prestazione resa non poteva infatti essere resa) ed al contempo di una illiceità della causa in contrasto con il divieto di legge), in ogni caso ipotesi tutte destinate ad integrare la nullità ai sensi dell’art. 1418, co. 2, c.c.;

impossibilità giuridica ed illiceità della causa che operano – si badi bene – in forza di ragioni di tutela inderogabile che va ben oltre la persona del lavoratore, estendendosi, a tutela rafforzata anche del neonato, fino al settimo mese dopo il parto e dunque al di là delle ordinarie regole di astensione obbligatoria dal rapporto di lavoro;

a fronte il di lavoro tale nullità poi la P.A. ha giustamente ritenuto di non far iniziare il lavoro e poi di rifiutare ha l’attuazione del contratto, per i medesimi principi sopra riepilogati al punto 2.3.1;

2.5 il ragionamento qui non ruota attorno ad un vizio del consenso datoriale, che presupporrebpe, un obbligo della gestante di denunciare la propria condizione e che potrebbe comportare una disparità di trattamento tra generi, secondo quanto già ritenuto da questa S.C. nell’escludere «un siffatto obbligo di informazione che, peraltro, non può essere desunto dai canoni generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ. o da altri genenali principi dell’ordinamento», in quanto esso «finirebbe per rendere inefficace la tutela della lavoratrice madre ed ostacolerebbe la piena attuazione del principio di parità di trattamento, garantito costituzionalmente e riaffermato anche dalla normativa comunitaria (Direttive CEE n. 76/207 e 92/85)» (v. Cass. 6 luglio 2002 n. 9864)”;

è poi vero che, secondo Corte Giustizia 4 ottobre 2001, Tele Danmark, «il licenziamento di una lavoratrice a motivo del suo stato interessante costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso, quali che siano la natura e l’estensione del danno economico subito dal datore di lavoro a causa de/l’assenza legata alla gravidanza» e che «la circostanza che il contratto di lavoro sia stato concluso per una durata determinata o indeterminata non incide sul carattere discriminatorio del licenziamento», stante il fatto che «in entrambi i casi, l’incapacità della dipendente ad adempiere il contratto di lavoro è dovuta alla gravidanza»; 

entrambe le predette statuizioni non si attagliano tuttavia al caso di specie, perché ciò che in questo caso rileva, nel convergere del divieto e dell’estendersi di esso a tutta la durata del rapporto quale specificamente voluta e calibrata rispetto all’assenza del medico da sostituire, non è la conoscenza che il datore di lavoro avesse o meno di quella condizione della puerpera, ma il fatto obiettivo che il regolamento negoziale, su quella base di fato, non potesse proprio trovare attuazione e fosse anzi vietato dalla legge;

ogni questione su disparità di trattamento tra generi o su interferenze rispetto al diritto della gestante, a tutela delle proprie chances, di non rilevare la propria condizione al momento dell’assunzione non hanno dunque rilievo, in quanto quelle condizioni di fatto nel caso di specie rilevano come dato obiettivo e impeditivo per legge, con la forza del divieto, dell’instaurazione di un valido rapporto, i cui difetti genetici lo rendono nullo di pieno diritto;

per analoghe ragioni è mal posto il richiamo al divieto di licenziamento (art. 54 d.lgs. 151/2001) o alla valorizzazione di profili di colpa della gestante (co. 3 lett. a della norma), proprio perché qui non di licenziamento si tratta, come sopra spiegato, né a fondare la decisione stanno addebiti mossi nei riguardi della (omissis), ma solo i dati obiettivi da cui deriva la nullità del rapporto;

3. il ricorso va dunque rigettato e le spese del grado restano regolate secondo soccombenza;

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità che, liquida in euro 2.000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previst0 per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma nell’adunanza camerale clel 15.2.2023.

Allegati

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