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Cassazione civile sez. lav., 10/10/2024, n. 26440

Massima

In tema di licenziamento disciplinare, la valutazione della gravità della condotta del lavoratore e la sussistenza della giusta causa sono riservate al giudice di merito, insindacabili in sede di legittimità, salvo che per errori di diritto o vizi logici (nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha ritenuto inammissibile il ricorso del lavoratore, confermando la decisione della Corte d’Appello che aveva ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa a seguito di un episodio di condotta sgarbata e scurrile nei confronti di un cliente).

Supporto alla lettura

LICENZIAMENTO

Il licenziamento è l’atto con cui il datore di lavoro risolve il rapporto di lavoro.
Esistono diverse motivazioni che possono dare origine al licenziamento:

  • giusta causa
  • giustificato motivo soggettivo
  • giustificato motivo oggettivo
  • licenziamento orale (o verbale)
  • licenziamento in maternità o in conseguenza del matrimonio

GIUSTA CAUSA

Comportamento del lavoratore che costituisca grave violazione ai propri obblighi contrattuali, tale da ledere in modo insanabile il necessario rapporto di fiducia tra le parti e che non consente la prosecuzione nemmeno temporanea del rapporto di lavoro (c.c. 2119).

GIUSTIFICATO MOTIVO SOGGETTIVO

È rappresentato da comportamenti disciplinarmente rilevanti del dipendente ma non tali da comportare il licenziamento per giusta causa, e cioè senza preavviso. Rientra ad esempio il licenziamento per motivi disciplinari.

GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO

E’ rappresentato da ragioni inerenti l’organizzazione del lavoro dell’impresa.
Costituisce pertanto G.M.O. la crisi dell’impresa, la cessazione dell’attività e, anche solo, il venir meno delle mansioni cui era in precedenza assegnato il lavoratore, senza che sia possibile il suo “ripescaggio”, ovvero la ricollocazione del medesimo in altre mansioni esistenti in azienda e compatibili con il livello di inquadramento.

La procedura in tutte queste forme di licenziamento per impugnare è bifasica: impugnativa stragiudiziale entro 60 giorni. Impugnativa giudiziale nei successivi 180 giorni dall’impugnativa stragiudiziale.

LICENZIAMENTO VERBALE O ORALE

E’ il caso in cui il lavoratore viene allontanato dal luogo di lavoro senza alcun atto formale da parte del datore di lavoro (lettera – mail) ma a voce. Il licenziamento è nullo.

Ambito oggettivo di applicazione

RILEVATO CHE
1. La Corte d’Appello di Cagliari ha accolto il reclamo proposto dalla (omissis) Srl unipersonale e, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto l’impugnativa del licenziamento disciplinare intimato a (omissis) il 17 maggio 2018.

2. La Corte d’Appello ha premesso che al sig. (omissis), addetto al banco macelleria di un supermercato, era stato contestato di essersi rivolto ad un cliente in modo sgarbato e scurrile; ha accertato la sussistenza dell’addebito e sottolineato “la volgarità e l’aggressività dimostrate dal lavoratore, peraltro nei confronti di una persona anziana” (sentenza, p. 5, secondo cpv.); ha motivato la gravità della condotta per avere il dipendente “proseguito il diverbio, anziché chiedere scusa al cliente…, con toni sempre più accessi, dando uno spettacolo indecoroso e anche un po’ preoccupante” (p. 5, ultimo cpv.); ha ritenuto integrata la previsione dell’art. 215 c.c.n.l. che sanziona con il licenziamento le “gravi violazioni” degli obblighi posti dall’art. 210, tra cui quello di “usare modi cortesi col pubblico e di tenere una condotta conforme ai civici doveri”; ha tenuto conto dei precedenti disciplinari infrabiennali che, se pure non specifici, tuttavia rivelavano un reiterato disprezzo delle regole che rendeva non più proseguibile il rapporto di lavoro.

3. Avverso la sentenza (omissis) ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi. La (omissis) Srl Unipersonale ha resistito con controricorso. È stata depositata memoria nell’interesse del sig. (omissis).

4. Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal D.Lgs. n. 149 del 2022.

Diritto

CONSIDERATO CHE

5. Con il primo motivo di ricorso è dedotto, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in ordine alla inattendibilità del teste (omissis) (il cliente) che avrebbe consapevolmente omesso di riferire l’esatta frase rivolta al dipendente allo scopo di aggravarne la posizione.

6. Con il secondo motivo è dedotto, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in ordine alla età (all’epoca dei fatti, 67 anni) e alla personalità (atteggiamento non timoroso ma di sfida) del cliente.

7. Con il terzo motivo l’identica censura è formulata con riferimento alla rilevanza dei gesti dal medesimo compiuti (spostamento della bilancia e tentativo di colpire con uno schiaffo il (omissis)).

8. Con il quarto motivo si deduce lo stesso vizio di omesso esame in ordine alla precedente condotta del lavoratore e, più esattamente, al complessivo comportamento del lavoratore nel corso del rapporto.

9. Con il quinto motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione o falsa applicazione degli artt. 2119, 2697 c.c., dell’art. 3, legge n. 604 del 1966, dell’art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970, dell’art. 115 c.p.c. dell’art. 30, comma 3, della legge 183 del 2010, degli artt. 210 e 215 del c.c.n.l. per i dipendenti da aziende del terziario, della distribuzione e dei servizi, per non avere la Corte d’Appello valutato la portata oggettiva e soggettiva dei fatti e l’intensità del profilo intenzionale, la condotta arrogante e violenta del cliente, la assenza di altri clienti al momento del fatto e quindi la minore portata lesiva dello stesso per l’immagine della società, la lunga durata del rapporto di lavoro e la mancanza di precedenti disciplinari specifici.

10. I motivi di ricorso, da trattare congiuntamente, investono, da diversi punti di vista, la decisione di reclamo in ordine alla ritenuta sussistenza dei fatti contestati, nonché le statuizioni inerenti alla integrazione della giusta causa di recesso e alla proporzionalità della sanzione espulsiva.

11. Nessuna di tali censure può trovare accoglimento.

12. Sebbene veicolate attraverso la denuncia di violazione di disposizioni di legge, sostanziale e processuale, le critiche mosse investono, attraverso l’improprio riferimento all’art. 115 c.p.c. e il richiamo a molteplici allegazioni fattuali ed elementi di prova, la ricostruzione in fatto operata dai giudici di appello.

13. Come costantemente affermato da questa Corte, la selezione e la valutazione delle risultanze istruttorie è compito strettamente riservato al giudice di merito e non è suscettibile di censura in sede di legittimità. È infatti noto che il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge e al di fuori di un principio di gerarchia delle fonti. (Cass. n. 29404 del 2017; n. 16056 del 2016; 17097 del 2010; n. 17477 del 2007).

14. Riguardo alla eccepita violazione delle regole di formazione della prova è sufficiente ribadire che l’art. 115 c.p.c. si limita a richiedere che la decisione si basi su elementi validamente acquisiti al processo, con divieto del giudice di utilizzare prove non dedotte dalle parti o acquisite d’ufficio al di fuori dei casi in cui la legge gli conferisce un potere officioso d’indagine (Cass. n. 27000 del 2016; Cass. 13960 del 2014).

15. Neppure può ravvisarsi la violazione dell’art. 2697 c.c. atteso che la Corte di merito ha correttamente addossato alla società datoriale l’onere di dimostrare la sussistenza degli addebiti contestati ed ha ritenuto tale onere puntualmente assolto.

16. Infondate sono anche le censure di violazione dell’art. 2119 cod. civ. e delle altre disposizioni elencate nel quinto motivo, formulate sul presupposto di insussistenza di una condotta disciplinarmente rilevante.

17. Questa Corte ha ripetutamente affermato che la giusta causa di licenziamento, quale “fatto che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama; tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica, e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in Cassazione se privo di errori logici o giuridici (Cass. n. 13534 del 2019; n. 31155 del 2018; n. 27238 del 2018; n. 21214 del 2009; Cass. n. 8254 del 2004).

18. Nelle medesime pronunce si è precisato come l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare clausole generali come quella dell’art. 2119 c.c. non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’individuazione e nell’applicazione dei parametri integrativi, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali, e dalla disciplina particolare, anche collettiva, in cui la concreta fattispecie si colloca.

19. È stato, tuttavia, evidenziato che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito è sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (cfr. Cass. n. 5095 del 2011; Cass. n. 9266 del 2005).

20. Nel caso in esame, il ricorrente non identifica quali siano i parametri integrativi della clausola generale che sarebbero stati violati dai giudici di merito, limitandosi a sollecitare una diversa valutazione degli elementi scrutinati nella sentenza d’appello e a ribadire l’insussistenza di una giusta causa di licenziamento, per cui, anche per questo profilo, la sentenza impugnata non risulta efficacemente censurata.

21. Per le ragioni esposte il ricorso è inammissibile.

22. La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.

23. Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.500,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma l’11 settembre 2024.

Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2024.

Allegati

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