Massima

Nel giudizio di legittimità, l’onere del ricorrente di depositare i contratti e gli accordi collettivi su cui si fonda la censura di violazione o falsa applicazione – imposto a pena di improcedibilità del ricorso dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, – può dirsi soddisfatto solo con la produzione del testo integrale del contratto collettivo.

Supporto alla lettura

RICORSO PER CASSAZIONE

Il ricorso per cassazione (artt. 360 e ss. c.p.c.) è un mezzo di impugnazione ordinario che consente di impugnare le sentenze pronunciate in unico grado o in grado d’appello, ma solo per errori di diritto, non essendo possibile dinanzi alla Suprema Corte valutare nuovamente il merito della controversia come in appello. Di solito è ammessa solo la fase rescindente in quanto il giudizio verte sull’accertamento del vizio e sulla sua eventuale cassazione, il giudizio rescissorio spetta al giudice di rinvio. Solo nel caso in cui non dovessero risultare necessari ulteriori accertamenti in cassazione, avvengono entrambi i giudizi.

La sua proposizione avviene nel termine (perentorio) di 60 giorni (c.d. termine breve), è previsto un ulteriore termine (c.d. lungo) che scade 6 mesi dopo la pubblicazione della sentenza.

Per quanto riguarda i motivi di ricorso l’art. 360 c.p.c dispone che le sentenze possono essere impugnate:

  • per motivi attinenti alla giurisdizione,
  • per violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento di competenza;
  • per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro;
  • per nullità della sentenza o del procedimento;
  • per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Inoltre può essere impugnata con ricorso per cassazione una sentenza appellabile del tribunale se le parti sono d’accordo per omettere l’appello (art. 360, c. 1, n. 3, c.p.c.), mentre non sono immediatamente impugnabili per cassazione le sentenze che decidono di questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio, in questo caso il ricorso può essere proposto senza necessità di riserva quando sia impugnata la sentenza che definisce, anche parzialmente il giudizio.

Il ricorso per cassazione è inammissibile (art. 360 bis c.p.c) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa, oppure quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo.

A pena di inammissibilità sono previsiti determinati requisiti di forma:

  • la sottoscrizione da parte di un avvocato iscritto in apposito albo e munito di procura speciale;
  • l’indicazione delle parti;
  • l’illustrazione sommaria dei fatti di causa;
  • l’indicazione della procura se conferita con atto separato e dell’eventuale decreto di ammissione al gratuito patrocinio;
  • l’indicazione degli atti processuali, dei contratti o accordi collettivi o dei documenti sui quali si fonda il ricorso;
  • i motivi del ricorso con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano.

Il ricorso va depositato, a pena di improcedibilità, entro 20 giorni dall’ultima notifica fatta alle parti contro le quali è proposto.

Chi intende resistere al ricorso per cassazione può depositare controricorso e deve essere fatto entro 40 giorni dalla notificazione del ricorso, insieme agli atti e ai documenti, e con la procura speciale se conferita con atto separato.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

che (omissis), già dipendente della ASST, poi della Iritel e, infine, della Telecom, con qualifica di revisore tecnico coordinatore, esponeva che, al momento del passaggio nelle società che avevano assunto la gestione dei servizi di telecomunicazione ad uso pubblico, in violazione delle disposizioni di cui alla L. n. 58 del 1992, le qualifiche assegnategli non corrispondevano a quella posseduta nè avevano un contenuto mansionistico effettivamente adeguato; chiedeva, pertanto, il riconoscimento del superiore inquadramento nonchè il risarcimento dei danni subiti per il demansionamento, con ordine di reintegrazione e con condanna al relativo pagamento da determinarsi in via equitativa; che l’adito Tribunale di Messina accoglieva la domanda di inquadramento e riconosceva il diritto del lavoratore ad essere inquadrato a decorrere dall’1.11.1993 nel livello 4 – esperto in attività specialistiche – (CCNL SIP 30.6.1992) e a decorrere dall’1.1.1996 nel livello 6 – specialista – del CCNL Aziende di Telecomunicazioni, con condanna al pagamento delle differenze retributive e al risarcimento del danno da demansionamento, quantificato nella misura corrispondente al 20% delle differenze retributive per tutto il tempo in cui si era protratto il demansionamento stesso;

che la Corte di Appello di Messina, con la sentenza n. 996 depositata il 13.7.2015, in parziale riforma della pronuncia di prime cure, che confermava nel resto, rimodulava il risarcimento del danno da demansionamento nella misura pari al 20% dell’ammontare complessivo della retribuzione netta dovuta per l’intero periodo di demansionamento;

che avverso la decisione di secondo grado proponeva ricorso per cassazione la Telecom Italia spa affidato a due motivi;

che (omissis) ha resistito con controricorso, illustrato con memoria;

che il PG non ha formulato richieste scritte.

Motivi della decisione

che, con il ricorso per cassazione, in sintesi, si censura: 1) la violazione e falsa applicazione dell’Accordo Collettivo dell’8.4.1993 e dell’art. 23 CCNL SIP 1992, in relazione agli artt. 1362 c.c. e segg., laddove la gravata sentenza aveva affermato che gli assegni ad personam, riconosciuti con gli accordi sindacali dell’8.4.1993, non erano riassorbibili in caso di inquadramento superiore del lavoratore, anche a seguito di riconoscimento giudiziale; 2) in relazione al risarcimento del danno, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., artt. 1218 e 2729 c.c., nonchè artt. 115 e 414 c.p.c., laddove la Corte territoriale, da un lato, aveva rilevato un inadempimento contrattuale da parte della società nell’inquadramento del dipendente e, dall’altro, aveva ritenuto la sussistenza dei danni in assenza di qualsiasi prova in ordine agli stessi;

che il primo motivo è improcedibile ai sensi dell’art. 369 c.p.c., poichè non risulta depositato il CCNL di categoria sul quale si fonda la doglianza di violazione e falsa applicazione della disposizione di cui all’art. 23. Invero, alla stregua dei costanti arresti giurisprudenziali di legittimità, nel giudizio di cassazione “l’onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi – imposto a pena di improcedibilità del ricorso, dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, nella formulazione di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006 – può dirsi soddisfatto solo con la produzione del testo integrale del contratto collettivo, adempimento rispondente alla funzione nomofilattica della Corte di Cassazione e necessario per l’applicazione del canone ermeneutico previsto dall’art. 1363 c.c., nè a tal fine può considerarsi sufficiente il mero richiamo, in calce al ricorso, all’intero fascicolo di parte del giudizio di merito, ove manchi una puntuale indicazione del documento nell’elenco degli atti” (cfr. ex plurimis Cass. n. 4350/2015; Cass. Sez. Un. n. 25038/2013Cass. Sez. Un. n. 22726/2011);

che nella fattispecie la Telecom Italia spa, nella indicazione della documentazione allegata al ricorso, ha dichiarato di avere depositato solo un estratto del CCNL SIP 1992 (all. 64 – 70), non ha specificato se il detto CCNL sia stato prodotto nella sua integrità nelle precedenti fasi di merito nè, tanto meno, la sede in cui lo stesso sia rinvenibile;

che il secondo motivo è infondato: invero, in primo luogo deve sottolinearsi che anche in fase di attuazione delle previsioni delle cd. tabelle di equiparazione può sussistere un inadempimento di parte datoriale. E’ stato, infatti, affermato (Cass. 23.1.2015 n. 1249; Cass. 11.3.2011 n. 4991) che in tema di rapporti di lavoro dei dipendenti dell’Azienda di Stato per i servizi telefonici, nel passaggio dei servizi di telefonia dal settore pubblico a quello privato, in forza della normativa di riferimento (L. 29 gennaio 1992, n. 58art. 4) la previsione di apposite tabelle di equiparazione, adottate con accordo sindacale per operare l’inquadramento presso la nuova gestione, non preclude la verifica circa l’effettiva equivalenza delle posizioni di lavoro, sicchè il giudice può disapplicare tali tabelle ove – in base ad un raffronto complessivo tra le qualifiche o i livelli di volta in volta presi in considerazione – non riscontri corrispondenza tra la categoria di provenienza ed il nuovo livello attribuito in sede di passaggio all’impiego privato. Ne consegue che qualora con la nuova qualifica si assegnino al lavoratore mansioni inferiori a quelle svolte in precedenza, può ipotizzarsi un demansionamento quale fonte di risarcimento dei danni;

che, in secondo luogo, va evidenziato che i giudici di secondo grado non hanno ritenuto sussistente il danno da demansionamento in re ipsa, ma come lesione della professionalità del lavoratore, sulla base di un accertamento fortemente presumibile (in termini Cass. Sez. Un. 24.3.2006 n. 6572Cass. 6.12.2005 n. 26666), hanno ancorato l’impoverimento del bagaglio professionale del ricorrente (revisore tecnico coordinatore) alla quantità e qualità del lavoro successivamente svolto, al tipo e alla natura della professionalità coinvolta, alla durata del demansionamento (cfr. Cass. 12.10.2006 n. 21826), alla diversa e nuova collocazione lavorativa dopo la lamentata dequalificazione;

che alla stregua di quanto esposto il ricorso deve essere rigettato;

che le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo, con attribuzione; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, agli accessori di legge, con distrazione in favore del difensore della controricorrente dichiaratosi antistatario. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 23 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 10 luglio 2018

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