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Cassazione civile sez. lav., 04/09/2007, n. 18573

Massima

I lavoratori hanno diritto alla retribuzione dell’attività lavorativa prestata e al rimborso delle spese sostenute per la pulizia degli abiti di lavoro che costituiscono strumenti di protezione forniti dal datore di lavoro, risultando affetta da nullità parziale, per contrasto con norme imperative, la clausola, in senso contrario, del contratto collettivo che li onera di tale pulizia.

Supporto alla lettura

RETRIBUZIONE

La retribuzione costituisce il corrispettivo della prestazione fornita dal lavoratore che ha diritto ad un compenso proporzionato alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente a garantire a lui ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 Costituzione). In via generale la retribuzione viene determinata liberamente dalle parti, nel rispetto però di un limite minimo, che la giurisprudenza ha individuato nei valori di paga base fissati dai contratti collettivi. Il tfr viene considerato come retribuzione differita. La prescrizione per rivendicare la retribuzione è di 5 anni.

Ambito oggettivo di applicazione

Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con separati ricorsi al Tribunale di Genova gli odierni ricorrenti convenivano in giudizio l’AMIU s.p.a. di Genova e, premesso di essere dipendenti di detta azienda e di essere addetti alla pulizia delle strade e al ritiro dei rifiuti solidi, indossando il vestiario di protezione fornito dall’azienda, vestiario che, fino al dicembre 1999, avevano provveduto a lavare in forza dell’art. 20 C.C.N.L. del 1995, denunciavano la illegittimità di tale clausola e chiedevano la condanna della convenuta al risarcimento del danno per l’attività di pulizia e disinfezione degli indumenti, attività che doveva far carico al datore di lavoro.

L’AMIU si costituiva e contestava le domande.

Il Tribunale respingeva le domande e compensava le spese fra le parti.

Con sentenza del 19/26 febbraio 2003 la Corte di Appello di Genova rigettava gli appelli riuniti proposti dai lavoratori.

Osservava in motivazione che, pur sussistendo la denunciata nullità della clausola del contratto collettivo che pone a carico dei dipendenti la pulizia degli abiti di lavoro, anche perchè il lavaggio domestico comporta pericoli alla salute dei familiari e non è idoneo alla disinfezione dei capi, la domanda non poteva essere accolta perchè i ricorrenti non avevano prospettato danni alla salute ma chiesto la remunerazione del tempo impiegato per il lavaggio e il rimborso delle spese relative. Riteneva che l’esecuzione di un facere in base ad un contratto nullo comportava solo l’esperibilità di una azione di indebito arricchimento, azione che non era stata proposta e della quale non erano stati dedotti e provati i presupposti di fatto, essendosi limitati i ricorrenti a chiedere un compenso per l’attività svolta: un petitum ed una causa petendi diversi da quelli previsti dall’art. 2041 c.c..

I lavoratori propongono ricorso per Cassazione affidato a tre motivi;

resiste con controricorso l’AMIU e propone ricorso incidentale affidato anch’esso a tre motivi.

Le parti hanno depositato memorie.

A seguito di trattative e di rinvio dell’udienza di discussione, già fissata per il 25 ottobre 2006, l’AMIU ha depositato quattordici verbali di conciliazione, riguardanti i ricorrenti, ad eccezione di ( omissis).

Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Ricorso principale e ricorso incidentale vanno preliminarmente riuniti (art. 335 c.p.c.).

A seguito delle conciliazioni intervenute fra l’azienda ed i lavoratori ( omissis), ( omissis)., ( omissis),( omissis), ( omissis)., ( omissis), ( omissis),( omissis), ( omissis), ( omissis), ( omissis),( omissis), ( omissis) e( omissis), i ricorsi principali dei lavoratori citati ed il ricorso incidentale della azienda nei confronti degli stessi vanno dichiarati inammissibili per sopravvenuta carenza di interesse; le spese di questo giudizio vanno compensate.

Restano da esaminare il ricorso principale di ( omissis) e il contrapposto ricorso incidentale nei suoi confronti.

2. Con il primo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223 c.c. e art. 1227 c.c., comma 2, il ricorrente principale lamenta che, pur avendo la sentenza accertato l’inadempimento dell’azienda all’obbligo di provvedere al lavaggio degli abiti da lavoro, non l’ha condannata al risarcimento del danno derivante dall’inadempimento, costituito dalla remunerazione del lavoro necessario per il lavaggio e del rimborso dalle spese per esso.

3. Con il secondo motivo, denunciando violazione degli artt. 2126 e 2041 c.c., la difesa del ricorrente rileva che la Corte genovese ha errato sotto il duplice profilo di non aver applicato la norma che espressamente regola la prestazione di lavoro con violazione di norme a tutela del prestatore (art. 2126) ed avere, invece, applicato una norma residuale (l’art. 2041), inapplicabile proprio perchè diretta a disciplinare casi che non siano già regolati dalla legge.

4. Con il terzo motivo, denunciando vizio di motivazione su fatti decisivi con riferimento all’art. 2041 c.c., la difesa del ( omissis) deduce, in subordine, che la Corte genovese ha comunque errato nel ritenere la mancata deduzione degli elementi costitutivi dell’azione di indebito arricchimento.

Assume che le istanze istruttorie articolate riguardavano non solo l’impoverimento subito dal lavoratore, ma anche l’arricchimento dell’AMIU per i costi di lavaggio risparmiati, costi risultanti dagli accordi sindacali intervenuti con l’analoga Azienda di Padova in data 8-19 luglio 1991 e dall’accordo con la stessa AMIU in data 28 ottobre 1999.

5. Ricorso incidentale.

6. Con il primo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 32 Cost., dell’art. 2087 c.c., del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, artt. 377, 378 e 379, del D.P.R. 9 marzo 1956, n. 303, art. 4, del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, artt. 5, 40, 43 e 44, degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, la difesa della ricorrente incidentale critica la sentenza impugnata laddove, aderendo al principio enunciato da questa Corte con sentenza n. 11139 del 5 novembre 1998, ha ritenuto la nullità dell’art. 20 del contratto collettivo.

Deduce che il lavaggio degli indumenti è riconducibile al concetto di cura più che a quello di manutenzione e che, in subordine, non esiste alcuna norma che rende nullo un accordo che trasferisca l’onere del lavaggio sui lavoratori.

Aggiunge che dalla pretesa inidoneità della delega sul piano delle competenze ed attitudini del delegato non potrebbe comunque derivare la nullità radicale della delega stessa, ma solo la persistente responsabilità del datore di lavoro delegante in ordine ai danni alla salute derivanti da un inidoneo lavaggio.

7. Con il secondo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1361, 1367 e 1369 c.c. nonchè vizio di motivazione, la difesa dell’AMIU critica la sentenza nella parte in cui ha escluso che l’art. 20 contenga una delega ai lavoratori per quanto concerne il lavaggio.

Deduce che tale interpretazione della clausola collettiva cozza con le norme denunciate.

8. Con il terzo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 2099 c.c., dell’art. 414 c.p.c. e art. 2697 c.c., degli artt. 112 e 115 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, la difesa della ricorrente incidentale lamenta che la Corte genovese non ha considerato che la remunerazione, in senso lato, dell’attività di lavaggio deve ritenersi compresa nel trattamento economico e normativo complessivamente garantito dal ceni, e che le carenze del ricorso introduttivo sui fatti costitutivi della pretesa risarcitoria impedivano, comunque, di entrare nel merito di detta pretesa.

9. I primi due motivi del ricorso incidentale vanno trattati per primi, attesa la loro pregiudizialità logica.

Gli stessi sono infondati alla luce dell’orientamento della Corte che può ritenersi ormai consolidato e dal quale il Collegio non ritiene di discostarsi, non essendo state prospettate argomentazioni idonee a provocare un mutamento di indirizzo. E’ stato affermato che “L’idoneità degli indumenti di protezione che il datore di lavoro deve mettere a disposizione dei lavoratori – a norma del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 379 fino alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 626 del 1994 e ai sensi degli art. 40, 43, commi 3 e 4, di tale decreto, per il periodo successivo – deve sussistere non solo nel momento della consegna degli indumenti stessi, ma anche durante l’intero periodo di esecuzione della prestazione lavorativa. Le norme suindicate, infatti, finalizzate alla tutela della salute quale oggetto di autonomo diritto primario assoluto (art. 32 cost.), solo nel suddetto modo conseguono il loro specifico scopo che, nella concreta fattispecie, è quello di prevenire l’insorgenza e il diffondersi d’infezioni. Ne consegue che, essendo il lavaggio indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza, esso non può non essere a carico del datore di lavoro, quale destinatario dell’obbligo previsto dalle citate disposizioni.” (Cass., 5 novembre 1998 n. 11139; 14 novembre 2005 n. 22929; 26 giugno 2006 n. 14712; 13 ottobre 2006 n. 22049).

Quanto alla criticata esclusione di una delega ai lavoratori, va rilevato che la Corte genovese ha osservato che, ove anche si potesse ritenere la sussistenza di una delega in senso lato (essendo in realtà l’onere della pulizia posto a carico dei lavoratori dal contratto collettivo e, quindi, da entrambe le parti contraenti), tale delega sarebbe illegittima.

La motivazione è corretta e rispettosa dei principi in materia di affidamento di mansioni relative alla sicurezza del lavoro a persone diverse da colui che per legge ne è destinatario.

10. I primi due motivi del ricorso principale sono fondati.

Dalla nullità della clausola che poneva a carico dei lavoratori il lavaggio la sentenza impugnata ritiene che consegua una situazione di esecuzione di un contratto nullo, con la conseguente applicazione delle regole dell’indebito oggettivo o dell’indebito arricchimento.

Tale ricostruzione dimentica che tra le parti sussistono contratti che hanno istituito rapporti di lavoro subordinato regolati da essi, dalla contrattazione collettiva e da norme di legge. La materia in questione è regolata, come affermato dalla citata sentenza di questa Corte, dalla legge che pone a carico del datore di lavoro anche il lavaggio degli abiti di lavoro che costituiscono protezione del lavoratore. Ritenuta la nullità della clausola che addossava l’onere al lavoratore, la materia restava regolata dalla legge. Essendo pacifico che il datore di lavoro non ha provveduto all’adempimento di questa obbligazione conseguiva il suo obbligo ex art. 1218 c.c. di risarcire il danno. Questa è la norma che regola la fattispecie e non quella sull’indebito arricchimento, atteso anche il carattere sussidiario di questa azione fissato dall’art. 2042 c.c..

L’accoglimento dei primi due motivi del ricorso principale assorbe il terzo.

11. Quanto al terzo motivo del ricorso incidentale – con il quale si lamenta che i giudici di merito non hanno considerato che la remunerazione, in senso lato, dell’attività di lavaggio deve ritenersi compresa nel trattamento economico e normativo complessivamente garantito dal ceni, e che le carenze del ricorso introduttivo sui fatti costitutivi della pretesa risarcitoria impedivano, comunque, di entrare nel merito di detta pretesa – lo stesso, quanto alla prima censura, è inammissibile, trattandosi di un aspetto non trattato nella sentenza impugnata; lo stesso potrà essere riproposto dalla parte vittoriosa in primo grado, quale è l’AMIU, dinanzi al giudice di rinvio. La seconda censura, relativa ai fatti costitutivi della “pretesa risarcitoria”, è infondata, atteso che, come rilevato nella trattazione dei primi due motivi del ricorso principale, gli elementi costitutivi della domanda del lavoratore erano ben delineati.

La sentenza impugnata che ha erroneamente qualificato l’azione proposta va, pertanto, cassata e la causa va rinviata ad altro giudice, che nel decidere si atterrà al seguente principio di diritto: “I lavoratori hanno diritto alla retribuzione dell’attività lavorativa prestata ed al rimborso delle spese sostenute per la pulizia degli indumenti di protezione forniti dal datore di lavoro, risultando affetta da nullità parziale – per contrasto con norme imperative (D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, artt. 377 e 379, e del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 40, comma 1, e art. 43, commi 3 e 4) – la clausola, in senso contrario, del contratto collettivo che li onera di tale pulizia.

Come sopra precisato, l’azienda potrà riproporre al giudice di rinvio le sue difese in ordine alla dedotta considerazione della attività di pulizia, illegittimamente posta a carico dei lavoratori, nella economia complessiva del contratto e nella determinazione delle retribuzioni.

P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, dichiara inammissibili i ricorsi principali di ( omissis)., ( omissis), ( omissis), ( omissis), ( omissis), ( omissis), ( omissis),( omissis), ( omissis), ( omissis),( omissis), ( omissis), ( omissis) e ( omissis)e il ricorso incidentale della AMIU nei confronti dei lavoratori sopra indicati; compensa le spese di questo giudizio tra le suddette parti.Rigetta il ricorso incidentale nei confronti di ( omissis), accoglie i primi due motivi del ricorso principale del ( omissis), dichiara assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte di Appello di Torino.

Così deciso in Roma, il 16 maggio 2007.

Depositato in Cancelleria il 4 settembre 2007

Allegati

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