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Cassazione civile sez. lav., 01/06/2023, n. 15512

Massima

In tema di impugnazione del licenziamento, non è condivisibile la tesi avanzata dal ricorrente, anche perché non supportata dalla previsione di legge, per cui nel computo dei giorni andrebbero scomputati il giorno iniziale (dies a quo) e quello finale (dies ad quem). 

Supporto alla lettura

IMPUGNAZIONE LICENZIAMENTO

L’impugnazione consiste in un atto scritto con il quale il lavoratore esprime la volontà di contestare la validità del licenziamento.

La legge non richiede per questo atto particolari formule: è infatti sufficiente che il lavoratore manifesti per iscritto e in termini chiari al datore di lavoro che intende opporsi al licenziamento (art.6 Legge 604/1966, modificato dall’art. 32 della Legge 183/2010), il licenziamento può essere impugnato dal lavoratore anche tramite l’intervento del sindacato, e l’impugnazione può essere portata a conoscenza del datore di lavoro con qualsiasi mezzo idoneo, come lettere, telegrammi o fax.

La Legge 183/2010 ha modificato modalità e termini per l’impugnazione del licenziamento:

  • ha confermato che l’impugnazione del licenziamento deve avvenire entro il termine di 60 giorni dalla data del licenziamento o dalla successiva data di comunicazione dei motivi, ma in merito a ciò che succede successivamente ha escluso l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione e ha contestualmente introdotto una pluralità di mezzi di risoluzione delle controversie alternativi al ricorso al giudice (le parti avranno comunque la facoltà di richiedere il tentativo di conciliazione, ma saranno altresì libere di ricorrere direttamente all’autorità giudiziaria).
  • ha radicalmente ridotto i termini concessi al lavoratore per proporre ricorso al giudice, infatti, una volta impugnato per tempo il licenziamento, il lavoratore ha 180 giorni (270 giorni per i licenziamenti intimati prima del 18 luglio 2012) di tempo per depositare il ricorso in tribunale oppure comunicare al datore di lavoro la richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato. Se la conciliazione o l’arbitrato vengono rifiutati oppure non è raggiunto il relativo accordo, il lavoratore ha 60 giorni di tempo (dal giorno del rifiuto o del mancato accordo) per depositare il ricorso in tribunale. Nel caso in cui il lavoratore non rispetti i termini di 270 o 60 giorni, l’impugnazione perde efficacia.

Le nuove norme in materia di impugnazione del licenziamento (Legge 183/2010) sono state estese anche ad altre controversie, e in particolare a:

  • tutti i casi di invalidità del licenziamento
  • i licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto
  • il recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto
  • il trasferimento del lavoratore (in tal caso il termine decorre dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento)
  • l’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro
  • la cessione di contratto di lavoro nell’ambito di un trasferimento d’azienda
  • la somministrazione irregolare e tutti gli altri casi in cui si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto
  • i contratti di lavoro a termine.

Ambito oggettivo di applicazione

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n. 4537 del 2021, la Corte d’appello di Napoli confermava la pronuncia n. 3044 del 2020, con la quale il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere aveva rigettato il ricorso proposto da (omissis), dipendente dell’Agenzia delle Entrate-Direzione Regionale della Campania, inteso ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento senza preavviso intimatogli, la reintegrazione nel posto di lavoro ed il risarcimento del danno di cui all’art. 18 L. n. 300/1970, nella versione antecedente la riforma del 2012.

2. L’oggetto della lite era rappresentato dall’irrogazione da parte dell’Amministrazione, il 12 giugno 2018, della sanzione disciplinare del licenziamento, ai sensi degli articoli 55-quater, co. 1, lett. a), del d.lgs. 165/2001 e 2119 cod. civ., in applicazione degli articoli 55-bis e ter del d.lgs. 165/2001.

Il recesso datoriale trovava origine in un’ordinanza – emessa il 6 marzo 2018 nell’ambito del procedimento penale n. 12307 del 2016 – applicativa di una misura coercitiva ex art. 292 cod. proc. pen. sulla base del cui contenuto l’Amministrazione contestava al lavoratore, la falsa attestazione della presenza in servizio per un totale di oltre 56 ore di assenza.

Tale condotta, nonostante l’opposizione del dipendente, la chiusura delle indagini penali e l’annullamento della misura coercitiva disposta dal Tribunale del riesame, era secondo l’Agenzia delle Entrate, rilevante ai sensi dell’art. 55-quater, co. 1, lett. a) del d.lgs. 165/2001 e un’ipotesi di giustificato motivo di licenziamento senza preavviso.

A seguito del provvedimento disciplinare, il (omissis) aveva proposto impugnativa stragiudiziale in data 7 luglio 2018 provvedendo, poi, a depositare il ricorso giudiziale il successivo 4 gennaio 2019.

3. Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere aveva respinto il ricorso per intervenuta decadenza ex art. 6 della l. n. 604/1966 (ricorso giudiziale depositato oltre i 180 giorni dall’impugnativa stragiudiziale).

4. Il (omissis) aveva impugnato tale decisione dinanzi alla Corte d’appello di Napoli.

L’Amministrazione aveva resistito e presentato appello incidentale condizionato relativo al rito applicabile, non avendo il primo giudice erroneamente dato ingresso al c.d. rito Fornero.

5. La Corte territoriale confermava la statuizione di prime cure quanto all’intervenuta decadenza.

Rilevava che, ai sensi dell’art. 6 della L. n. 604/1966 l’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del Tribunale.

Riteneva, sulla base del generale principio di cui all’art. 155 cod. proc. civ., secondo il quale dies a quo non computatur, mentre dies ad quem computatur, ai fini del rispetto del termine decadenziale previsto dalla norma per l’impugnativa giudiziale del licenziamento, il computo dei centottanta giorni vede come termine iniziale il giorno successivo all’avvenuta impugnazione – dunque, nel caso di specie, l’8 luglio 2018 – e come termine finale il centottantesimo giorno, ossia il 3 gennaio 2019 (considerando, a tal fine, 24 giorni di luglio, 31 di agosto, 30 di settembre, 31 di ottobre, 30 di novembre, 31 di dicembre e 3 di gennaio, per un totale di 180).

Riteneva, pertanto, tardiva l’impugnativa giudiziale del 4 gennaio 2019.

6. Avverso tale decisione (omissis) ha proposto ricorso per cassazione, affidato a sei motivi.

7. L’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. con il primo motivo, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 n. 3, cod. proc. civ. in relazione alla mancata applicazione del rito di cui all’articolo 409 cod. proc. civ.

In particolare, contesta l’applicazione del rito di cui all’art. 1 co. 47 ss. L. 92 del 2012, in luogo di quello ordinario disciplinato dagli articoli 409 ss. del cod. proc. civ.

2. Con la seconda censura, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell’articolo 360 n. 3 cod. proc. civ., in relazione alla falsa applicazione dell’articolo 6 della L. 604 del 1966.

Rileva la legittimità del proprio agire in conformità della norma di legge, sulla base di due distinte argomentazioni.

Afferma che il deposito del ricorso è avvenuto il 4 gennaio 2019, ossia esattamente il centottantesimo giorno, l’ultimo giorno utile a partire dal 8 luglio 2018.

Sostiene che il termine de quo, in assenza di una specifica qualificazione da parte del legislatore, deve essere considerato come termine libero e, quindi, il giorno di effettiva decadenza dall’impugnativa del licenziamento coinciderebbe con il 7 gennaio 2018.

3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell’articolo 360 n. 3 cod. proc. civ., in relazione alla errata applicazione dell’articolo 55 d.lgs. 165 del 2001.

Assume che l’Amministrazione ha violato lo specifico procedimento previsto dall’articolo 55-bis d.lgs. n. 165 del 2001, nel senso che non ha fornito la prova dell’esecuzione di questo procedimento posto a tutela del diritto di difesa del ricorrente.

Rileva che, prevedendo disposizione in esame che il procedimento disciplinare deve iniziarsi “senza indugio”, mentre fu avviato dopo tre anni dalla commissione dei fatti, l’adottato provvedimento risulta intempestivo e viola il requisito imprescindibile dell’immediatezza della contestazione.

4. Con il quarto rilievo, il ricorrente invoca la violazione e falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., in relazione alla errata applicazione dell’art. 55-bis d.lgs. n. 165 del 2001.

Assume che, ai sensi dell’art. 55-bis d.P.R. 165 del 2001, il provvedimento si sarebbe dovuto concludere entro 60 giorni dalla contestazione degli addebiti.

Nel caso di specie, invece, la contestazione è stata notificata il 6 aprile 2018, mentre il provvedimento è stato concluso in data 12 giugno 2018; quindi, oltre il termine perentorio previsto dal legislatore e, perciò, l’atto di risoluzione del rapporto di lavoro è da considerarsi inesistente e/o nullo.

5. Con il quinto motivo, il ricorrente insiste nella violazione e falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell’articolo 360 n. 3 cod. proc. civ., in relazione alla errata applicazione dell’articolo 18 della L. 300 del 1970.

In modo particolare, sostiene che al caso in esame vada applicato l’art. 18 della L. 300 del 1970 così come previsto prima della c.d. riforma Fornero, in quanto per consolidata giurisprudenza di legittimità le modifiche apportate nel 2012 non si applicano ai licenziamenti operati dalla p.a.

Alla luce di queste considerazioni, invoca, a fronte dell’illegittimità del licenziamento, la reintegra e il risarcimento dei danni pari a tutte le retribuzioni medio tempore maturate.

6. Infine, con l’ultima censura, il ricorrente contesta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cod. civ. (p. 25 ricorso).

Sostiene che i motivi addotti dall’Amministrazione nel provvedimento di licenziamento, non integrano una “giusta causa” di recesso ai sensi della norma in epigrafe, tale da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto e ciò in quanto il L. è risultato non colpevole ed estraneo ai fatti così come ricostruiti in sede penale.

7. Il primo motivo è inammissibile.

Innanzitutto, non risulta dalla sentenza impugnata che sia stato applicato il c.d. rito Fornero.

Inoltre, la scelta di un rito in luogo di un altro assume rilevanza invalidante soltanto se la parte che se ne dolga in sede di impugnazione indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte (v. Cass. 27 gennaio 2015, n. 1448; Cass. 10 marzo 2020, n. 6754), situazione, questa, insussistente nel coso in esame.

8. Il secondo motivo è infondato.

La tesi del ricorrente, secondo la quale nel computo dei giorni previsti a pena di decadenza andrebbero scomputati tanto il dies a quo quanto il dies ad quem non trova riscontro nell’assetto normativo nel quale la vicenda si inquadra.

Il quadro normativo di riferimento è costituito dall’art. 6, commi 1° e 2°, legge n. 604 del 1966, che nel testo originario così disponevano: «1. Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso. 2. Il termine di cui al comma precedente decorre dalla comunicazione del licenziamento ovvero dalla comunicazione dei motivi ove questa non sia contestuale a quella del licenziamento».

L’art. 32, comma 1, della Legge 4 novembre 2010, n. 183 e successivamente l’art. 1, comma 38, della Legge 28 giugno 2012, n. 92 hanno sostituito i primi due commi dell’art. 6 come segue: «1. Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso. 2. L’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo».

La ratio della modifica è stata individuata nell’esigenza di garantire la speditezza dei processi, attraverso l’introduzione di termini di decadenza ed inefficacia in precedenza non previsti, in aderenza con l’art. 111 Cost., operando un non irragionevole bilanciamento tra la necessità di tutela della certezza delle situazioni giuridiche e il diritto di difesa del lavoratore (cfr. Cass. 5 novembre 2015, n. 22627).

Infatti, è stata creata una nuova fattispecie decadenziale, costruita su una serie successiva di oneri di impugnazione strutturalmente concatenati tra loro e da adempiere entro tempi ristretti (cfr. in motivazione Cass. 9 novembre 2015, n. 22824) e le novità introdotte vanno certamente analizzate nel contesto normativo in cui si inserisce la disposizione.

È stato così previsto un termine di decadenza fissato in 180 giorni dall’impugnativa di cui al medesimo art. 6, comma 1.

Trattandosi di termine di decadenza ‘a giorni’ non può che farsi applicazione della norma generale di cui all’art. 155, comma 1, cod. proc civ. secondo cui: «Nel computo dei termini a giorni o ad ore, si escludono il giorno o l’ora iniziali».

Quindi, i termini a giorni o ad ore si computano escludendo il giorno o l’ora iniziali (dies a quo non computatur in termino) e considerando invece quelli finali (dies ad quem computatur).

Nello specifico, pacifico essendo che la data dell’impugnativa stragiudiziale era quella del 7 luglio 2018, il termine, calcolato dall’8 luglio 2018, scadeva il 3 gennaio 2019 (giovedì).

Il ricorso giudiziario depositato il 4 gennaio 2019 era, dunque, tardivo.

Né fondatamente si sostiene che i termini suddetti dovessero considerati ‘liberi’ (per i quali non vanno tenuti in considerazione né il dies a quo né il dies ad quem) in quanto tali sono solo quei termini espressamente qualificati come liberi.

Come da questa Corte già affermato (v. Cass. 23 maggio 2011, n. 11302), in tema di computo dei termini processuali, qualora la legge non preveda espressamente che si tratti di un termine libero, opera il criterio generale di cui all’art. 155, comma 1, cod. proc. civ., secondo il quale non devono essere conteggiati i giorni e l’ora iniziali computandosi invece quelli finali (si veda anche la più recente Cass. n. 18635/2021, per la quale: “la non computabilità sia del giorno iniziale che del giorno finale (cosiddetto termine libero o “di giorni liberi”) rappresenta, infatti, una ipotesi eccezionale, limitata a casi espressamente previsti dalla legge (cfr. Cass. Sez. 2, 27/03/1969, n. 995)”).

9. Gli altri motivi (che non riguardano statuizioni della sentenza impugnata) sono inammissibili e comunque assorbiti dalla decisione di cui ai motivi che precedono.

10. Da tanto consegue che il ricorso deve essere rigettato.

11. Alla reiezione del ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità.

12. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello prescritto per il ricorso, ove dovuto a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore dell’Agenzia controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 3.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.

Roma, così deciso nella camera di consiglio del 1° marzo 2023.

Allegati

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