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Cassazione civile sez. III, 29/11/2024, n. 30727

Massima

In materia di affitto agrario, la determinazione del valore della controversia ai fini delle spese di lite deve considerare sia la domanda di risoluzione del contratto, commisurata ai canoni residui, sia l’importo della condanna al pagamento dei canoni, accogliendo il ricorso per cassazione avverso la decisione che erroneamente limita tale valore alla sola morosità posta a fondamento della risoluzione.

Supporto alla lettura

CONTRATTO AGRARIO

E’ considerato agrario quel contratto che, attraverso il conferimento del fondo o del bestiame, è diretto a dar vita all’impresa agricola e a disciplinarne l’attività.

All’interno della categoria dei contratti agrari si distingue tra:

 affitto di fondo rustico (contratto di scambio o a natura commutativa): il proprietario cede il godimento del fondo in cambio di un corrispettivo;

 mezzadria, sòccida, colonia parziaria (contratti di natura associativa): la responsabilità della gestione dell’attività agricola ricade sul proprietario che concede il godimento del fondo sia sul concessionario che approva la propria capacità lavorativa. La L. 203/1982 ha vietato la stipulazione di nuovi contratti associativi, prevedendone la conversione in contratti di affitto.

L’affitto di fondo rustico è una speciale forma di affitto a tutela dell’affittuario (coltivatore diretto del fondo o meno), infatti il canone di affitto non può superare un certo limite, periodicamente stabilito da una commissione, relativamente a zone agrarie aventi uguali caratteristiche. Due sono gli elementi fondamentali della normativa sui fondi rustici:

 la previsione di bassissimi canoni di affitto;

 un lungo termine di durata di tali contratti (almeno 15 anni, ulteriormente aumentabile di altri 3 anni, ove l’affittuario lo richieda al locatore.

Nel caso in cui l’affittuario abbia migliorato il fondo, magari rendendolo più produttivo, allo scadere del contratto avrà inoltre diritto a una indennità, e se ha impiegato dei capitali per migliorare il fondo avrà diritto a una proroga di 12 anni della durata del contratto.

Se l’affittuario è un coltivatore diretto (cioè se coltiva il fondo personalmente e con l’aiuto dei familiari) la sua posizione è ulteriormente tutelata, infatti, negli ultimi decenni sono stati ripetutamente prorogati oltre la scadenza da varie leggi speciali. Nel caso di morte dell’affittuario, la proroga è concessa anche ai suoi eredi. Se il proprietario del fondo intende venderlo, spetta al coltivatore diretto (e anzi, anche ai coltivatori diretti dei fondi confinanti con quello in vendita) il diritto di prelazione sul fondo, cioè il coltivatore, a parità di prezzo offerto, andrà comunque preferito agli altri soggetti intenzionati ad acquistare il fondo.

La colonia parziaria è un contratto in cui il concedente e uno o più coloni si associano per la coltivazione di un fondo e per l’esercizio delle attività connesse, al fine di dividerne i prodotti e gli utili. La durata della colonia parziaria è stabilita per il tempo necessario affinché il colono possa svolgere e portare a compimento un ciclo normale di rotazione delle colture praticate nel fondo.

La mezzadria è l’associazione per la coltivazione di un podere e per l’esercizio delle attività connesse, al fine di dividere a metà i prodotti e gli utili. Colui che concede il fondo partecipa in misura uguale al mezzadro alle spese di conduzione, comprese anche quelle relative ai contributi previdenziali a favore di quest’ultimo; il concedente ha diritto soltanto al 36% della produzione vendibile; il resto è attribuito al mezzadro il quale si accolla anche il restante 50% delle spese di conduzione (oggi la conduzione a mezzadria non è più praticata ed è scomparsa dalla nostra agricoltura).

La sòccida è il contratto col quale il soccidante e il soccidario si associano per l’allevamento e lo sfruttamento di una certa quantità di bestiame e per l’esercizio delle attività connesse, al fine di ripartire l’accrescimento del bestiame e degli altri prodotti e utili che ne derivano. Esistono tre tipologie di sòccida:

 semplice:  il soccidante conferisce il bestiame e il soccidario provvede al suo allevamento e all’esercizio delle attività connesse;

 con conferimento di pascolo: quando il soccidario conferisce il bestiame e il soccidante conferisce il terreno e il pascolo;

 parziaria:  il bestiame è conferito da entrambi gli associati.

Ambito oggettivo di applicazione

FATTI DI CAUSA
1. Le germane (omissis) e (omissis), quali comproprietarie di un fondo rustico in agro di Ramacca, concessero in affitto ad (omissis) una porzione di esso, di cui una parte di natura seminativa (per coltivazione di foraggi e carciofeto) verso un canone annuo di Euro 2.400 (da pagarsi in due rate semestrali con scadenza il 9 maggio ed il 9 novembre) ed un’altra parte adibita ad aranceto, verso un canone convenuto in misura pari al 50% dei ricavi annualmente percepiti dalla vendita dei frutti.

2. Esperito tentativo di conciliazione, le (omissis), adducendo il mancato pagamento dei canoni dovuti per le annate 2015-2016 e 2016-2017 (per la parte seminativa) ed a partire dall’annata agraria 2009-2010 (per la parte agrumetata), chiesero al Tribunale di Caltagirone – sezione specializzata agraria la risoluzione del contratto di affitto per grave inadempimento dell’affittuario, con condanna di quest’ultimo al pagamento dei canoni non corrisposti.

Nel resistere alla lite, (omissis), oltre a plurime eccezioni, di rito e di merito, domandò in via riconvenzionale la condanna delle attrici al risarcimento del danno, anche per abuso del processo.

3. All’esito del giudizio di prime cure, l’adito Tribunale, ravvisato inadempimento grave nel pagamento dei canoni relativi alla porzione di fondo seminativo (per l’intera annata 2015/2016 e per il primo rateo dell’annata 2016/2017) nonché per la porzione di terreno adibito ad agrumeto, dichiarò la risoluzione del contratto di affitto e condannò (omissis) al rilascio del bene ed al pagamento di Euro 3.600, a titolo di canoni relativi alla parte seminativa, nessuna condanna invece pronunciando circa il pagamento dei canoni per la parte agrumetata, per aver la parte concedente formulato rinuncia alla relativa domanda.

4. La decisione in epigrafe indicata ha rigettato i contrapposti appelli, dispiegati (in via principale) da (omissis) e (in via incidentale) da (omissis) e (omissis)

5. (omissis) e (omissis) ricorrono uno actu per cassazione, affidandosi a sei motivi.

Resiste con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale articolato in un motivo, (omissis)

6. Ambedue le parti hanno depositato memoria illustrativa.

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. È preliminare l’esame dell’unico motivo del ricorso incidentale.Con esso, (omissis) assume violazione degli artt. 1419 e 1421 cod. civ., 27 e 45 della legge 3 maggio 1982, n. 203 e 1 della legge 12 giugno 1962, n. 567, in riferimento all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., per avere la Corte di appello “omesso di pronunciarsi dopo aver accertato di ufficio la nullità di un rapporto agrario di affitto tra le parti in causa di un canone fisso e determinato e violazione delle norme imperative di legge sopra indicate”.

In sintesi, il ricorrente incidentale sostiene che, per la parte relativa al fondo ad agrumeto, il “preteso rapporto di affitto” era “inesistente o meglio nullo”: la Corte territoriale, dopo aver “rilevato di ufficio svariati profili di nullità” con l’ordinanza del 14 giugno 2021, doveva dichiarare la nullità “dell’intero rapporto, compreso quello relativo al terreno a seminerio”, e tanto “a prescindere dalle prese di posizione delle parti, essendo la validità del rapporto in esame elemento costitutivo della domanda di risoluzione”.

1.1. Il motivo è inammissibile.

Con ordinanza resa in corso di causa, la Corte di appello catanese sottopose al contraddittorio tra le parti la questione (rilevata di ufficio) della possibile nullità parziale del contratto di affitto per la porzione di fondo coltivata ad agrumi dacché caratterizzato da un canone stabilito in misura variabile.

La sentenza resa a definizione del giudizio, qui impugnata, sul tema così si esprime: “non mette conto di prendere definitiva posizione sulla parziale nullità, o non, del contratto medesimo a motivo della variabilità nel tempo del canone” pattuito per la cessione in affitto “della porzione agrumetata del fondo de quo” per l'”assorbente considerazione… della circostanza che… le odierne appellate rinunciavano a far valere l’ulteriore morosità anzidetta, già contestata al (omissis)”.

Come ben evidente, il giudice territoriale – diversamente da quanto opinato dal ricorrente incidentale – non ha omesso di statuire sulla nullità del rapporto agrario, ma ha considerato la pronuncia sul punto assorbita dalla rinuncia alla domanda di risoluzione del contratto ad opera della parte originaria attrice.

Orbene, siffatta ratio decidendi non è criticamente attinta dal motivo in esame, il quale pertanto non assolve l’onere di specificità prescritto dall’art. 366, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., secondo cui il ricorrente, a pena di inammissibilità, deve esprimere le ragioni del dissenso rispetto alla decisione gravata, da formulare in termini tali da soddisfare i caratteri di specificità, completezza e riferibilità a quanto pronunciato propri della natura di rimedio a critica vincolata del ricorso per cassazione e da costituire una censura precisa, puntuale e pertinente della ratio decidendi dell’impugnata sentenza (Cass., Sez. U, 28/10/2020, n. 23745; Cass. 24/02/2020, n. 4905).

Ed invero, la doglianza in scrutinio, replicando difese già sviluppate nei gradi di merito, si diffonde nella illustrazione delle ragioni di asserita nullità del rapporto, in ultima analisi richiedendo a questa Corte una (inammissibile, in sede di legittimità) valutazione di circostanze fattuali (pretesamente evincibili da atti processuali) volte a suffragare l’assunto sostenuto e afferenti le condizioni del fondo e la volontà dei contraenti.

2. Il primo motivo del ricorso principale denuncia “nullità della sentenza per violazione degli art. 99, 112 e 420 cod. proc. civ., in riferimento all’art. 360, comma primo, num. 4, cod. proc. civ., per avere la Corte d’Appello omesso di accertare l’inadempimento del conduttore, con riferimento al mancato pagamento del canone pattuito per la porzione agrumetata del fondo, affermando che il procuratore e difensore delle concedenti avrebbe rinunziato alla relativa domanda”.

Le impugnanti censurano “l’affermazione della Corte etnea che il difensore della ricorrente avrebbe rinunziato alla domanda di accertamento dell’inadempimento del conduttore, per il mancato pagamento dei canoni della porzione di fondo destinata ad agrumeto”.

Deducono, al riguardo, di avere, nel ricorso introduttivo, “chiesto: a) di dichiarare la risoluzione del contratto di affitto per inadempimento nel pagamento dei canoni, sia con riferimento alla porzione destinata a seminativo, sia per quella agrumetata; b) la condanna dell’affittuario al pagamento dei canoni relativi ad entrambe le porzioni seminativa e agrumetata”, cioè di aver articolato “due domande autonome, la prima costitutiva e la seconda di condanna”.

Assumono, infine, che “dalla memoria del 25.9.2019 e dal verbale di udienza del 10.11.2020, risulta inequivocabilmente che il difensore delle ricorrenti… non ha rinunziato (neppure in parte) alla causa petendi della domanda di risoluzione (sub lett. a), ma solo parzialmente alla domanda di condanna al pagamento dei canoni (sub lett. b), con riferimento alla sola porzione agrumetata, insistendo per la condanna al pagamento dei canoni relativi alla porzione seminativa”.

2.1. Il motivo è inammissibile.

Sul punto, la gravata sentenza così motiva: “con le loro note autorizzate del 25.9.2019, nonché all’udienza di discussione finale del 10.11.2020 (allorché, a verbale d’udienza, “L’Avv. (omissis) precisa di reiterare esclusivamente la domanda di risoluzione del contratto e di condanna al pagamento dei canoni insoluti per la parte seminativa”), le odierne appellate rinunciavano a far valere… l’ulteriore morosità anzidetta, già contestata anch’essa al (omissis)” per poi concludere nel senso che “in nessun caso potrà pronunciarsi la risoluzione di contratto di scambio qualsivoglia per effetto di inadempimento che la parte in contratto adempiente abbia rinunciato a far valere”.

Ciò posto, la doglianza di parte ricorrente non concreta un vizio processuale e nemmeno descrive un errore di giudizio (peraltro non dedotto), ma si risolve nell’allegazione di un errore di percezione.

Ad avviso delle impugnanti, il verbale di udienza del 10 novembre 2020 aveva un contenuto in parte difforme da quello ritenuto dalla Corte territoriale, dacché esso recava la manifestazione di volontà del difensore, Avv. (omissis), di “reiterare esclusivamente le domande di risoluzione del contratto e la condanna al pagamento dei canoni per la parte seminativa”: e l’utilizzo della forma plurale (“le domande di risoluzione”) era riferibile sia alla richiesta di scioglimento del rapporto per la parte avente ad oggetto l’agrumeto sia alla identica richiesta concernente il fondo adibito a seminativo.

In sostanza, il motivo ascrive alla Corte d’Appello di avere mal percepito il richiamato verbale, ovvero di aver letto la locuzione “le domande di risoluzione” come “la domanda di risoluzione”, così poi ritenendo mantenuta la richiesta di scioglimento per la sola porzione di fondo seminativa (in piana consecuzione con la ribadita domanda di condanna al pagamento dei canoni) ed invece abbandonata la (distinta) istanza di risoluzione dell’affitto avente ad oggetto il fondo agrumato.

Risulta pertanto evidente come parte ricorrente imputi al giudice territoriale una svista materiale o una falsa percezione di un atto processuale (il verbale di udienza del 10 novembre 2020), emergente con immediatezza – cioè senza bisogno di indagini ermeneutiche o di argomentazioni induttive – dal mero raffronto tra l’atto processuale e la rappresentazione di esso offerta dalla sentenza.

Si versa, allora, in un’ipotesi di errore di fatto ex art. 395, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., per aver supposto il giudice l’esistenza di un fatto (la rinuncia alla domanda di risoluzione del contratto per la parte del fondo adibito ad agrumeto) invece incontestabilmente escluso alla stregua degli atti di causa: e il suddetto errore, non avendo formato oggetto di discussione tra le parti nel processo a quo (soltanto in tal caso potendo integrare la fattispecie di impugnazione di legittimità di cui all’art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ.), era denunciabile unicamente con lo strumento della revocazione.

Tanto giustifica l’inammissibilità del motivo de quo.

3. Il secondo motivo del ricorso principale prospetta “Violazione degli artt. 1182, 1219 e 1220 cod. civ., in riferimento all’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., in quanto la Corte d’Appello ha ritenuto che il conduttore non poteva essere considerato moroso per il canone di Euro 1.200,00, dovuto per un semestre dell’annata agraria 2016-2017, in relazione alla porzione seminativa del fondo”.

In particolare, le ricorrenti criticano la sentenza per aver attribuito efficacia liberatoria al vaglia postale (per Euro 1.200) inviato dall’affittuario, mai accettato (e nemmeno ricevuto) dalle concedenti e, pertanto, rimborsato al mittente; evidenziano comunque che pur dopo la comunicazione di restituzione del vaglia postale al mittente, questi era stato nuovamente ed idoneamente costituito in mora.

4. Il terzo motivo lamenta “violazione degli artt. 1206, 1207, 1210 cod. civ. e dell’art. 7, comma secondo, della legge 11 febbraio 1971, n. 11, in riferimento all’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., in quanto la Corte d’Appello ha affermato che il conduttore non doveva essere condannato dal Tribunale al pagamento del predetto importo di euro 1.200,00, relativo al canone dell’annata agraria 2016-2017, sebbene il predetto importo non sia mai stato corrisposto”.

Ad avviso delle ricorrenti, la sentenza impugnata ha errato laddove ha ritenuto il conduttore non moroso per aver proceduto, mercé l’invio del vaglia, ad una offerta non formale: ma quest’ultima “se da un lato esclude la mora debendi, dall’altro non libera il debitore dalla propria obbligazione, essendo a tal fine necessaria l’offerta reale”.

5. Il quarto motivo rileva “nullità della sentenza per violazione dell’art. 156 cod. proc. civ., in riferimento all’art. 360, comma primo, num. 4, cod. proc. civ., contenendo un contrasto insanabile tra la motivazione, nella quale si afferma che la condanna del conduttore, a titolo di canoni per la parte seminativa, deve essere ridotta a Euro 2.400,00, ed il dispositivo nel quale viene rigettato l’appello principale, confermando la sentenza di primo grado che aveva condannato il resistente a pagare Euro 3.600,00”.

6. I tre motivi testé breviter riassunti sono inammissibili, per una identica ragione, comune a tutti.

La impugnata sentenza, dopo aver affermato, in parte motiva, che “non sussiste la morosità anche nel pagamento del primo rateo di Euro 1.200 dovuto per l’annata agraria 2016/2017 che, con il loro ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, le due (omissis) pure contestavano al (omissis)”, in dispositivo ha pronunciato l’integrale rigetto dell’appello principale del (omissis), in tal guisa confermando la condanna, in prime cure emessa nei suoi confronti, al pagamento (anche) della menzionata somma di Euro 1.200.

Ciò posto, è dirimente osservare come secondo il rito del lavoro (in conformità del quale si è svolta la controversia agraria in disamina) il dispositivo letto in udienza e depositato in cancelleria ha rilevanza autonoma poiché racchiude gli elementi del comando giudiziale che non possono essere mutati in sede di redazione della motivazione, sicché le proposizioni contenute in quest’ultima e contrastanti col dispositivo devono considerarsi come non apposte e non sono suscettibili di passare in giudicato né di arrecare un pregiudizio giuridicamente apprezzabile (così Cass. 02/02/2023, n. 3265; Cass. 17/11/2015, n. 23463; Cass. 26/10/2010, n. 21885).

In relazione all’affermazione (contenuta esclusivamente nella parte motiva e non tradotta in alcuna statuizione dispositiva) di insussistenza della morosità per il primo semestre dell’annata agraria 2016/2017 non è pertanto configurabile una soccombenza delle germane (omissis), necessaria condizione, sub specie di interesse ad impugnare, per la proposizione in parte qua del presente ricorso per cassazione.

Inammissibili, dunque, sono il secondo, il terzo ed il quarto motivo.

7. Il quinto motivo censura, per violazione degli artt. 10, 12 e 91 cod. proc. civ. e dell’art. 5 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, il rigetto del secondo motivo di appello incidentale, afferente il parametro di determinazione delle spese del giudizio di prime cure.

A parere delle ricorrenti, la sentenza impugnata ha errato laddove, confermando la statuizione di prime cure, ha ritenuto che il valore della controversia, ai fini della regolamentazione delle spese, fosse pari ad Euro 2.400, corrispondente cioè “alla sola morosità” per la quale era stata “mantenuta ferma la declaratoria di risoluzione del contratto di affitto agrario”: occorreva invece considerare che era stata chiesta una pronuncia, con efficacia di giudicato, di risoluzione per inadempimento dell’intero contratto di affitto e che il canone relativo alla porzione del fondo ad agrumeto non era quantificabile, sicché la causa era da reputarsi di valore indeterminabile.

7.1. Il motivo è fondato, nei sensi in appresso precisati.

Ai fini del rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente, il valore della controversia va fissato – in armonia con il principio generale di proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di avvocato nell’opera professionale effettivamente prestata, quale desumibile dall’interpretazione sistematica delle disposizioni in tema di tariffe per prestazioni giudiziali – sulla base del criterio del disputatum, ovvero con riferimento a quanto richiesto nell’atto introduttivo; quanto ai giudizi per il pagamento di somme di denaro, poi, a mente dell’art. 6, primo comma, del D.M. n. 55 del 2014, deve tenersi conto della somma attribuita alla parte vincitrice, in caso di accoglimento, seppur parziale, della domanda o al quantum richiesto, in caso di rigetto della domanda (da ultimo, Cass. 30/11/2022, n. 35195).

Nella vicenda in parola, con l’originario atto di ingresso della lite le odierne ricorrenti avevano proposto due domande: l’una, di natura costitutiva, di risoluzione per morosità del contratto di affitto nella sua interezza, cioè a dire tanto per la porzione di fondo adibito a seminativo quanto per quella coltivata ad agrumeto; l’altra, di condanna al pagamento dei canoni non corrisposti, domanda dal primo giudice accolta nei limiti della somma di Euro 3.600.

Il valore della controversia era dunque costituito dalla somma del valore delle singole domande.

Più specificamente, circa la risoluzione dell’affitto – in forza di un principio enunciato da questa Corte in ordine al contratto di locazione (così Cass. 02/03/2018, n. 4921; Cass. 23/01/2008, n. 1467) ma pianamente applicabile, per evidente analogia, anche a quello di affitto agrario – il valore della relativa causa si commisura all’ammontare dei canoni del residuo periodo della locazione che la domanda mira a far cessare anticipatamente.

E dunque, nel caso in esame, occorreva tener presente l’importo dei canoni residui (per la parte di fondo seminativo e quella destinata ad agrumeto) sino alla naturale scadenza del contratto di affitto; così quantificato il valore della domanda di risoluzione, ad esso andava aggiunto l’importo (euro 3.600) nei cui limiti era stata accolta la domanda di condanna al pagamento dei canoni, onde infine stabilire, per effetto della sommatoria, il valore della causa di primo grado.

Palese appare allora l’error iuris inficiante la pronuncia impugnata nella parte in cui, ai fini della valutazione (e della reiezione) dell’appello incidentale spiegato dalle germane (omissis), ha attribuito al giudizio di primo grado un valore di Euro 2.400, “pari alla sola morosità in forza della quale si è oggi ritenuto che dovesse essere mantenuta ferma la declaratoria di risoluzione del contratto di affitto agrario”.

La relativa statuizione va quindi cassata e disposto – occorrendo ulteriori accertamenti di fatto – rinvio alla Corte di appello di Catania, in diversa composizione, per nuovo esame della causa, nei limiti ed in relazione al motivo così accolto.

8. L’accoglimento del quinto motivo determina l’assorbimento del sesto motivo, concernente la compensazione delle spese del grado di appello, alla cui nuova disciplina sarà tenuto a provvedere, sulla scorta dell’esito complessivo del giudizio, il giudice del rinvio.

9. Al giudice del rinvio è altresì demandata la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

10. L’oggetto della controversia (inerente affitto agrario) esclude l’applicabilità dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, per cui si dà atto che non sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione (Cass. 31/01/2024, n. 2887; Cass. 11/10/2017, n. 23912).

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso incidentale.Dichiara inammissibile il primo, il secondo, il terzo ed il quarto motivo del ricorso principale; accoglie il quinto motivo del ricorso principale, assorbito il sesto, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte di appello di Catania, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Terza Sezione Civile, il giorno 4 luglio 2024.

Depositata in Cancelleria il 29 novembre 2024.

Allegati

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