Svolgimento del processo
1. (omissis) convenne in giudizio, nel 2011, davanti al Tribunale di Milano, (omissis) e la (omissis) chiedendone la condanna, in solido, al risarcimento dei danni subiti in conseguenza del sinistro avvenuto in data 22 luglio 2007 sulla Strada Statale n. (omissis), in località (omissis), allorquando, mentre si trovava a bordo del proprio velocipede percorrendo la strada lungo il margine destro della carreggiata, veniva urtato dal motociclo del convenuto il quale, dopo aver eseguito il sorpasso sulla sinistra delle auto incolonnate, era rientrato improvvisamente nella corsia di marcia, collidendo con il velocipede.
2. Esteso il contraddittorio, iussu iudicis, nei confronti dell’Inps, quest’ultimo si costituì chiedendo dichiararsi l’obbligo dei convenuti al pagamento in proprio favore, a norma dell’art. 14dellalegge n. 222 del 1984, dell’importo di Euro 553.949,08, corrispondente alle prestazioni previdenziali già erogate in favore del danneggiato (assegno di invalidità dal marzo 2012 sino al mese di luglio del 2013; ratei della pensione di inabilità già corrisposte dal mese di agosto del 213 e importo della pensione capitalizzata per i ratei futuri della stessa).
3. Con sentenza n. 11062 del 2018 il Tribunale, ritenuto il pari concorso di colpa del danneggiato, condannò i convenuti in solido al pagamento in favore dello stesso della somma di Euro 795.523,72, oltre interessi secondo i criteri specificati in motivazione; dichiarò, inoltre, i convenuti obbligati a pagare all’Istituto previdenziale la somma di Euro 567.243,86, già rivalutata, oltre interessi secondo i criteri specificati in motivazione.
4. In accoglimento dell’appello incidentale del (omissis) e in parziale accoglimento di quello principale proposto dalla (omissis) e dal (omissis), la Corte d’Appello di Milano, con sentenza n. 1247/2022, resa pubblica il 13 aprile 2022, ha rideterminato l’importo risarcitorio dovuto al (omissis) in Euro 1.991.649,89 (al lordo degli importi pagati in esecuzione della sentenza di primo grado ed oltre interessi secondo i parametri, non contestati, indicati nella sentenza impugnata).
Ferme le voci di danno riconosciute dal primo giudice, a tale esito la Corte è pervenuta sulla base di un nuovo calcolo emendato:
– da un lato:
- dalla dimidiazione operata dal primo giudice in ragione del concorso di colpa del danneggiato, concorso escluso, invece, dalla Corte d’Appello;
– dall’altro:
- dalla personalizzazione del danno biologico da invalidità permanente, applicata dal primo giudice ma ritenuta non dovuta dalla Corte d’Appello;
- dall’applicazione di un coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età del (omissis) al momento dell’evento lesivo (54 anni) anziché a quella, ritenuta corretta, che lo stesso aveva al momento della perdita del lavoro (56 anni);
- mediante l’applicazione sull’importo risultante dalla capitalizzazione – omessa dal Tribunale ma invece ritenuta necessaria dalla Corte d’Appello – di una riduzione percentuale (nella misura del 10%) per tener conto dello scarto tra vita fisica e vita lavorativa.
5. Avverso tale sentenza (omissis) Plc propone ricorso per cassazione articolando quattro motivi, cui resistono, depositando controricorsi, sia il (omissis) che l’Inps.
(omissis) è rimasto intimato.
6. All’esito dell’adunanza camerale del 21 giugno 2024, in vista della quale la ricorrente e il (omissis) avevano depositato memorie, questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 20472 del 23/07/2024, ha disposto il rinvio della causa a nuovo ruolo, perché fosse trattata in pubblica udienza, atteso il rilievo nomofilattico della questione di diritto posta con il quarto motivo del ricorso.
7. Il P.M. ha depositato conclusioni scritte con le quali ha chiesto l’accoglimento del quarto motivo di ricorso e dichiararsi inammissibili o comunque rigettarsi i primi tre.
Il controricorrente (omissis) ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degliartt. 1223, 1226, 2043, 2056 e 2697 c.c. per la mancata decurtazione dell’importo di Euro 500.000,00 dalla liquidazione del danno patrimoniale.
La censura investe la sentenza impugnata nella parte in cui (v. pag. 10, par. B) ha rigettato il motivo di gravame con il quale gli appellanti avevano lamentato la mancata decurtazione, da parte del primo giudice, dall’importo riconosciuto quale risarcimento del danno patrimoniale, della somma di Euro 500.000 lordi, corrisposta dal datore di lavoro a favore del (omissis) a titolo di incentivo all’esodo, sul rilievo, condiviso dalla Corte d’Appello, che si trattava di importo dovuto in base ad un titolo diverso che, in quanto tale, non implicava alcuna duplicazione.
Sostiene la ricorrente che si tratta, invece, di poste coincidenti, in quanto erogate in conseguenza del medesimo fatto illecito e volte entrambe a risarcire il medesimo danno patrimoniale da esso derivante. Al (omissis) -si dice- è stata infatti riconosciuta, all’esito della conciliazione, una “indennità risarcitoria” che risulta dovuta per qualsiasi ipotesi di interruzione del rapporto di lavoro.
Nell’illustrazione del motivo la prospettazione è sostenuta invocando espressamente il principio della compensatio lucri cum damno.
2. Il motivo è infondato.
L’importo cui è riferita la doglianza, secondo quanto accertato in sentenza, è stato corrisposto al (omissis) per effetto della transazione tra quest’ultimo e la società (omissis), sua datrice di lavoro, raggiunta nella causa originata dall’impugnazione, da parte del lavoratore, del licenziamento, il quale era stato motivato da “ragioni di natura tecnico-organizzativa“. Nel verbale di conciliazione – riferisce anche la sentenza – si attesta poi che l’importo è stato corrisposto “a titolo di incentivo all’esodo“.
A fronte di tale accertamento in fatto corretta deve ritenersi la valutazione della Corte di merito secondo cui difettano, nella specie, rispetto ad una acquisizione patrimoniale a tal titolo giustificata, i presupposti indicati dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. Sez. U. 22/05/2018, nn. 12564– 12568) perché possa la stessa porsi quale posta da portare in diffalco dal risarcimento spettante a titolo di compensatio lucri cum damno.
A tal fine, infatti, qualora – come nel caso che occupa – non vi sia identità del debitore (del risarcimento e dell’indennizzo), si richiede che:
a) il vantaggio non sia frutto di scelte autonome e sacrificanti del danneggiato;
b) il vantaggio debba avere una funzione compensativa del pregiudizio causato dal danno;
c) la legge preveda un meccanismo di surroga o di rivalsa.
Per quanto detto, circa l’accertata origine del vantaggio de quo, non sembra sostenibile ricorra la prima condizione, essendo l’accesso a quell’accordo frutto di una libera adesione del danneggiato, né può dirsi ricorra la seconda, dal momento che l’indennizzo è corrisposto bensì a scopo transattivo della controversia promossa dal lavoratore con l’impugnazione del licenziamento ma con la finale giustificazione di “incentivo all’esodo“.
La sentenza riferisce sul punto una indicazione generica (“ragioni di natura tecnico-organizzativa“) e, comunque, una imputazione finale ancora diversa (“incentivo all’esodo“) a scopo conciliativo di una controversia in cui quella stessa imputazione del licenziamento e la sua legittimità erano contestate.
In definitiva, quanto risulta accertato in punto di fatto non rivela alcun collegamento causale della chiusura del rapporto di lavoro con il fatto dannoso e dunque con le conseguenze dell’illecito per cui è causa.
Giova soggiungere che, sotto tale profilo, la fattispecie non è sovrapponibile a quella considerata nel precedente della Sezione Lavoro di questa Corte (Ordinanza n. 6269 del 04/03/2019, Rv. 653182), secondo la cui massima “in tema di responsabilità del datore di lavoro per gli infortuni sul lavoro, il danno da fatto illecito deve essere liquidato sottraendo dall’ammontare del danno risarcibile l’importo dell’indennità che il danneggiato-assicurato abbia riscosso in conseguenza di quel fatto (nella specie rendita Inail, pensione privilegiata ed incentivo all’esodo agevolato), in quanto tale indennità è erogata in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dall’assicurato in conseguenza del verificarsi dell’evento dannoso ed essa soddisfa, neutralizzandola in tutto o in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità del terzo autore del fatto illecito“.
In quel caso, a differenza di quello qui in esame, venivano in rilievo, infatti, “emolumenti previdenziali o indennitari percepiti dal lavoratore (in particolare: rendita Inail ed emolumento a titolo di esodo agevolato per inidoneità alle mansioni di elettrauto)“, come sottolineato in motivazione ove si rimarca che il principio di compensatio lucri cum damno doveva considerarsi correttamente applicato dal giudice del merito benché si trattasse di poste di natura giuridica diversa, “siccome fondate sui diversi titoli risarcitorio e di beneficio previdenziale o assicurativo“.
Appare chiaro comunque che, nel citato precedente, venivano in considerazioni prestazioni (compreso il così definito “emolumento a titolo di esodo agevolato“) erogate dall’ente previdenziale in base ad accordi tra i datori di lavoro che impieghino mediamente più di 15 dipendenti e le organizzazioni sindacali dei lavoratori maggiormente rappresentative a livello aziendale (art. 4, commi da 1 a 7-ter, dellalegge n. 92 del 28 giugno 2012, rubricata “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita“, così come modificata dallalegge n. 221 del 17 dicembre 2012, di conversione deldecreto legge n. 179 del 18 ottobre 2012) e non invece, come nel caso di specie – secondo quanto affermato in sentenza, senza che al riguardo il ricorso offra alcuna diversa indicazione -, somme corrisposte direttamente dal datore di lavoro a titolo di transazione volta a definire conciliativamente la causa di impugnazione del licenziamento.
3. Con il secondo motivo (omissis) denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e 2056 c.c. in ordine ai criteri di liquidazione adottati in relazione al danno patrimoniale futuro.
La censura investe la sentenza impugnata nella parte in cui, ai fini della capitalizzazione del danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa specifica (operata sulla base dei coefficienti di capitalizzazione presentati nell’Incontro di Studio del CSM tenuto in data 30 giugno-1 luglio 1989), ha bensì ritenuto necessaria, in accoglimento di motivo di gravame sul punto, l’applicazione di una riduzione per tener conto dello scarto tra vita fisica e vita lavorativa, ma ha poi fissato tale riduzione nella limitata percentuale del 10 per cento, non rispettosa “di alcune regole basilari della matematica finanziaria” e del “principio di invarianza“.
Osserva al riguardo che:
– il (omissis) è stato collocato in quiescenza nel 2013 ovverosia quattro anni dopo il licenziamento dalla (omissis) (2009);
– il danno patrimoniale avrebbe pertanto dovuto essere rapportato al periodo intercorrente tra tali due eventi, ovvero quattro anni;
– a tal fine avrebbe dovuto utilizzarsi il coefficiente per la costituzione delle rendite temporanee (e non di quelle vitalizie);
– anche considerando corretto l’utilizzo del coefficiente di capitalizzazione delle rendite vitalizie, la riduzione del 10% per tener conto del periodo di vita non lavorativa è comunque eccessivamente bassa, considerato che il (omissis) ha cessato la propria attività lavorativa all’età di 60 anni e che, quindi, gli anni in cui avrebbe percepito la retribuzione sarebbero stati solo quattro.
4. Il motivo è inammissibile.
La consistenza e la dimensione temporale del danno patrimoniale futuro da perdita della capacità lavorativa specifica sono in sentenza rapportati non al solo periodo intercorrente tra la data del licenziamento e quella del collocamento in pensione, ma anche a quello successivo, evidenziandosi che “fino al momento in cui (il (omissis)) fosse andato regolarmente in pensione per raggiunti limiti di età, egli avrebbe percepito la retribuzione connessa alla sua qualifica di dirigente aziendale, invece della pensione di invalidità che gli è stata riconosciuta” (v. sentenza pag. 11).
Con tale motivazione – che, evidentemente, giustifica anche la scelta quale criterio di liquidazione del coefficiente di capitalizzazione delle rendite vitalizie e non di quelle temporanee – la ricorrente omette di confrontarsi.
La fissazione poi della percentuale di riduzione per lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa costituisce tipico giudizio di merito, di natura equitativa, rimessa alla discrezione del giudice di merito in relazione al caso singolo (v. Cass. 27/04/1995, n. 4642; 27/03/2000, n. 3645).
Nel caso di specie la Corte ne offre congrua motivazione, facendo riferimento a percentuali medie calcolate all’interno dell’Osservatorio sulla giustizia civile del Tribunale di Milano, indicazione che appare in linea con lo scopo (coerente con un corretto esercizio del potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa secondo la cd. equità giudiziale correttiva od integrativa) di collocare la misura prescelta nella media dei parametri utilizzati dagli uffici di merito.
Anche tale motivazione risulta del tutto trascurata dalla ricorrente, che omette peraltro, ancor prima, di precisare in che termini la questione era stata posta nel giudizio di appello. Dalla sentenza emerge, invero, che gli appellanti principali si erano doluti della mancata applicazione da parte del Tribunale di una qualsiasi riduzione percentuale, ma non risulta indicato dalla ricorrente se e quale percentuale fosse stata dagli appellanti proposta come più corretta.
Mette conto peraltro soggiungere che, come di recente condivisibilmente evidenziato da questa Corte (ordinanza n. 34108 del 23/12/2024), non è oggi più sostenibile che capitalizzando i redditi perduti in base ad un coefficiente corrispondente alla durata della vita media e senza applicare alcuna riduzione per il c.d. scarto tra vita fisica e vita lavorativa, si sovrastimi il danno.
“Infatti, con la cessazione della vita lavorativa non cessano i redditi del pensionato, ma semplicemente – di norma – si riducono, in quanto il reddito da lavoro è sostituito dal trattamento pensionistico.
E tuttavia il trattamento previdenziale dei lavoratori in quiescenza è fondato sul sistema contributivo, in virtù del quale la misura della pensione dipende dalla misura dei contributi previdenziali versati; e questi ultimi, a loro volta, dipendono dal numero di anni di vita lavorativa e dal livello del reddito.
Ciò vuol dire che il danno da riduzione del reddito ha sempre ripercussioni anche sul trattamento previdenziale, perché chi non guadagna più o guadagna meno verserà meno contributi, e vedrà pregiudicato il proprio diritto alla pensione. Pertanto, applicando a queste persone la riduzione del risarcimento per scarto tra vita fisica e vita lavorativa, il risarcimento ad esse dovuto viene sottostimato, e non sovrastimato.
In teoria, dunque, la riduzione del risarcimento per tenere conto dello scarto tra vita fisica e vita lavorativa sarebbe ammissibile solo per quei danneggiati la cui pensione prescinde dai contributi versati (sistema retributivo).
Nella maggioranza degli altri casi, invece, una corretta liquidazione non può avvenire che in due modi:
a) se si applica lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa, allora si dovrà liquidare a parte l’ulteriore danno “pensionistico”, e cioè quello consistente nella presumibile percezione di una pensione minore a quella cui la vittima avrebbe avuto diritto, se avesse potuto lavorare più anni o percepire redditi più elevati;
b) se non si liquida in via autonoma il “danno pensionistico” (il che può ritenersi consentito per semplicità di calcolo, tenuto conto che quello in esame è pur sempre un danno da liquidare con l’equità “allargata” di cui all’art. 2056 c.c.), allora in compenso non potrà applicarsi nessuna riduzione per scarto tra vita fisica e vita lavorativa.
Il primo sistema, però, presenta l’inconveniente di prestarsi a disparità di trattamento, in quanto lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa non è uguale per tutti, ma dipende dall’età dell’infortunato e dal lavoro svolto.
In definitiva, poiché la liquidazione del danno di cui si discorre è ampiamente equitativa, nulla vieta al giudice di non applicare lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa, ove ritenga che la contrazione del reddito possa nuocere anche alla posizione pensionistica del danneggiato” (così, in motivazione, Cass. n. 34108 del 2024, cit.).
5. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., violazione dell’art. 132, comma secondo, num. 4, cod. proc. civ. per vizio di motivazione in ordine ai criteri di liquidazione adottati, lamentando che la fissazione nel 10% della detta percentuale di riduzione non sia sorretta da adeguata e logica motivazione.
6. Il motivo è manifestamente infondato.
Secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, “la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione.
Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).
Nel caso di specie non è ravvisabile alcuna delle gravi anomalie argomentative individuate in detti arresti. Come detto, la Corte offre congrua motivazione della scelta operata quanto alla individuazione della percentuale di riduzione per lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa.
7. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia, infine, ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e 2056 c.c. in relazione alla operata determinazione del danno patrimoniale futuro sulla base del reddito lordo, anziché del reddito al netto delle detrazioni e delle ritenute di legge.
Sostiene che l’art. 137 cod. ass.(a tenore del quale “nel caso di danno alla persona, quando agli effetti del risarcimento si debba considerare l’incidenza dell’inabilità temporanea o dell’invalidità permanente su un reddito di lavoro comunque qualificabile, tale reddito si determina, per il lavoro dipendente, sulla base del reddito di lavoro, maggiorato dei redditi esenti e al lordo delle detrazioni e delle ritenute di legge, che risulta il più elevato tra quelli degli ultimi tre anni e, per il lavoro autonomo, sulla base del reddito netto che risulta il più elevato tra quelli dichiarati dal danneggiato ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche negli ultimi tre anni ovvero, nei casi previsti dalla legge, dall’apposita certificazione rilasciata dal datore di lavoro ai sensi delle norme di legge“) non impone la regola di giudizio accolta dal giudice a quo, atteso che una diversa interpretazione si era invece affermata nella giurisprudenza di questa Corte con riferimento all’art. 4 D.L. n. 857 del 1976 dalla formulazione sostanzialmente sovrapponibile.
8. Il motivo è fondato, sebbene per ragioni diverse da quelle dedotte in ricorso.
8.1. La giurisprudenza evocata in ricorso (v. ex permultis Cass. n. 11007 del 2003; n. 4508 del 2001; n. 6321 del 2000; n. 2219 del 1998; n. 7494 del 1993; n. 5464 del 1988; n. 3296 del 1979) si è formata sotto il vigore della previgente disciplina, dettata dall’art. 4 D.L. n. 857 del 1976, come modificato dallalegge di conversione n. 39 del 1977, ed aveva di essa accolto una interpretazione secondo cui, attesa l’eliminazione in sede di conversione di ogni riferimento al “reddito lordo“, il reddito da porre a base della liquidazione del danno doveva ritenersi quello al netto delle ritenute fiscali.
Sta di fatto però che l’art. 137 cod. ass.parrebbe aver ha ripreso – ma solo in modo relativo, come subito si dirà – la formulazione originaria della norma, quale contenuta nell’art. 4 del D.L. n. 857 del 1976 prima della detta modifica operata dallalegge di conversione n. 39 del 1977 con l’eliminazione del riferimento al “reddito lordo“.
Diversamente da quanto affermato in ricorso e anche dal P.G. nelle proprie conclusioni il dato normativo cui occorre far riferimento non è più, dunque, quello posto a base dell’orientamento giurisprudenziale richiamato a fondamento della censura; a differenza di questo, infatti, si esprime nel senso che, per il lavoro dipendente, a base del computo va posto “il reddito di lavoro, maggiorato dei redditi esenti e al lordo delle detrazioni e delle ritenute di legge, che risulta il più elevato tra quelli degli ultimi tre anni“.
Il dato che occorre considerare è, tuttavia, che nell’art. 137 il legislatore non ha usato l’espressione “reddito lordo“, ma, distinguendo fra reddito di lavoro dipendente e reddito di lavoro autonomo, per il primo ha usato l’espressione “al lordo” e non ha quindi aggettivato direttamente la parola “reddito“, per il secondo ha usato l’espressione “reddito netto“.
Questa differenza di terminologia, ad avviso del Collegio, appare di particolare importanza, come si verrà osservando.
Non è invece pertinente, né comunque dirimente, il precedente di Cass. Sez. 6 n. 6619 del 2018, pure evocato in ricorso, riferendosi tale precedente al danno patrimoniale dei familiari superstiti e non facendosi (per tal motivo) carico della norma di cui all’art. 137 cod. ass.
8.2. Ciò precisato, reputa il Collegio che l’attuale formulazione della norma di cui all’art. 137 cod. ass.non giustifichi la ricostruzione accolta dalla Corte di merito e che piuttosto una interpretazione evidenziatrice del diverso approccio terminologico usato dal legislatore ed, in ogni caso, costituzionalmente orientata e attenta agli indici ricavabili dal sistema della responsabilità civile quale vigente nel nostro ordinamento debba portare a porre a base del calcolo del danno da perdita della capacità di guadagno il reddito al netto delle ritenute fiscali e ciò per il lavoratore dipendente come per quello autonomo (per quest’ultimo, ovviamente, non essendo soggetto propriamente a “ritenute“, nel senso, che dovrà aversi riguardo al reddito dichiarato al netto delle imposte dovute).
8.2.1. Giova muovere dal rilievo che il dato letterale della norma chiede di includere nel reddito di lavoro dipendente da porre a base della liquidazione del danno (non le ritenute fiscali ma) le “ritenute di legge“.
Il lemma “ritenuta“, riferito al reddito da lavoro dipendente, certamente comprende, nel lessico di settore, anche le ritenute fiscali ma non è riferibile solo ad esse.
Le ritenute effettuate da chi è obbligato a corrispondere la retribuzione al lavoratore dipendente possono infatti essere di due tipi:
tributarie e non tributarie.
Nel primo senso la ritenuta è un prelievo fiscale effettuato per conto dell’erario dal datore di lavoro, quale sostituto d’imposta.
Nel secondo senso la ritenuta è una trattenuta che il datore di lavoro effettua, per obbligo di legge, di somme dovute a soggetti diversi dall’erario, quali principalmente quelle relative alle quote di contributi assicurativi e previdenziali gravanti sul lavoratore.
La locuzione utilizzata dai conditores del codice delle assicurazioni private affianca, però, come detto, al lemma “ritenute” il sintagma “di legge“.
La genericità di tale scelta lessicale consente di comprendere nel quadro dei riferimenti normativi cui rapportare le ritenute da includere nella base di computo non solo la fonte da cui deriva l’obbligo per il datore di lavoro di effettuare le ritenute ma anche, in una necessaria visione di sistema, quelle che presiedono l’operazione risarcitoria in relazione alla quale è dettata l’inclusione delle ritenute nella base di computo.
In tale prospettiva non può non venire in rilievo il principio dell’integralità del risarcimento sancito dall’art. 1223 c.c., che, se da un lato richiede che il risarcimento valga a compensare il danneggiato integralmente del danno subito, dall’altro vieta che con il risarcimento egli ottenga più di quanto abbia effettivamente perduto.
In base a tale principio il risarcimento del danno da perdita o riduzione della capacità di guadagno deve porre il danneggiato nella stessa condizione patrimoniale in cui si sarebbe trovato se non vi fosse stato il fatto illecito: per il lavoratore danneggiato dovrebbe essere patrimonialmente indifferente lavorare e percepire la paga, ovvero non lavorare a causa della procurata incapacità e percepire il risarcimento.
8.2.2. Per questa ragione la dottrina e la giurisprudenza prevalenti hanno sempre ritenuto che il reddito da porre a base della liquidazione del danno da riduzione della capacità di guadagno debba essere il reddito netto, e non il reddito lordo.
Infatti, se il lavoratore non avesse patito il danno, avrebbe percepito la retribuzione ma avrebbe dovuto pagare le tasse: e siccome il risarcimento non può trasformarsi in un arricchimento per il danneggiato, esso deve essere pari al reddito che la vittima avrebbe percepito, al netto delle tasse. Diversamente, in conseguenza del sinistro la vittima percepirebbe somme superiori a quelle che avrebbe ottenuto se il danno non si fosse verificato, e per di più senza vantaggi per l’erario.
Questo generale principio in materia di risarcimento del danno trova riscontro nella legislazione tributaria: l’art. 6, comma 2, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Testo unico delle imposte sui redditi), esclude infatti dall’imposizione fiscale i risarcimenti conseguiti in sostituzione di redditi a causa di invalidità permanente o da morte.
Se ne trae indiretta conferma che la relativa liquidazione non possa comprendere anche le somme che il danneggiato, se avesse continuato a lavorare, non avrebbe comunque percepito in quanto destinate all’erario mediante ritenuta alla fonte. Se, infatti, il reddito da porre a base del risarcimento dovesse essere quello lordo, inteso come comprensivo del prelievo fiscale, il legislatore tributario non ne avrebbe previsto la non imponibilità. Diversamente opinando il danneggiato verrebbe a ricevere somme non a lui destinate ma all’erario e che nemmeno successivamente egli sarebbe tenuto a versare all’effettivo creditore.
8.2.3. Tale orientamento, come detto, era in precedenza reso agevole dalla meno equivoca precedente formulazione della norma. E tuttavia, per le ragioni esposte, non reputa questo Collegio che quella vigente sia tale da doversi ritenere insuperabilmente ostativa a dare continuità a quell’indirizzo, non ravvisandosi né nel testo né nella relazione illustrativa alcun elemento che evidenzi una consapevole e intenzionale volontà di discostarsene.
Militano in tal senso anche ragioni di compatibilità con la Costituzione della norma, cui appare consentito dare spazio in sede di interpretazione costituzionalmente orientata non ravvisandosi per quanto detto insuperabili limiti testuali.
In tal senso va rilevato che una diversa interpretazione risulterebbe collidente con l’art. 3 Cost., assumendo a tertium comparationis la generale disciplina di cui all’art. 1226 c.c.
Mentre, infatti, il responsabile di un danno diverso da quello causato dalla circolazione stradale è tenuto a risarcire solo i pregiudizi effettivamente derivati dalla sua condotta, il responsabile di un danno causato dalla circolazione stradale sarebbe tenuto a risarcire la vittima in misura eccedente il pregiudizio effettivamente patito.
Né potrebbe obiettarsi che la ricomprensione nel reddito base delle ritenute fiscali che il lavoratore, se avesse continuato a lavorare, avrebbe subito serve a compensare la perdita di quanto, con le imposte, il lavoratore avrebbe ricevuto in termini di servizi pubblici finanziati dall’erario. Le imposte, infatti, refluiscono nella fiscalità generale e non vi è alcun rapporto sinallagmatico individuale tra contribuente e servizi erogati dallo Stato o da altri enti pubblici, dei quali beneficiano tutti coloro che ne hanno diritto indipendentemente dalle imposte da ciascuno eventualmente pagate.
8.2.4. Diversamente va detto, invece, per le ritenute non fiscali.
Per queste ultime una ragione che giustifichi sul piano logico la loro ricomprensione nella base di calcolo e la renda compatibile sia con il principio di integralità del risarcimento sia con la Costituzione può ravvisarsi proprio nell’esigenza di compensare il danneggiato dei vantaggi perduti a causa del mancato versamento dei contributi assicurativi e previdenziali.
In tal caso il danno esiste ed è ricollegabile al fatto che la perdita di quanto il lavoratore avrebbe accantonato rileva ai fini del suo trattamento previdenziale conseguente al pensionamento anticipato o alle diverse condizioni pensionistiche conseguibili in ragione della lesione della capacità lavorativa.
Mette conto a questo punto di rilevare, sviluppando la riserva sopra formulata, che l’esegesi costituzionale e teleologica della norma, parametrata al concetto generale di danno emergente dal principio di c.d. integralità di cui all’art. 1223 c.c., rivela che, a ben vedere, lo stesso testo dell’art. 137 cod. ass., là dove non usa in via diretta l’espressione “reddito lordo“, ma, partendo dal concetto di “danno alla persona“, indica che cosa debba considerarsi “agli effetti del risarcimento” quanto alla “incidenza dell’inabilità temporanea o dell’invalidità permanente su un reddito di lavoro comunque qualificabile” e, dunque, in che cosa quel danno consista sotto qui profili, contiene elementi terminologici rilevanti.
La norma assume come oggetto di determinazione il danno alla persona e, dunque, sotto lo specifico profilo delle conseguenze sulla consecuzione del reddito assicurato dalla prestazione del lavoro oggetto di inabilità e/o invalidità, un pregiudizio riferibile alla persona del danneggiato in termini che necessariamente debbono sottendere la perdita o il mancato guadagno riguardo a ciò che altrimenti la persona lavorando avrebbe conseguito per effetto della prestazione di lavoro.
Si vuol dire, cioè, che il danno alla persona di cui trattasi, dovendosi ricondurre necessariamente alla nozione di cui alla norma civilistica generale dell’art. 1223 c.c., deve essere ricostruito in termini di perdita di ciò che si sarebbe conseguito lavorando in mancanza della inabilità o invalidità sofferte e, dunque, di una perdita o di un mancato guadagno.
Ne segue che per il lavoro dipendente l’espressione “sulla base del reddito di lavoro, maggiorato dei redditi esenti e al lordo delle detrazioni e delle ritenute di legge“, fermo che necessariamente deve essere intesa in modo da realizzare un risultato conforme alla norma civilistica generale, si presta senza dubbio ad essere intesa in modo conforme a tale obiettivo: infatti, l’espressione al “lordo… delle ritenute di legge“, ben si presta ad essere intesa come relativa a quelle ritenute la cui mancata applicazione costituisce una perdita e/o un mancato guadagno. In tale ottica esegetica non è senza rilievo che il legislatore abbia usato l’espressione “al lordo” e non quella “reddito lordo“. L’uso della prima espressione è giustificato sempre dalla finalizzazione ad individuare il danno da perdita/mancato guadagno. Di modo che l’espressione “al lordo” deve implicare la considerazione solo di ciò che il lavoratore soffre come perdita o mancato guadagno e non di ciò che non integra né l’uno né l’altro, come le ritenute fiscali. Esse integrano un concetto di reddito “al lordo“, ma comprensivo di ciò che non è perdita o mancato guadagno e, dunque, non è sotteso all’espressione “al lordo” nella norma dell’art. 137.
Nell’ottica descritta, lo stesso riferimento per il reddito da lavoro autonomo (su cui, per un diverso profilo, si veda di recente Cass. n. 23330 del 2024) al “reddito netto” va sempre spiegato in senso analogo, come relativo cioè al reddito comprensivo di quelle eventuali detrazioni la cui mancata verificazione integri danno per il lavoratore e non certo delle imposte, il cui prelievo non è danno ai sensi dell’art. 1223 c.c.
8.3. Deve in conclusione affermarsi il seguente principio di diritto: “L’art. 137, comma 1, D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private) deve essere interpretato nel senso che, nella liquidazione del danno da invalidità permanente, deve aversi riguardo, per la determinazione del pregiudizio patrimoniale subito dal danneggiato lavoratore dipendente, agli emolumenti che a questo spettano in concreto al lordo delle ritenute diverse da quelle fiscali, che vanno invece escluse dal reddito considerato“.
9. In accoglimento, dunque, del quarto motivo di ricorso, nei termini e nei limiti sopra evidenziati, la sentenza impugnata deve essere cassata e la causa rinviata al giudice a quo, al quale va anche demandato il regolamento delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
accoglie il quarto motivo di ricorso nei termini di cui in motivazione; rigetta gli altri motivi; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto;
rinvia ad altra Sezione della Corte d’Appello di Milano, comunque in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche al regolamento delle spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, l’1 aprile 2025.
Depositato in Cancelleria il 29 aprile 2025.
