Con sentenza del Tribunale, in composizione monocratica, di Taranto, datata 15/VII/’02, (omissis), (omissis), (omissis) e (omissis) venivano condannati, previo riconoscimento solo agli ultimi due delle circostanze attenuanti generiche, il (omissis) ed il (omissis) alla pena, ciascuno, di dieci mesi di arresto e gli altri due alla pena, ciascuno, di sette mesi di arresto, con il beneficio – per tutti – della sospensione condizionale della relativa esecuzione subordinato all’eliminazione delle conseguenze dannose e pericolose dei reati entro due anni dal passaggio in giudicato della decisione, nonché, in solido fra loro, al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede ed alla rifusione delle spese e compensi del giudizio in favore delle parti civili Comune e Provincia di Taranto e Legambiente della Puglia, costituitesi in persona dei loro rappresentati legali “pro tempore”, in quanto colpevoli dei reati previsti dagli artt. 674 c.p. e 13 co. 5 D.P.R. 24/V/’88, n. 203, dei quali erano chiamati a rispondere per avere, dal Luglio ’99 – nelle rispettive qualità di dirigenti del reparto parchi minerali dello Stabilimento (omissis) S.p.a. il (omissis) e lo (omissis), di direttore del detto stabilimento il (omissis) e di amministratore delegato e rappresentante legalo della indicata società il (omissis) – provocato e non impedito, nell’ambito delle rispettive competenze, omettendo di adottare gli opportuni accorgimenti e di installare le necessarie opere provvisionali, continui e permanenti sversamenti di polveri o minerali accatastati nella zona dei parchi minerali dello stabilimento, polveri contenenti sostanze atte a molestare, offendere ed imbrattare le persone residenti nell’ambito del vicino Comune di Taranto ed, in particolare, nel quartiere “Tamburi” e per avere omesso di adottare tutele e misure tecniche e provvisionali necessarie per evitare un peggioramento, anche temporaneo, delle emissioni polverose dalla zona dei menzionati parchi minerali verso il Comune od il quartiere sopra indicati.
Affermava e riteneva, fra l’altro, il Giudice di primo grado:
a) che attraverso le indagini esperite ed alla luce delle numerose testimonianze assunte, era da considerarsi provato come l’area dei parchi minerali dello stabilimento di Taranto della (omissis) S.p.a., estesa circa mq. 660.000, fosse destinata a deposito di minerali di vario tipo e fosse stata suddivisa in otto zone utilizzate, le prime quattro, per i materiali fossili, da impiegare nella produzione del “coke” con uno stoccaggio medio giornaliero di circa cinquecentomila tonnellate e le altre quattro per la materia prima fine o grossolana, da impiegare negli altoforni e per la produzione della ghisa o di altre leghe, con uno stoccaggio medio giornaliero di circa milleduecento tonnellate;
b) che ciascuno dei parchi minerali di che trattasi aveva una lunghezza di centinaia di metri ed un’altezza di circa dieci metri, mentre i fossili ed i minerali, i quali giungevano al Porto di Taranto trasportativi da navi, venivano trasferiti in essi mediante nastri che correvano fino all’interno dello stabilimento;
c) che il materiale, accumulato allo stato grezzo e con pezzatura non omogenea, una volta movimentato, si sgretolava formando polvere lucente di colore nero – rossastra e, specialmente nelle giornate ventose, ma anche in quelle di assoluta normalità climatica, si levavano in aria nuvole di detta polvere di dimensioni enormi, con continui, gravi disagi per la popolazione, specie quella residente nel viciniore quartiere “Tamburi” provocando lacrimazione, bruciore e fastidio agli occhi, nonché problemi di carattere respiratorio, oltre ad imbrattamento di strade, davanzali delle finestre delle abitazioni e delle autovetture;
d) che l’emissione annua di polveri, da parte dello stabilimento in questione, era stata quantificata in 21.362 tonnellate, pari al 94,9% delle emissioni complessive delle più importanti aziende dell’area industriale;
e) che i consulenti tecnici del P.M. avevano accertato come, annualmente, sulla superficie di un metro quadrato si depositassero circa 100/200 grammi di polvere, destinati ad aumentare nei più vicini al perimetro dello stabilimento siderurgico ed a diminuire a distanza di circa 400/500 metri da esso ed, inoltre, che per la polvere totale era stato sfiorato il livello di attenzione di 150 ug/mcubo;
f) che i notevoli sversamenti di polveri provenienti dai parchi minerali in esame erano determinati dalla movimentazione dei materiali, dalla loro diffusione ad opera del vento, da sistemi di abbattimento non perfetti ed dalla mancanza di idonee protezioni;
g) che le polveri rinvenute in quantità notevole e prelevate in varie zone della città di Taranto, provenivano certamente dei parchi minerali dello stabilimento (omissis), stante le loro caratteristiche costitutive accertate mediante analisi che avevano evidenziato la massiccia presenza, in esse, di ferro, vanadio, cromo e manganese;
h) che era da escludere la provenienza delle polveri di che trattasi da altri stabilimenti industriali viciniori, quelli della (omissis) e dell'(omissis), stante la diversa composizione chimica delle relative polveri, nonché dagli impianti di riscaldamento degli edifici, dato che i campionamenti erano stati effettuati anche nei mesi estivi in cui essi non erano funzionanti;
i) che attraverso la consulenza tecnica del dott. (omissis), specialista in pneumologia, era stato evidenziato che il “particolato” – miscela di particelle solide e liquide sospese nell’aria – era tale da offendere la mucosa degli occhi e le vie aree delle persone cagionando loro starnuti, prurito, tosse secca e stizzosa, con gravi danni per l’apparato respiratorio, reso più facilmente attaccabile da virus, batteri e miceti;
j) che, nel corso degli anni, all’interno dello stabilimento (omissis) erano stati adottati rimedi chiaramente inidonei a fronteggiare il fenomeno dello spargimento di polveri dannose per la salute, quali quelli costituiti dalla creazione di colline ecologiche frangivento con piante e reti, l’innalzamento di un muro di cinta alto circa otto metri al confine della zona dei parchi, l’asfaltatura delle strade interne, l’irrorazione con materiale filmante, il posizionamento, sulla dorsale esterna al confine con il quartiere “Tamburi”, di un sistema fisso di irrorazione a mezzo lance e piccoli irrigatoi per la sede stradale interna, lo stoccaggio del materiale più grossolano lungo la dorsale esterna e dei materiali più pulvirulenti solo all’interno del parco, senza però realizzare alcun sistema di rilevamento fisso di polverosità ambientale fino al Febbraio ’01, senza procedere all’interramento dei parchi minerali, senza adottare altre soluzioni alternative ed adeguate, individuate e suggerite nelle consulenze tecniche in atti;
k) che, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 674 c.p., le polveri provenienti dai parchi in questione debbono farsi rientrare nella nozione di “cose”, in quanto non riconducibili alle categorie dei gas, dei vapori o dei fumi e dotate di loro materialità, mentre la contravvenzione di che trattasi deve considerarsi reato di pericolo concreto, commissibile anche mediante omissione e punibile sia a titolo di dolo, che di colpa;
l) che, a ben guardare, l’attività produttiva d’impresa, realizzata mediante movimentazione continua delle polveri, doveva essere ritenuta come idonea a configurare l’azione del “gettare o versare” prevista dalla norma di legge e, quindi, una condotta tipicamente commissiva;
m) che la tesi difensiva, secondo cui l’esito infausto dell’attività produttiva fosse inevitabile, anche con l’adozione della migliore tecnologia esistente, era da disattendere perché uno studio organico od un intervento drastico sul ciclo produttivo, mirato all’effettiva eliminazione del fenomeno, avrebbero certo contribuito alla soluzione del problema attraverso, ad esempio, l’abbassamento del piano di campagna dei cumuli di materiale, così da aumentare il dislivello e ridurre le emissioni all’esterno;
n) che gli imputati avevano avuto un lungo lasso di tempo per affrontare e risolvere la questione, loro nota anche perché altro soggetto – tale (omissis) – era stato, in precedenza, dichiarato colpevole di fatti analoghi a quelli oggetto del presente processo;
o) che pure della contravvenzione di cui all’art. 13 co. 5 D.P.R. 24/V/’88, n. 203, gli imputati dovevano essere dichiarati colpevoli perché, a mente degli artt. 12 e 13 del detto D.P.R., l’impresa, per conseguire l’autorizzazione definitiva all’esercizio dell’attività produttiva, avrebbe dovuto progettare ed adottare, in vista del progressivo adattamento degli impianti esistenti alla migliore tecnologia, misure adeguate onde evitare un peggioramento, anche temporaneo, delle emissioni;
p) che tale contravvenzione concorre con quella prevista dall’art. 674 c.p., stante la diversità della loro struttura e dei beni giuridici che mirano a tutelare ed, al fine di ritenerla sussistente, era da considerarsi irrilevante il mancato specifico accertamento di danni alla salute dei cittadini, non costituendo essi elemento essenziale della fattispecie, configurabile in presenza di un mero peggioramento delle condizioni dell’atmosfera;
q) che i vari accordi e protocolli d’intesa stipulati, negli anni, dall'(omissis) S.p.a. con la Regione Puglia non erano sufficienti a scriminare la condotta degli imputati, sia perché rivelatisi inidonei a risolvere il problema, sia perché non si era ottemperato, fino al Febbraio ’01, alla realizzazione di un sistema di rilevamento fisso di polverosità ambientale attraverso l’installazione di almeno due sensori areali “DOAS” o, in alternativa, di tre analizzatori in continuo a raggi che, al raggiungimento di un prefissato valore di polverosità ambientale, segnalasse la necessità di attivazione di opportune contromisure;
r) che, comunque, era in atti provato come tutti i sistemi predisposti dall’impresa anche in epoca successiva all’installazione del detto sistema di rilevamento, non avessero eliminato, né contenuto in limiti di normale tollerabilità il fenomeno dello spolverio, tant’è che il Dipartimento di Prevenzione, comunicando gli esiti dell’ispezione effettuata, il 3/X/’01 presso il campo sportivo comunale di “Tamburi Vecchio”, con prelevamento e campionamento delle polveri in esso rinvenute, aveva certificato il registrato, progressivo peggioramento del fenomeno, peraltro rilevabile anche dai prospetti relativi al materiale sedimentabile monitorizzato, nella zona circostante lo stabilimento, negli anni dal 1971 al 1984;
s) che la condotta degli imputati appariva caratterizzata non solo da colpa, ma anche da dolo eventuale, avendo essi proseguito nell’esercizio dell’attività di impresa ben conoscendo ed accettando il rischio del verificarsi degli eventi dannosi in esame, né era sostenibile la tesi della inesigibilità di un loro comportamento diverso, ipotizzabile solo in caso di impossibilità di carattere tecnico, non di difficoltà di natura economica come quelle eventualmente connesse allo spostamento o alla modifica strutturale e di funzionamento dei parchi minerali;
t) che il (omissis), amministratore delegato della “(omissis) S.p.a.” corrente in Milano, doveva essere dichiarato colpevole dei reati ascrittigli, nonostante la delega rilasciata il 15/XI/’96, per le dimensioni dell’azienda, al direttore generale dello stabilimento di Taranto, (omissis), in quanto dal testo di essa risultava che a costui erano stati conferiti tutti gli incarichi ed i poteri inerenti alla gestione ed organizzazione dell’attività dello stabilimento, ma non anche alla gestione delle spese e degli investimenti produttivi ed, innegabilmente, la soluzione del problema dello sversamento delle polveri implicava non solo l’investimento di somme di denaro rilevanti, ma soprattutto l’adozione di scelte di politica aziendale riservate al Consiglio d’amministrazione della società ed al suo amministratore delegato, la cui condotta non era stata improntata al rispetto di canoni di diligenza, prudenza e perizia, tanto è vero che, sebbene fosse a conoscenza, sin dal momento del suo insediamento, dei problemi dei quali si discute e per i quali un precedente dirigente dello stabilimento di Taranto era stato condannato penalmente, non aveva adottato, né proposto, soluzioni idonee a risolverli;
u) che il (omissis) doveva pure essere dichiarato responsabile dei reati contestatigli perché, essendogli stato conferito, quale direttore dello stabilimento di Taranto, il potere di decidere se vi fossero le condizioni idonee a garantire la “tutela ecologica dell’ambiente anche esterno allo stabilimento, con specifico riferimento alle normative di settore in materia di inquinamento atmosferico e di sospendere o interrompere l’attività produttiva dello stabilimento, o di suoi settori, fino a quando lo stesso non lo ritenesse assolutamente necessario allo scopo di prevenire rischi rilevanti, non altrimenti evitabili”, aveva una posizione di responsabilità decisionale per la quale doveva essere dichiarato colpevole dei fatti in esame, nonostante la procura speciale conferita a (omissis), responsabile della preparazione ed agglomerazione dei minerali;
v) che la costituzione di parte civile formalizzata dal Comune e dalla Provincia di Taranto, nonché dalla Legambiente Puglia, era ammissibile essendo in atti provato che dallo spargimento delle polveri nocive provenienti dai parchi minerali sopra menzionati erano derivati, al territorio, ingenti danni patrimoniali, e non, con pregiudizio concreto della qualità della vita della collettività, sotto il profilo dell’alterazione, del deterioramento o della distruzione, in tutto o in parte, dell’ambiente e lesione del diritto di personalità od all’immagine e per il discredito derivato alla sfera funzionale degli Enti territoriali od esponenziali, nonché alla loro onorabilità agli occhi di tutti coloro che da essi si considerano rappresentati;
w) che, con riferimento particolare alla Legambiente, l’art. 18 L. 8/VII/’86, n. 349, aveva riconosciuto alle associazioni di protezione ambientale il diritto d’intervenire nei giudizi di danno ambientale, mentre la L. 7/VIII/’90, n. 241, le aveva legittimate a proporre azioni risarcitorie di competenza del Giudice ordinario;
x) che l’area in sequestro doveva essere confiscata in quanto mezzo attraverso il quale i reati erano stati commessi, stante la vicinanza di essa all’abitato del quartiere “Tamburi” e perché, se lasciata nella libera disponibilità degli imputati, avrebbe agevolato la prosecuzione dell’attività illecita;
y) che la detta misura di sicurezza patrimoniale era adottabile nonostante l’area in questione fosse di proprietà della “(omissis) S.p.a.”, visto che questa, della quale gli imputati erano dirigenti o persone ad essa legate da rapporto di dipendenza organica, non poteva essere considerata estranea ai reati, dalla perpetrazione dei quali aveva tratto ingenti profitti.
Avverso tale decisione e l’ordinanza del 17/X/’01, con la quale erano state respinte le richieste di estromissione delle parti civili costituite, gli imputati proponevano impugnazione per chiedere:
– la dichiarazione di inammissibilità della costituzione del Comune e della Provincia di Taranto, nonché della Legambiente della Puglia, quali parti civili;
– l’assoluzione, dai reati loro ascritti, per insussistenza dei fatti o perché essi non costituiscono reato o, da ultimo, per non averli commessi;
– in via gradatamente subordinata, la dichiarazione di estinzione dei reati per prescrizione, dovendo la data di cessazione della loro permanenza essere localizzata al 14/VII/’99, epoca del sequestro dell’area; il riconoscimento a tutti gli appellanti delle circostanze attenuanti generiche, con riduzione delle pene loro inflitte; la sostituzione di quelle detentive con le corrispondenti pene pecuniarie; il beneficio della non menzione delle condanne nel certificato del casellario giudiziario; l’eliminazione della condizione cui era stato subordinato il beneficio di cui all’art. 163 c.p. e la revoca della disposta confisca.
La Corte d’Appello di Lecce – sez. dist. di Taranto – con sentenza del 10/VI/’04, in parziale riforma della decisione impugnata, che nel resto confermava:
– assolveva il (omissis) e lo (omissis), dai reati loro contestati, per non aver commesso i fatti;
– riconosceva al (omissis) le circostanze attenuanti generiche e riduceva a sette mesi di arresto la pena allo stesso inflitta;
– sostituiva la pena detentiva irrogata al (omissis) ed al (omissis) con quella di € 7.980,00 di ammenda, ciascuno;
– eliminava, nei confronti degli stessi, il beneficio della sospensione condizionale della relativa esecuzione;
– condannava gli imputati colpevoli, in solido, alla rifusione alle parti civili delle spese e compensi del giudizio.
Affermava e riteneva, la Corte di merito:
I. che i reati non erano prescritti in quanto la data di cessazione della loro permanenza coincideva con quella di emissione della sentenza di primo grado (15/VII/’02) e ciò perché, contestualmente al disposto sequestro dell’area era stata concessa la “facoltà di usarla, unitamente ai materiali in essa depositati, allo scopo di evitare, per quanto possibile, l’interruzione dell’attività lavorativa”, sicché questa era proseguita, senza soluzioni di continuo, con ulteriore sversamento, specie nel quartiere “Tamburi”, delle polveri nocive di che trattasi;
II. che il reato di cui all’art. 674 c.p., pur avendo di regola carattere istantaneo, ben poteva essere considerato, come nel caso in specie, di natura permanente in quanto le emissioni erano connesse all’esercizio dell’attività imprenditoriale e legate al ciclo produttivo di essa, mentre la contravvenzione di cui all’art. 13 co. 5 D.P.R. 203/’88 è reato omissivo la cui permanenza cessa con l’adempimento degli obblighi previsti dalla norma o, come nella fattispecie in esame, con la sentenza di condanna in primo grado;
III. che era da considerarsi esistente l’elemento materiale del reato previsto dall’art. 674 c.p., essendo in atti ampiamente provato che una vasta area del territorio tarantino, in particolare quella del quartiere “Tamburi” era stata interessata da uno spolverio continuo che aveva imbrattato cose e persone, arrecando a queste ultime disturbi di vista e respiratori;
IV. che era da disattendere la tesi difensiva secondo cui non vi sarebbe prova sicura che le poveri di che trattasi provenissero, in tutto o in massima parte, dall’area dei parchi minerali della (omissis), essendo stato accertato, anche attraverso specifiche campionature ed analisi, che le polveri le quali avevano invaso il territorio sopra menzionato avevano la stessa composizione chimico – fisica di quelle che si sprigionavano dalla detta area e non la composizione di quelle provenienti dai più lontani cantieri dell'(omissis) e della (omissis);
V. che il reato di cui all’art. 674 parte prima c.p. “chiunque getta o versa … cose atte ad offendere o imbrattare o molestare persone”, pur essendo di natura commissiva, può rientrare nella categoria di quelli commissivi mediante omissione e, comunque, agli imputati era stato contestato come posto in essere con condotta commissiva “avere provocato e non impedito” continui o permanenti sversamenti di polveri di minerali accatastati nella zona dei parchi dello stabilimento, contenenti sostanze atte a molestare, offendere ed imbrattare le persone su cui ricadevano;
VI. che, lessicalmente, il verbo “gettare” riveste anche il significato di “emettere, diffondere o produrre”;
VII. che il trasferimento e la diffusione di polveri idonee ad imbrattare e molestare, da luogo privato a quello altrui di uso o transito pubblici, a causa dell’omessa o insufficiente adozione di misure atte ad evitarli, costituisce espressione e frutto di una condotta commissiva anche mediante omissione;
VIII. che detta contravvenzione costituisce reato di pericolo presunto, in ordine al quale deve ritenersi indifferente che il getto o versamento sia diretto o indiretto, che possa avere per immediata conseguenza l’offesa o l’imbrattamento e la molestia, ovvero che sia la materia gettata o versata, di per sé stessa e per il luogo in cui si trova, idonea a determinare quell’effetto;
IX. che, nel caso in specie, si era avuta la verificazione di un evento di danno, non solo di pericolo, essendosi verificati, in misura notevole ed incontestabile, sia l’imbrattamento, che la molestia e l’offesa alla salute dei cittadini;
X. che era sussistente e provato il nesso di causalità fra le azioni fisiche riconducibili alla condotta degli imputati – continua movimentazione dei minerali e fossili stoccati, in enormi quantità giornaliere, nelle diverse zone dei parchi minerali dello stabilimento – ed il fenomeno conseguente della dispersione delle relative polveri sia all’interno, che all’esterno dello stabilimento stesso;
XI. che il ravvisato nesso di causalità non poteva ritenersi escluso per la presenza, possibile, di vento nella zona, dal momento che la raccolta delle polveri, nei doposimetri appositamente installati, era stata registrata, dai consulenti tecnici, anche durante la stagione estiva, con ottime condizioni meteorologiche ed in assenza di vento;
XII. che la mancata, formale contestazione, agli imputati, del concorso di persone o della cooperazione colposa nei reati loro ascritti, era da considerarsi irrilevante, sia perché il principio posto dall’art. 40 co. 2 c.p. – non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo – inerisce al generale rapporto di causalità ed è applicabile anche ai reati con solo evento giuridico, sicché il comando di non fare contenuto nell’art. 674 parte prima c.p., deve ritenersi violato non solo dall’autore del getto o del versamento, ma anche da chi abbia con lui concorso e da colui che, pur non essendo responsabile materiale del fatto o concorrente in esso, non lo abbia impedito, avendone l’obbligo giuridico, sia per la posizione di garanzia assunta dagli imputati su ciascuno dei quali incombeva un dovere di controllo sulle fonti di pericolo, che avrebbero dovuto essere tenuto sotto controllo costante;
XIII. che l’elemento psicologico dei reati contravvenzionati in esame può essere costituito dalla colpa o dal dolo ed era da ritenere esistente negli appellanti i quali avevano accettato il pericolo ed il rischio, altamente probabili, del verificarsi di conseguenze illecite e dannose della propria condotta e li avevano accettati continuando ad agire con le stesse modalità di prima, manifestando colpevole inerzia, sicché in loro era ravvisabile il dolo eventuale ritenuto dal Giudice di primo grado;
XIV. che il detto elemento psicologico non poteva ritenersi escluso sotto il profilo, prospettato dagli appellanti, che essi avrebbero fatto tutto il possibile per evitare i fatti di reato loro ascritti, adottando le migliori tecnologie all’epoca esistenti in materia, dal momento che queste si erano comunque rivelate inidonee ad evitare l’emissione di polveri nocive che si erano sparse nell’aria ed erano ricadute al suolo nell’abitato del Comune di Taranto e, segnatamente, in quello del quartiere “Tamburi”;
XV. che non era invocabile, nella fattispecie in esame, il principio della inesigibilità, da parte degli imputati, di una condotta diversa, applicabile solo nelle ipotesi tipiche di cause di giustificazione – quali la legittima difesa, lo stato di necessità, l’adempimento di un dovere, l’esercizio di un diritto, l’uso legittimo delle armi – o di cause di esclusione del dolo o della colpa – come il caso fortuito, il costringimento fisico, l’errore di fatto o la forza maggiore – visto che essi nulla avevano innovato, quanto a presidi cautelari, rispetto alle misure poste in essere da coloro che, nell’ambito dell’azienda e dello stabilimento, li avevano preceduti e che le soluzioni asseritamente ispirate alla tecnica più avanzata (barriere murarie, colline a piantumazione sormontate da rete frangivento, irroramento dell’area dei parchi e filmatura dei cumuli) addirittura preesistevano all’acquisto dello stabilimento di Taranto, nel ’95, da parte dell'(omissis) S.p.a.;
XVI. che gli imputati non avevano nemmeno offerto prova documentale di avere commissionato ad esperti del settore un serio ed approfondito studio di fattibilità, teso a risolvere – in maniera radicale e definitiva – il fenomeno dello spolverio, né di avere effettuato esborsi di denaro adeguati per realizzare gli interventi finalizzati all’eliminazione di esso che, tenuto conto delle rilevanti dimensioni dello stabilimento, il più grande d’Europa e delle imponenti ricadute pregiudizievoli per il territorio e la salute dei cittadini, aveva assunto proporzioni gravemente allarmanti;
XVII. che i vari protocolli d’intesa sottoscritti dall'(omissis) S.p.a. con la Regione Puglia, nonché con la Provincia ed il Comune di Taranto, da un canto davano prova certa dell’esistenza dei fatti per cui si procede e della loro conoscenza da parte del (omissis) e del (omissis) e, dall’altro, contenevano l’impegno di adozione di rimedi poi non attuati o attuati solo in parte e, comunque, rivelatisi inidonei a fronteggiare e risolvere i problemi, sicché essi non possono esimere gli imputati da responsabilità penale;
XVIII. che anche la contravvenzione per violazione della norma di cui all’art. 13 co. 5 D.P.R. 24/V/’88, n. 203 – secondo cui fino alla data del rilascio della autorizzazione definitiva avrebbero dovuto essere adottate tutte le misure necessarie ad evitare un peggioramento, anche temporaneo, delle emissioni – era sussistente ed, al riguardo, non aveva pregio l’osservazione della difesa degli imputati, la quale aveva sostenuto che, nel caso in specie, non vi sarebbero state emissioni ma, semmai, immissioni in atmosfera, in quanto emissioni ed immissioni costituiscono nozioni distinte che, però, non si collocano su piani fra loro inconciliabili perché le prime sono costituite dall’insieme di sostanze allo stato gassoso, solido o liquido e particellato, generate da processi di produzione, combustione, estrazione, trasformazione ed utilizzazione, considerate nel momento della loro liberazione in atmosfera, mentre le seconde sono costituite dall’insieme di sostanze provenienti dalle emissioni, considerate come facenti parte dell’atmosfera esterna alla quale sono cedute, rilevate a quote alle quali di norma si svolgono le attività umane, sicché le emissioni di una fonte produttiva debbono ritenersi costituire l’antecedente logico – temporale delle immissioni;
XIX. che il rapporto di interconnessione esistente fra gli scarichi in atmosfera di particelle solide, liquide o gassose e lo stato risultante dell’atmosfera stessa, definito come immissione, appare ancora più stretto allorché, come nel caso in esame, non si tratta di emissioni concentrate e convogliate attraverso sezioni di scarico ridotto, quali quelle dei camini, delle ciminiere o di condotti di scarico in genere, ma di emissioni diffuse generate direttamente nell’ambiente esterno, quali quelle delle polveri sprigionate dai parchi minerali a cielo aperto dello stabilimento siderurgico dell'(omissis);
XX. che il peggioramento, anche temporaneo, dell’atmosfera intesa quale corpo ricettore, punito dalla norma di legge sopra richiamata, era riconducibile proprio al peggioramento delle emissioni diffuse generate dal ciclo produttivo del detto stabilimento ed era da considerare irrilevante il mancato accertamento dello eventuale superamento dei valori limite di emissione previsti dalla normativa statale e da quella regionale, visto che la norma di legge non lo contempla, ma postula, per la sussistenza del reato, solo il peggioramento delle emissioni, in atti sicuramente provato;
XXI. che dovendo per emissioni intendersi, a norma dell’art. 2 D.P.R. 203/’88, le sostanze introdotte in atmosfera, che possono produrre inquinamento atmosferico ed essendo, il parametro di riferimento per ritenere la sussistenza di tale inquinamento, quello dell’alterazione della normale composizione dell’aria, doveva trarsi la conclusione che il peggioramento delle emissioni era, nel caso di specie, ben desumibile dalla rilevazione dell’incremento delle immissioni, in atmosfera, di sostanze in quantità e con caratteristiche tali da alterarne le normali condizioni di salubrità o da arrecare pregiudizio alla salute dell’uomo, come accertato dai consulenti tecnici del P.M. i quali avevano rilevato, fra l’altro, un’accentuazione del fenomeno di spolverio originato dall’area dei parchi minerali dello stabilimento I. in occasione della movimentazione dei cumuli ed in particolari condizioni microclimatiche (vento), proprio per la mancata adozione di misure necessarie ad evitarlo;
XXII. che il peggioramento di che trattasi era testimoniato anche dai dati indicati dalla dott.ssa (omissis), raffrontati con quelli dei consulenti tecnici del P.M. e relativi ai campionamenti effettuati nei mesi di Agosto, Ottobre e Novembre ’99, nonché Gennaio ’00 ed, altresì, dalla granulometria dei materiali messi a parco, evidenziata dall’Ing. (omissis), il quale aveva sottolineato come l’impiego di materiali più fini e, dunque, maggiormente volatili si fosse dimostrato, all’uopo, particolarmente rilevante e funesto, al pari di quanto si sarebbe potuto fare e non si era fatto, da parte dell’azienda, in termini di misure volte ad evitare l’incremento, anche temporaneo, delle emissioni;
XXIII. che la responsabilità penale del (omissis) e del (omissis), in ordine ad entrambi i reati loro ascritti, era stata legittimamente affermata ed andava ribadita, nonostante la mancata, formale contestazione di loro ricorso o cooperazione colposa in essi, anzitutto perché, essendo stato nei capi d’imputazione specificato che delle contravvenzioni in questione sono chiamati a rispondere per avere, “nelle rispettive qualità di amministratore delegato della società e di direttore dello stabilimento di Taranto e, dunque, nell’ambito delle loro competenze, provocato e non impedito lo sversamento continuo di polveri, nonché omesso di adottare misure idonee ad evitare il peggioramento, anche temporaneo, delle emissioni, di tali reati essi sono accusati in quanto titolari di posizioni, sia pure distinte, di garanzia che comportavano, per ciascuno di loro, l’obbligo di impedire gli eventi, obbligo del quale erano destinatari, salva la verifica di merito sull’effettiva ricorrenza, in concreto, dei profili di imputazione soggettiva ed oggettiva della loro condotta;
XXIV. che il (omissis) era responsabile dei reati in esame perché, quale Presidente del Consiglio d’Amministrazione ed Amministratore delegato del gruppo industriale cui apparteneva lo stabilimento (omissis) di Taranto, aveva il dovere giuridico di adottare tutte le iniziative, di carattere amministrativo, economico, organizzativo e strutturale, idonee ad evitare il verificarsi dei fatti ascrittigli e la delega conferita al direttore del detto stabilimento non lo scagionava, trattandosi di scelte e decisioni di ampio respiro strategico, importanti lo stanziamento di notevoli somme di denaro, che certamente fuoriuscivano dalle competenze delegate al (omissis) cui era stato conferito solo il potere di decidere se vi fossero le condizioni idonee a garantire la “tutela ecologica dell’ambiente anche esterno allo stabilimento, con specifico riferimento alle normative di settore in materia di inquinamento atmosferico e di sospendere o interrompere l’attività produttiva dello stabilimento, o di suoi settori, fino a quando lo stesso non lo ritenesse assolutamente necessario allo scopo di prevenire rischi rilevanti, non altrimenti evitabili”;
XXV. che il (omissis) era parimenti responsabile dei reati contestatigli, nonostante il ruolo e le competenze riservate al (omissis), proprio perché, in virtù della delega conferitagli, aveva il dovere di assicurare la tutela ecologica dell’ambiente anche esterno allo stabilimento, sospendendo o interrompendo – se necessario – l’attività produttiva;
XXVI. che la responsabilità penale dei due imputati era dunque cumulativa e non alternativa, essendo ciascuno destinatario, per intero, degli obblighi previsti dalla legge;
XXVII. che la costituzione delle parti civili, segnatamente – per quello che in questa sede rileva – della Legambiente della Puglia, era da considerarsi legittima, anzitutto perché lo “ambiente” costituisce un bene giuridico non solo unitario, cioè comprensivo delle risorse naturali, della salubrità e del paesaggio, ma anche autonomo rispetto ai beni oggetto di specifici diritti patrimoniali ed alle cose che ne sono elemento integrativo ed, inoltre, perché, pur riservando – la L. 349/’86 – la titolarità del diritto al risarcimento del danno ambientale allo Stato ed agli Enti territoriali ed alle associazioni ambientalistiche riconosciute solo la possibilità di intervenire nei relativi giudizi, la legittimazione della Legambiente in questione non discenderebbe dalla possibilità di esercitare l’azione risarcitoria in sostituzione dell’Ente territoriale, ma dalla titolarità di un’azione “iure proprio”, quale sarebbe quella spettantele per essere insediata in una zona determinata, per avere, fra gli scopi statutari, anche quello di promuovere e svolgere attività di vigilanza per il rispetto delle leggi e delle norme poste a tutela della fauna, della flora e dell’ambiente e per avere, la condotta degli imputati, cagionato un danno diretto, di natura patrimoniale e non, in termini di lesione delle finalità sue proprie;
XXVIII. che i denunciati profili di inadempienza degli Enti pubblici, rispetto ai propri obblighi burocratici, possono evidenziare altre responsabilità penali, per diversi titoli di reato, a carico di amministratori pubblici, ma non erano idonei ad escludere la responsabilità degli appellanti, né la pretesa risarcitoria avanzata nei confronti degli stessi;
XXIX. che privo di pregio appariva anche il profilo con il quale si era lamentata la indeterminatezza dei danni asseritamente patiti dagli Enti territoriali, tenuto conto che a mente dell’art. 18 co. 1 L. 349/’86 “qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge, che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato” e, nel caso di specie, i soggetti rappresentati dagli Enti territoriali costituiti parte civile avevano patito una grave compromissione del diritto alla salute ed alla salubrità dell’ambiente, garantiti dalla Costituzione, per la rilevante alterazione e modificazione della composizione naturale dell’aria a causa delle nocive e moleste emissioni di polveri;
XXX. che la confisca, ovviamente facoltativa, dell’area in sequestro era stata legittimamente disposta ed andava mantenuta, dovendosi sottrarre ai colpevoli la disponibilità di una cosa servita e destinata a commettere i reati che, se lasciata nella libera disponibilità degli stessi, avrebbe costituito stimolo concreto alla commissione di altri illeciti penali, con la continuazione dell’attività produttiva;
XXXI. che l’area in questione, luogo di stoccaggio dei materiali sopra indicati, rientra nel concetto giuridico di “cosa immobile”, come tale compresa nella previsione di cui all’art. 240 c.p. ed è confiscabile, sebbene non di proprietà degli imputati, ma della persona giuridica “(omissis) S.p.a.” non potendo questa essere considerata persona estranea ai reati dal momento che di questi aveva utilizzato gli ingenti profitti e dovendo ad essa imputarsi, per il principio di rappresentanza, l’operato dei suoi dirigenti.
Avverso la sentenza di secondo grado sia il (omissis), che il (omissis) hanno proposto ricorso per Cassazione e ne chiedono l’annullamento per violazione di legge e difetto di motivazione.
In particolare i ricorrenti deducono, con motivi in gran parte sostanzialmente comuni:
– che i reati avrebbero dovuto – e dovrebbero – essere dichiarati estinti per prescrizione in quanto la loro permanenza dovrebbe ritenersi cessata il 14/VII/’99, data del sequestro dell’area in cui erano ubicati i parchi minerali, sequestro a causa del quale la (omissis) S.p.a. ed essi imputati ne avevano perduto la disponibilità, nonostante l’autorizzazione a proseguire l’attività produttiva, cosa che da quel momento era avvenuta sotto il controllo dell’Autorità giudiziaria e senza che loro avessero poteri di disposizione;
– che la costituzione delle parti civili ed in particolare, per quello che in questa sede rileva, della Legambiente della Puglia, sarebbe inammissibile sia perché non legittimata ad agire in giudizio per preteso risarcimento di danni, sia perché questi non sarebbero stati provati, né determinati nell’ammontare;
– che la contravvenzione di cui all’art. 674 parte prima c.p. sarebbe stata ritenuta esistente illegittimamente, sia perché sarebbe ravvisabile solo in presenza di condotte commissive e non omissive come loro contestato, sia per mancanza – in loro – del dolo, da escludere essendovi, anzi, la prova che essi avevano adottato, per risolvere o ridurre gli effetti dello spolverio, tutte le migliori tecnologie all’epoca conosciute;
– che anche la contravvenzione prevista dall’art. 13 co. 5 D.P.R. 24/V/’88, n. 203, sarebbe stata ravvisata sia perché mancherebbe la prova che essi abbiano provocato “emissioni”, essendovi state – tutto al più – solo delle “immissioni”, sia perché non è stato effettuato alcun accertamento tecnico sulla quantità e qualità delle sostanze rilasciate dallo stabilimento, sebbene la norma di legge prevederebbe, per la configurazione del reato, il superamento delle soglie massime di tollerabilità fissate per le diverse sostanze emesse;
– che, in ogni caso, l’omessa contestazione di loro concorso o cooperazione colposa nei reati di cui in rubrica, renderebbe mancante il nesso di causalità fra le omissioni a ciascuno di loro singolarmente ascritte e l’evento dannoso, producibile solo attraverso condotte commissive;
– che la loro responsabilità penale, in ordine ad entrambi i reati di che trattasi, sarebbe stata affermata illegittimamente, mancando in atti la prova che l’evento dannoso di cui all’art. 674 c.p. sarebbe stato cagionato dalla condotta di ciascuno di loro, a prescindere dall’apporto causale derivante dalla condotta dell’altro ed essendo stato dimostrato che avevano fatto tutto quanto era in loro potere per evitare o ridurre gli effetti dello spolverio al di fuori dell’area in sequestro;
– che la confisca sarebbe stata disposta illegittimamente ed andrebbe revocata, perché i reati sono estinti per prescrizione, perché i parchi minerali non sarebbero “cose”, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 240 c.p., ma luoghi perché la detta misura di sicurezza patrimoniale non sarebbe applicabile ai reati colposi e perché non sarebbero suscettibili di confisca le cose appartenenti, come nel caso in specie, a persona giuridica – la (omissis) S.p.a. – estranea al reato ed, a mente dell’art. 19 D.Lgs. 8/VI/’01, n. 231, “nei confronti dell’Ente è sempre disposta, con la sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo per la parte che può essere restituita al danneggiato” e l’area in sequestro non costituisce né prezzo, né profitto dei reati in questione.
Con delibere, rispettivamente, del 27/XII/’04 e del 25/I/’05, in atti prodotto, il Comune e la Provincia di Taranto hanno revocato le loro costituzioni di parte civile nel presente giudizio.
Con memoria datata 15/IX/’05, il difensore della Legambiente della Puglia ha motivatamente chiesto che i ricorsi degli imputati siano dichiarati inammissibili, perché in fatto o, comunque, rigettati, in quanto destituiti di fondamento.
Diritto
Motivi della decisione
I reati dei quali i ricorrenti sono stati dichiarati colpevoli non sono estinti per prescrizione in quanto la loro permanenza deve ritenersi cessata alla data – 15/VII/’02 – della sentenza di condanna in primo grado.
Il sequestro dell’area, intervenuto il 14/VII/’99, non ha determinato la cessazione dell’attività illecita ascritta agli imputati, essendo stata contestualmente concessa la “facoltà di usarla, unitamente ai materiali in essa depositati, allo scopo di evitare, per quanto possibile, l’interruzione dell’attività lavorativa” che era, dunque, proseguita, senza soluzioni di continuo, con ulteriore sversamento, specie nel quartiere “Tamburi”, di polveri nocive.
La prosecuzione dell’attività produttiva d’impresa, sebbene autorizzata dal Giudice, avvenne, da parte della (omissis) S.p.a. e dei dirigenti di essa, odierni imputati, in piena autonomia e non risulta che furono adottate, come avrebbe potuto essere previa autorizzazione dell’Autorità giudiziaria, misure intese ad eliminare o ridurre il fenomeno dello spolverio.
La contravvenzione di cui all’art. 674 prima parte c.p. è stata ritenuta legittimamente esistente.
Infatti, nel concetto di “gettare” o “versare”, che punisce il getto pericoloso di cose, deve ritenersi rientrare l’azione di diffusione di polveri nell’atmosfera (v. conf. Cass. sez. III pen., 23/X/’02, Lo Russo; sez. I pen., 9/I/’95, Tinarelli e 22/IX/’93, Pasini).
La fattispecie tipica del reato in questione configura un’ipotesi di reato di pericolo, rappresentato dall’idoneità potenziale della cosa versata a molestare o imbrattare le persone in modo, anche se minimo, percettibile ed ai fini della configurabilità di essa non è richiesto alcun effettivo nocumento alle persone, in dipendenza della condotta contestata, essendo appunto sufficiente l’attitudine di questa a cagionare effetti dannosi, attitudine che non deve essere necessariamente accertata mediante perizia, ben potendo il Giudice fondare il proprio convincimento su elementi probatori di natura diversa, quali le dichiarazioni testimoniali di coloro che si siano dimostrati in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti, oggettivamente percepiti, delle immissioni (v. conf. Cass. sez. III pen., 26/I/’98, Terrile e 30/I/’98, Labita; sez. I pen., 4/XII/’97, Tilli).
Or poiché, come detto, la contravvenzione in parola concretizza una situazione di pericolo per l’incolumità delle persone, offesa dalla condotta descritta nella relativa disposizione di legge, per la sussistenza dell’elemento materiale del reato è sufficiente che tale condotta sia idonea a mettere in pericolo l’interesse protetto, mentre ai fini della sussistenza del relativo elemento psicologico non hanno rilevanza alcuna i motivi ed il fine perseguito dagli imputati, essendo solo necessario che la condotta sia a loro attribuibile, quantomeno a titolo di colpa (v. conf. Cass. sez. I pen., 4/VI/’96, Fragni e sez. III pen. 19/IV/’95, Catarci).
Inoltre, la condotta costitutiva dell’illecito di che trattasi deve ritenersi integrata a prescindere dal superamento di valori limite delle immissioni, eventualmente stabiliti dalla legge, essendo sufficiente che essa abbia cagionato disturbo, offesa o molestia alle persone (v. conf. Cass., sez. I pen., 3/I/’02, Fantasia).
Ciò perché il reato, mirando a tutelare la salute e l’incolumità fisica delle persone colpite, prescinde dall’osservanza, o meno, di “standards” fissati per la prevenzione dell’inquinamento, affidata a norme che non legittimano emissioni o immissioni inferiori ai limiti tabellari, sicché anche un’attività produttiva di carattere industriale, autorizzata, può dar luogo al reato in questione qualora da essa siano derivate molestie alle persone per la mancata attuazione di accorgimenti tecnici possibili o per inosservanza di prescrizioni dell’Autorità amministrativa (v. conf Cass. sez. III pen., 7/IV/’94, Gastaldi).
Il limite della “normale tollerabilità”, valicato il quale le immissioni e/o emissioni diventano moleste, con conseguente pericolo per la salute pubblica la cui tutela costituisce la “ratio” della norma incriminatrice, è quello indicato nell’art. 844 c.c. (v. conf. Cass. sez. I pen. 4/XII/’97, Tilli).
Il reato di che trattasi, pur essendo di natura commissiva, può rientrare nella categoria di quelli commissivi mediante omissione e, comunque, agli imputati era stato contestato come posto in essere con condotta commissiva “avere provocato e non impedito” continui e permanenti sversamenti di polveri di minerali accatastati nella zona dei parchi dello stabilimento, contenenti sostanze atte a molestare, offendere ed imbrattare le persone su cui ricadevano.
Lessicalmente, il verbo “gettare” è anche sinonimo di “emettere, diffondere o produrre” ed il trasferimento e la diffusione di polveri idonee ad imbrattare e molestare, da luogo privato a quello altrui di uso o transito pubblici, a causa dell’omessa o insufficiente adozione di misure atte ad evitarli, costituisce espressione e frutto di una condotta commissiva anche mediante omissione.
L’elemento psicologico del reato in questione può, come in ogni reato contravvenzionale, essere integrato sia dalla colpa, che dal dolo e, nella fattispecie in esame, i Giudici di merito hanno ritenuto, con motivazione incensurabile in questa sede perché adeguata, giuridicamente corretta e logica, esservi in atti la prova che dall’area in sequestro e dalle diverse zone dei parchi minerali in essa esistenti si sprigionavano, sistematicamente, a causa della movimentazione dei materiali e delle condizioni climatiche della zona, polveri che si depositavano, in gran quantità, sulle abitazioni, sulle auto, nelle strade del quartiere “Tamburi” e che, anche per la loro composizione fisico – chimica, erano idonee non solo ad imbrattare, ma anche a cagionare molestia alle persone, mettendone in pericolo la salute.
In sede di merito è stato pure accertato e ritenuto che gli imputati ben conoscevano – sia per l’esistenza del processo, per fatti analoghi, a carico di un precedente direttore dello stesso stabilimento, sia per il contenuto dei vari protocolli d’intesa stipulati con diversi Enti territoriali l’esistenza del fenomeno dello “spolverio” di cui si parla, nonché gli effetti che esso era idoneo a produrre e che, ciononostante, avevano continuato l’attività produttiva, accettando consapevolmente il rischio del verificarsi degli effetti molesti e nocivi vietati dalla norma incriminatrice.
In conseguenza, è stato legittimamente considerato esistente e provato l’elemento psicologico del reato, commesso in un lungo arco di tempo, con la coscienza e volontà della condotta e la accettazione del rischio sopra indicato.
Anche la contravvenzione per violazione della norma contenuta nell’art. 13 co. 5 D.P.R. 24/V/’88, n. 203, è stata ritenuta legittimamente esistente e provata, in quanto, in materia di inquinamento atmosferico, a norma degli artt. 13 co. 5 e 25 co. 7 del detto D.P.R., v’era, per gli impianti esistenti come quello dello stabilimento (omissis) di Taranto, l’obbligo di adottare, in attesa del rilascio dell’autorizzazione definitiva, tutte le misure necessarie ad evitare un peggioramento, anche temporaneo, delle emissioni.
Ai fini della protezione della salute dei cittadini e dell’ambiente in cui essi vivono, la legge adotta una nozione di inquinamento atmosferico che fa riferimento ad ogni modificazione della normale composizione o stato fisico dell’atmosfera, dovuta alla presenza di una o più sostanze in quantità e con caratteristiche tali da alterarne le normali condizioni, da costituire pericolo di pregiudizio, diretto o indiretto, per la salute dell’uomo, da compromettere le attività ricreative e gli altri usi legittimi dell’ambiente, alterandone le risorse biologiche e gli ecosistemi, nonché i beni pubblici e privati.
Siffatta concezione appare ispirata alla protezione delle risorse naturali nella loro specificità e mira ad evitare non solo il danno rilevante, ma anche la semplice modificazione o alterazione del normale stato fisico naturale dell’ambiente, provenendone gli effetti negativi che sui cittadini e sulla natura possono verificarsi (v. conf. Cass. sez. III pen., 3/V/’95, Vinella).
Il D.P.R. 203/’88 assume, dunque, un concetto ampio di inquinamento atmosferico e sottopone a disciplina normativa tutte le attività degli impianti destinati alla produzione, al commercio, all’artigianato ed ai servizi, da cui derivi anche solo uno degli effetti contemplati, quali le alterazioni delle normali condizioni ambientali e della salubrità dell’aria, il pericolo di danno alla salute e l’alterazione delle risorse biologiche.
Ne deriva che per aversi inquinamento atmosferico non è necessario il pericolo di danno alla salute dell’uomo, per la presenza di sostanze inquinanti o tossiche o nocive, essendo sufficiente che l’alterazione dell’atmosfera incida negativamente sui beni naturali o sull’uso di essi (v. conf. Cass. sez. I pen., 12/IV/’96, Mazzi).
Per tali ragioni è stato correttamente ritenuto irrilevante il mancato accertamento tecnico dello eventuale superamento di soglie massime di tollerabilità delle sostanze rilevate in atmosfera, essendo stato accertato che l’esercizio dell’attività produttiva dello stabilimento (omissis) di Taranto aveva peggiorato sensibilmente le emissioni in atmosfera.
L’osservazione dei ricorrenti, secondo cui nel caso di specie sarebbero state accertate solo immissioni e non emissioni, è priva di pregio avendo i Giudici di merito logicamente ritenuto che emissioni ed immissioni costituiscono nozioni distinte che, però, non si collocano su piani fra loro inconciliabili perché le prime sono costituite dall’insieme di sostanze allo stato gassoso, solido o liquido e particellato, generate da processi di produzione, combustione, estrazione, trasformazione ed utilizzazione, considerate nel momento della loro liberazione in atmosfera, mentre le seconde sono costituite dall’insieme di sostanze provenienti dalle emissioni, considerate come facenti parte dell’atmosfera esterna alla quale sono cedute, rilevate a quote alle quali di norma si svolgono le attività umane, sicché le emissioni di una fonte produttiva debbono ritenersi costituire l’antecedente logico – temporale delle immissioni.
La fattispecie di cui agli artt. 13 co. 5 e 25 D.P.R. 203/’88 ha natura di reato omissivo, permanente, la cui condotta persiste sino a quando non siano intervenuti l’atto formale di controllo, con le relative prescrizioni, ovvero – come in questo caso – la sentenza di condanna in primo grado.
Anche questo, come è ovvio, é reato di pericolo che prescinde dall’effettiva produzione dello inquinamento e che concorre con quello di cui all’art. 674 c.p., stante la diversità dei beni giuridici tutelati (v. conf. Cass. sez. III pen., 15/III/’02, Magliulo e sez. I pen. 25/V/’94, Turino).
Le censure relative alla mancata contestazione, ai ricorrenti, del concorso di persone o della cooperazione colposa nei reati dei quali sono stati dichiarati colpevoli, vanno disattese, anzitutto perché deve considerarsi irrilevante la mancata indicazione, nei capi di imputazione, degli artt. 110 e 113 c.p. e, poi, perché il (omissis) ed il (omissis) sono stati condannati per avere, nelle rispettive qualità e nell’ambito delle loro specifiche competenze, provocato e non impedito continui sversamenti di polveri ed omesso di adottare tutte le misure tecniche e provvisionali necessarie per evitare, in attesa del rilascio dell’autorizzazione definitiva all’esercizio dell’attività produttiva, il peggioramento, anche temporaneo, delle emissioni.
Risulta evidente, dalla contestazione, che gli eventi previsti dalle norme di legge, della cui violazione gli imputati sono chiamati a rispondere, sono stati frutto e conseguenza delle condotte di entrambi gli imputati, rivelatesi – anche singolarmente considerate – idonee a produrle.
Come legittimamente ritenuto dalla Corte di merito, i ricorrenti sono stati condannati perché titolari di posizioni, sia pure distinte, di garanzia che importavano, per ciascuno di loro, l’obbligo di impedire gli eventi, obbligo del quale erano destinatari.
Invero, nei reati colposi omissivi impropri l’accertamento della colpa non può prescindere dall’individuazione della posizione di garanzia, cioè dalla norma che impone al soggetto, cui si imputa la colpa, di tenere un determinato comportamento positivo, la cui omissione ha determinato il verificarsi dell’evento.
La cooperazione, benché dalla legge espressamente prevista per i delitti colposi, deve ritenersi riferibile anche alle contravvenzioni della stessa natura, come si desume dall’art. 43 co. ult. c.p., il quale dispone che la distinzione fra reato doloso e colposo, stabilita per i delitti, è applicabile anche alle contravvenzioni, ogni volta che da tale distinzione discendono effetti giuridici.
Inoltre, il principio posto dall’art. 40 co. 2 c.p. – non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo – inerisce al generale rapporto di causalità ed è applicabile anche ai nati di solo evento giuridico, sicché il comando di non fare, contenuto nell’art. 674 parte prima c.p., deve ritenersi violato non solo dall’autore del getto o del versamento, ma anche da chi abbia con lui concorso e da colui che, pur non essendo responsabile materiale del fatto o concorrente in esso, non lo abbia impedito, avendone l’obbligo giuridico.
Nel caso di specie i Giudici di merito hanno accertato e motivatamente ritenuto che gli imputati dichiarati colpevoli hanno agito non solo con colpa, ma in stato di dolo eventuale e non v’è dubbio che gli eventi previsti dalle norme incriminatrici erano da loro conosciuti come possibili ed accettati nel rischio del loro verificarsi.
Le cautele, tecnologicamente avanzate, asseritamente poste in essere nell’esercizio della attività di impresa sono state ritenute legittimamente non idonee a scagionare gli imputati da responsabilità penale, sia perché rivelatesi inidoneo ad evitare lo sversamento delle polveri, nonché il peggioramento, anche temporaneo, delle loro emissioni, sia perché poste in essere in epoca antecedente all’assunzione, da parte dei ricorrenti, delle cariche rivestite in seno all’azienda, sia perché era stato accertato, dai consulenti tecnici, che altri e più efficaci rimedi avrebbero potuto essere adottati ed erano, quindi, esigibili.
La misura di sicurezza patrimoniale è stata legittimamente disposta in primo grado perché – a mente dell’art. 240 co. 1 c. p. – “nel caso di condanna, il Giudice può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto”.
La confisca facoltativa può essere ordinata anche in caso di condanna dell’imputato per reato contravvenzionale, dunque per fatto colposo (v. conf Cass. sez. I, 23/X/’97, Porpiglia) ed, avendo carattere non punitivo, ma cautelare, può avere ad oggetto beni appartenenti a persone giuridiche, come le società, sfornite di capacità penale, dovendo ad esse, in forza del principio di rappresentanza, essere riferito l’operato di coloro che il reato hanno commesso nell’esercizio di compiti e funzioni loro demandati quali rappresentanti o dipendenti dell’ente.
Presupposto della confisca è il pericolo di ulteriore utilizzazione della cosa per commettere altri reati, mentre la finalità di essa è costituita dalla prevenzione di questi mediante l’esproprio di cose che, essendo intimamente collegate all’esecuzione di fatti penalmente illeciti, potrebbero costituire mezzo e strumento per la consumazione di ulteriori reati (v. conf. Cass. sez. VI, 6/VI/’94, Violato e 10/02/’94, Rilande).
L’area in questione, luogo di stoccaggio di materiali utilizzati nel ciclo di produzione, rientra nel concetto giuridico di “cosa immobile”, come tale compresa nella previsione della norma di legge sopra richiamata ed era confiscabile, sebbene non di proprietà degli imputati, ma della persona giuridica “(omissis) S.p.a.”, non potendo questa essere considerata estranea ai reati, avendo di questi utilizzato gli ingenti profitti e dovendo ad essa imputarsi, per il principio di rappresentanza, l’operato dei suoi dirigenti.
Nella fattispecie in esame essa è stata ordinata avendo, il Giudice di merito, ritenuto di dovere sottrarre ai colpevoli la disponibilità di una cosa servita e destinata a commettere i reati che, se lasciata nella libera disponibilità degli stessi, avrebbe costituito stimolo concreto alla commissione di altri illeciti penali, con la continuazione dell’attività produttiva.
Or poiché nelle more della decisione di secondo grado, precisamente il 18/XI/’03, il Dirigente del settore Ecologia della Regione Puglia risulta – in atti – avere emesso un provvedimento, pur esso provvisorio, ma tuttavia esistente, di autorizzazione della (omissis) S.p.a. alle emissioni convogliate in atmosfera, la sopra evidenziata finalità cautelare deve ritenersi venuta meno, sicché la misura di sicurezza patrimoniale di che trattasi non avrebbe dovuto essere confermata, in appello e deve essere eliminata in questa sede, previo annullamento senza rinvio della decisione impugnata nel punto relativo.
I motivi d’impugnazione relativi alle costituzioni di parte civile effettuate dal Comune e dalla Provincia di Taranto debbono essere dichiarati inammissibili, per sopravvenuta carenza d’interesse in capo ai ricorrenti, avendo i detti Enti territoriali revocato formalmente, con le delibero sopra indicate, le menzionate costituzioni.
La costituzione di parte civile della Legambiente della Puglia, non revocata, deve ritenersi essere stata correttamente dichiarata ammissibile, essendo stata effettuata da una Associazione legittimata “ex lege” a stare in giudizio per la tutela di interessi ambientali, in quanto compresa nell’elenco di quelle protezionistiche di cui agli artt. 13 e 18 L. 8/VII/’86, n. 349.
Vero è che l’esercizio del diritto e delle facoltà spettanti agli Enti ed alle Associazioni senza scopo di lucro, aventi finalità di tutela degli interessi lesi dal reato, è subordinata – a mente dell’art. 92 c.p.p. – al consenso della persona offesa, da acquisirsi nelle forme indicate nella stessa norma di legge, ma è anche vero che la L. 8/VII/’86, n. 349, ha riconosciuto a detti Enti ed Associazioni, che perseguono il fine di assecondare l’attività dello Stato nella salvaguardia dell’ambiente, la facoltà di “intervenire in giudizio” tutte le volte in cui è in gioco il riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni conseguenti al pregiudizio reale o potenziale che una certa condotta può avere arrecato all’ambiente, ovvero ad uno dei componenti essenziali di esso, qual’è il territorio.
Pertanto, deve ritenersi essere lo stesso ordinamento positivo ad offrire il generalizzato, preventivo consenso dello Stato a quelle Associazioni o Enti che, come la Legambiente, possono far valere davanti al Giudice ordinario le loro istanze (v. conf. Cass. sez. V, 5/III/’96, Amendola).
Occorre, però, distinguere fra il diritto degli Enti e delle Associazioni di che trattasi ad intervenire anche nel giudizio penale, mediante la costituzione di parte civile e quello di chiedere la condanna dell’imputato – colpevole – al risarcimento di danni materiali e/o morali in proprio favore.
Infatti, a norma dell’art. 18 co. 3, 4 e 5 L. 8/VII/’86, n. 349, l’azione di risarcimento del danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, può essere promossa solo dallo Stato e dagli Enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo, mentre le Associazioni di cui al precedente art. 13 possono denunciare i fatti lesivi di beni ambientali, dei quali siano a conoscenza, al fine di sollecitare l’esercizio dell’azione da parte dei soggetti legittimati ed “intervenire” nei giudizi per danno ambientale.
A mente, poi, dell’art. 4 co. 3 L. 3/VIII/’99, n. 265, le Associazioni di protezione ambientale, di cui all’art. 13 L. 349/’86, possono proporre le azioni risarcitorie, di competenza del Giudice ordinario, che spettino al Comune ed alla Provincia, conseguenti a danno ambientale, ma lo eventuale risarcimento dove essere liquidato in favore dell’Ente sostituito, mentre le spese processuali sono liquidate in favore o a carico dell’Associazione.
Nella fattispecie in esame, la violazione delle norme specificate nei capi d’imputazione è idonea a ledere l’interesse protezionistico del quale la Legambiente è portatrice e, dunque, la costituzione di parte civile, da parte della stessa, venne legittimamente dichiarata ammissibile, ma essa non poteva chiedere ed ottenere la condanna degli imputati, dichiarati colpevoli dei reati loro ascritti, al risarcimento, in proprio favore, dei danni materiali e/o morali eventualmente conseguenti, mentre aveva diritto ad ottenere la rifusione delle spese processuali sostenute in giudizio (v. conf Cass. sez. III pen. 3/XII/’02, Veronese e 26/02/’01, Contento).
La condanna al risarcimento dei danni poteva essere chiesta e pronunciata solo in favore dello Stato o della Regione.
Alla luce di tutte le esposte considerazioni la decisione impugnata deve essere annullata, senza rinvio, anche nel punto della condanna del (omissis) e del (omissis) al risarcimento dei danni in favore della Legambiente della Puglia costituitasi parte civile, con rigetto – nel resto – dei ricorsi degli imputati.
La Corte ritiene che sussistano, stante la parziale reciproca soccombenza, giuste ragioni per compensare interamente, fra le parti, le spese di questo grado del giudizio.
La Corte Suprema di Cassazioneannulla senza rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Lecce – sez. dist – di Taranto – in data 10/VI/’04 nei soli punti della disposta confisca e della condanna di (omissis) e (omissis) al risarcimento dei danni in favore della Legambiente della Puglia, costituitasi parte civile, statuizioni che elimina;
rigetta, nel resto, i ricorsi proposti dal (omissis) e dal (omissis) avverso la detta sentenza;
dichiara interamente compensate, fra i ricorrenti e la Legambiente della Puglia, le spese di questo grado del giudizio.
Così deciso in Roma, il 28 Settembre 2005.
Depositata in cancelleria il 24 ottobre 2005.
