Massima

Sussiste l’abuso del processo (sub specie di abuso dello strumento impugnatorio) sanzionabile con l’art. 96, comma 3, c.p.c. in caso di proposizione del ricorso per cassazione in aperto contrasto con un orientamento consolidatissimo in ordine ad un aspetto da ritenere “basico” del processo civile (nella specie l’individuazione dei rimedi esperibile avverso le sentenze rese dal giudice di pace, ormai quasi vent’anni dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40).

Supporto alla lettura

RESPONSABILITA’ AGGRAVATA

L’art. 96 c.p.c sanziona quel comportamento illecito della parte, poi risultata soccombente nel giudizio, che dia luogo alla c.d. “lite temeraria“, cioè quel comportamento della parte che nonostante sia consapevole dell’infondatezza della sua domanda o eccezione (mala fede), la propone ugualmente, costringendo la controparte a partecipare ad un processo immotivato.

Inoltre, viene sanzionata la mancanza di quel minimo di diligenza richiesta per l’acquisizione di tale consapevolezza (colpa grave).

La legge configura in tale comportamento una responsabilità aggravata, ossia una responsabilità che si aggrava in quanto, essendo fondata su un illecito, comporta l’obbligo di risarcire tutti i danni che conseguono all’aver dovuto partecipare ad un processo privo di fondamento alcuno.

Si tratta di un istituto posto a tutela dell’interesse di una delle parti a non subire pregiudizi a seguito dell’azione o resistenza dolosa o colposa dell’altra parte.

Ambito oggettivo di applicazione

…omissis…

Fatti di causa

1. II Mutua ricorre, sulla base di un unico motivo, per la cassazione della sentenza n. 257/21, del 22 luglio 2021, del Giudice di pace di Imola, che ha accolto la domanda risarcitoria proposta dalla società XX S.c.a.r.l., condannando, per l’effetto, II Mutua al pagamento in suo favore di Euro 358,11, oltre alla refusione delle spese di lite.

2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierna ricorrente che XX ebbe a convenirla in giudizio, unitamente alla propria assicurata per la “RCA”, tale omissis, per essersi l’attrice resa cessionaria del credito risarcitorio spettante al Comune di Imola in relazione ad asseriti danni cagionati alla sede stradale di proprietà comunale, residuati all’esito di incidente che aveva visto coinvolta, il 31 gennaio 2017, anche la vettura della —.

In particolare, l’allora attrice – alla quale era stato esternalizzato, da altra società “in house providing” della Provincia di Bologna e del Comune di Imola, il servizio di ripristino, a seguito di sinistri stradali, della sicurezza della circolazione (e ciò attraverso la rimozione dei detriti solidi e liquidi e, ove occorrente, la ricostruzione delle infrastrutture danneggiate) – assumeva di aver eseguito interventi siffatti, in occasione del sinistro stradale suddetto, chiedendo alla responsabile del sinistro e al suo assicuratore, su tale presupposto, oltre che in ragione dell’avvenuta cessione in suo favore dei crediti risarcitori del Comune, il rimborso dei costi sostenuti.

Radicato il giudizio, alla prima udienza di comparizione l’attrice dichiarava di rinunciare alla domanda nei confronti della —. Istruita la causa mediante lo svolgimento di consulenza tecnica d’ufficio, la domanda veniva accolta dall’adito giudicante.

3. Avverso la sentenza del Giudice di pace imolese ha proposto ricorso per cassazione II Mutua, sulla base – come detto – di un unico motivo.

3.1. Esso denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 4), cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione dell’art. 132, comma 2, n. 4), cod. proc. civ..

Si censura la sentenza impugnata per avere integralmente condiviso l’erroneo esito della disposta CTU, “senza considerare i precisi rilievi che alla stessa erano stati mossi dal CTP di parte convenuta”, né pronunciarsi sull’istanza di revoca dell’incarico conferito all’ausiliario e di rinnovazione dell’incombente.

La decisione sarebbe, dunque, affetta da vizio motivazionale, alla luce del principio – enunciato da questa Corte – secondo cui “è meramente apparente la motivazione della sentenza in cui il giudice richiami le conclusioni raggiunte dal consulente tecnico d’ufficio senza ulteriori specificazioni, non illustrando né le ragioni né l’iter logico seguito per pervenire, partendo da esse, al risultato enunciato in sentenza”.

Tale sarebbe, appunto, il caso di specie, visto che il Giudice di pace si è limitato – testualmente – “ad affidarsi alle motivate conclusioni rassegnate dal CTU nominato in causa: considerando immanente ed ineliminabile, in ogni valutazione, un’area di discrezionalità tecnica che rende impossibile un giudizio staticamente oggettivo”.

Peraltro, la ricorrente – avendo questa Corte affermato che, qualora con il ricorso per cassazione si faccia valere un vizio di motivazione, “la parte che addebita alla consulenza tecnica d’ufficio lacune di accertamento o errori di valutazione oppure si duole di erronei apprezzamenti contenuti in essa (o nella sentenza che l’ha recepita) ha l’onere di trascrivere integralmente nel ricorso per cassazione almeno i passaggi salienti e non condivisi e di riportare, poi, il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate”, pena, altrimenti, l’inammissibilità dello stesso ex art. 366, comma 1, n. 6), cod. proc. civ. – individua tutte le censure rivolte all’espletata consulenza.

4. Ha resistito all’avversaria impugnazione, con controricorso, XX, chiedendo che la stessa sia dichiarata inammissibile o, comunque, rigettata.

5. La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ..

6. La controricorrente ha depositato memoria.

7. Non consta, invece, la presentazione di memoria scritta da parte del Procuratore Generale presso questa Corte.

Ragioni della decisione

8. Il ricorso è inammissibile.

8.1. Questa Corte, infatti, ha più volte affermato – anche al suo massimo livello nomofilattico – il principio secondo cui, dall’assetto scaturito dalla riforma di cui al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, e particolarmente dalla “disciplina delle sentenze appellabili e delle sentenze ricorribili per cassazione, emerge che, riguardo, alle sentenze pronunciate dal giudice di pace nell’ambito del limite della sua giurisdizione equitativa necessaria, l’appello a motivi limitati, previsto dal terzo comma dell’art. 339 cod. proc. civ., è l’unica impugnazione ordinaria ammessa, anche in relazione a motivi attinenti alla giurisdizione, alla violazione di norme sulla competenza ed al difetto di radicale assenza della motivazione” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 18 novembre 2008, n. 27339, Rv. 605683-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 13 marzo 2013, n. 6410, Rv. 625471-01; Cass. Sez. 6-1, ord. 17 novembre 2017, n. 27356, Rv. 646773-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 31 agosto 2020, n. 18086, Rv. 659014-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 16 novembre 2021, n. 34524, Rv. 663012-01).

Né rileva, in senso contrario, la circostanza che la sentenza impugnata non venga qualificata come resa secondo equità, visto che “in tema di sentenze dei giudici di pace in controversie di valore non superiore ai millecento Euro (limite indicato dall’art. 113, comma 2, cod. proc. civ., nel testo “ratione temporis” applicabile), la decisione della causa è solo secondo equità, essendo questo l’unico metro di giudizio adottabile dal giudice; ne consegue che le regole di equità devono ritenersi utilizzate indipendentemente dal fatto che il giudice di pace abbia invocato l’equità per la soluzione del caso singolo, oppure abbia risolto la controversia con richiamo a principi di diritto, atteso che anche in questo caso la lettura delle norme data dal giudice è compiuta in chiave equitativa e non può essere denunciata in cassazione ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c. per violazione di legge” (Cass. Sez. 3, ord. 9 luglio 2020, n. 14609, Rv. 658481-01).

9. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza, essendo pertanto poste a carico del ricorrente e liquidate come da dispositivo.

10. Ricorrono le condizioni per applicare l’art. 96, comma 3, cod. proc. civ., e dunque per la condanna della ricorrente a pagare, alla controricorrente, una somma che si reputa equo fissare in Euro 700,00.

Deve, invero, ribadirsi come lo scopo di tale norma sia quello di sanzionare una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo” (cfr., “ex multis”, Cass. Sez. Un., ord. 16 settembre 2021, n. 25041, Rv. 662248-02; Cass. Sez. 3, ord. 4 agosto 2021, n. 22208, Rv. 662202-01; Cass. Sez. Un., sent. 20 aprile 2018, n. 9912, Rv. 648130-02; Cass. Sez. 3, sent. 30 marzo 2018, n. 7901, Rv. 648311-01; Cass. Sez. 2, sent. 21 novembre 2017, n. 27623, Rv. 646080-01).

Tale ipotesi, in particolare, è stata ravvisata, quanto al giudizio di legittimità, in casi o di vera e propria “giuridica insostenibilità” del ricorso (Cass. Sez. 3, sent. 14 ottobre 2016, n. 20732, Rv. 642925-01), “non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate” con lo stesso (così, Cass. Sez. Un., sent. n. 9912 del 2018, cit.), ovvero in presenza di altre condotte processuali al pari indicative dello “sviamento del sistema giurisdizionale dai suoi fini istituzionali”, e suscettibili, come tali, di determinare “un ingiustificato aumento del contenzioso”, così ostacolando “la ragionevole durata dei processi pendenti e il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione” (Cass. Sez. 3, ord. 30 aprile 2018, n. 10327, Rv. 648432-01). Rilevano, in tale prospettiva, “la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata, o completamente privo di autosufficienza”, “oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia o, ancora, fondato sulla deduzione del vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ., ove sia applicabile, “ratione temporis”, l’art. 348-ter, comma 5, cod. proc. civ., che ne esclude l’invocabilità” (Cass. Sez. 3, ord. n. 10327 del 2018, cit.).

Nella specie, l’abuso dello strumento impugnatorio è da ravvisare nella proposizione del ricorso in aperto contrasto con un orientamento consolidatissimo in ordine ad un aspetto da ritenere “basico” del processo civile, ovvero l’individuazione dei rimedi esperibile avverso le sentenze rese dal Giudice di pace ormai quasi vent’anni dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40.

11. A carico della ricorrente, infine, stante la declaratoria di inammissibilità del ricorso, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto secondo un accertamento spettante all’amministrazione giudiziaria (Cass. Sez. Un., sent. 20 febbraio 2020, n. 4315, Rv. 657198-01), ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso, condannando II Mutua a rifondere, alla società XX S.c.a.r.l., le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 749,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge, nonché a pagarle, ex art. 96, comma 3, cod. proc. civ., l’ulteriore importo di Euro 700,00. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Allegati

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