Fatto
RILEVATO IN FATTO
1. Nel 1991 (omissis) conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Rossano, la (omissis) S.p.a. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni derivanti dall’inquinamento delle falde acquifere e dalla contaminazione delle colture di sua proprietà in seguito alla fuoriuscita di carburante dalle cisterne della stazione di servizio confinante con un suo fondo, ove era in corso di ultimazione un complesso edilizio destinato ad albergo ristorante. La convenuta, costituendosi, confermava la fuoriuscita del carburante dalle cisterne avvenuta nel 1984, ma contestava l’esistenza dei lamentati danni.
Il Tribunale di Rossano, con sentenza del 24 luglio 2006, accoglieva la domanda condannando la (omissis) al pagamento in favore del (omissis) della somma di Euro 50.000, oltre rivalutazione monetaria ed interessi, a titolo di risarcimento dei danni, nonchè alle spese di lite.
2. La Corte di Appello di Catanzaro, con sentenza del 21 gennaio 2011, accoglieva l’appello interposto da (omissis) e, in riforma dell’impugnata sentenza, rigettava la domanda risarcitoria proposta dal (omissis), condannando l’appellato alla restituzione, in favore della società appellante, delle somme già versate da quest’ultima, e compensava le spese dei due gradi di giudizio.
3. Con sentenza n. 16052 del 29/07/2015 questa Corte accoglieva il ricorso proposto dal (omissis), cassando con rinvio la decisione di merito, sul rilievo che l’esclusione del nesso eziologico tra l’esercizio dell’attività e l’evento dannoso non fosse adeguatamente motivata.
4. Pronunciando dunque in sede di rinvio la Corte d’appello di Catanzaro, con la sentenza in epigrafe, ha nuovamente accolto, seppur per ragioni diverse, il motivo d’appello con il quale (omissis) aveva censurato la sentenza di primo grado per avere ritenuto sussistenti i danni lamentati dell’attore. In riforma di tale sentenza ha quindi rigettato la domanda risarcitoria, condannando il (omissis) a restituire a controparte le somme ricevute in esecuzione della sentenza di primo grado e compensando le spese.
Pur accertando, infatti, l’esistenza di un nesso causale tra l’inquinamento della falda acquifera sottostante il terreno di proprietà dell’attore e le infiltrazioni di carburante, ha tuttavia ritenuto insussistenti i danni lamentati in conseguenza di tale evento.
5. Avverso tale decisione (omissis) propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, cui resiste (omissis) S.r.l. con unico socio (già (omissis) S.p.a.), depositando controricorso.
La controricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis c.p.c., comma 1.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione dell’art. 2697 c.c.e dell’art. 116 c.p.c..
Censura, in quanto non adeguatamente motivata, la valutazione della prova specie in relazione “ai passi delle relazioni di c.t.u. riguardanti la domanda della perdita dell’acqua potabile” e, conseguentemente, si duole del rigetto della domanda risarcitoria per difetto di prova del danno lamentato.
Lamenta, in altre parole, la mancata considerazione del danno consistente nel fatto che l’acqua è stata resa non più potabile dall’inquinamento della falda (nella quale pescava l’unico pozzo esistente e non potrebbero che attingere anche altri ipotetici pozzi che proprio per questo egli non ha detto di voler realizzare).
Rileva che dalle relazioni dei cc.tt.uu. (omissis) e (omissis) si traggono elementi che non contrastano ma anzi avvalorano tale rilievo; che ancor più se ne trae riprova delle consulenze di parte; che infine in tal senso si esprime chiaramente il secondo c.t.u., Dott. (omissis), il quale, nel 2005, a distanza di 21 anni dal fatto, conclude con certezza che l’acqua prelevata nel pozzo risulta inquinata da idrocarburi ed è inutilizzabile fino al 2025 per qualsivoglia scopo.
2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 2697 e 1226 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per avere la Corte d’appello escluso potersi ricorrere alla valutazione equitativa per la determinazione del danno.
Rileva di aver offerto tutti gli elementi a propria disposizione per la relativa commisurazione, idonei in particolare a far comprendere l’obiettiva impossibilità di proseguire nelle coltivazioni e nell’avvio dell’impresa turistico-alberghiera per difetto della potabilità dell’acqua e della utilizzabilità del terreno per altri fini. Sostiene che, su tali basi, alla determinazione del danno il giudice poteva e doveva provvedere con valutazione equitativa.
3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce “contraddittorietà, erroneità ed illogicità della motivazione con riguardo alla mancata assunzione della richiesta c.t.u. ex art. 356 c.p.c.”.
Rileva che, a fugare ogni eventuale dubbio sulla sussistenza dell’inquinamento della falda e sulla impossibilità di utilizzare l’acqua per diversi lustri e per ogni necessità di vita o commerciale, la Corte d’appello avrebbe potuto e dovuto disporre nuova c.t.u..
4. I primi due motivi di ricorso, congiuntamente esaminabili in quanto intimamente connessi, sono fondati.
Nucleo centrale della sentenza impugnata è rappresentato dal rilievo (v. pag. 10) secondo cui – posto l’accertamento di un nesso causale tra lo sversamento di carburante fuoriuscito dalla stazione di servizio della (omissis) e l’inquinamento della falda acquifera sottostante il terreno di proprietà del (omissis) (v. sentenza impugnata, pagg. 5 – 8) e data anche per processualmente acquisita la prova della inutilizzabilità dell’acqua per uso domestico e di irrigazione – tali elementi non sarebbero tuttavia valorizzabili ai fini del riconoscimento di un danno risarcibile: a) anzitutto perchè il pregiudizio derivante dalla impossibilità di utilizzare l’acqua per uso domestico e di irrigazione non è stato specificamente dedotto in domanda (essendosi l’attore limitato a richiedere il risarcimento dei danni “subiti dalle colture arboree e dal terreno medesimo, dagli impianti di irrigazione nonchè dagli impianti idrici dell’albergo e del ristorante”); b) in secondo luogo per mancanza di “prove adeguate che avrebbero dovuto essere fornite dall’attore secondo il principio generale previsto dall’art. 2697 c.c.”.
Entrambe tali affermazioni postulano l’applicazione di una regula iuris in tema di allegazione e prova del danno risarcibile non conforme ai principi in materia affermati dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte.
4.1. La prima in particolare è evidentemente ispirata ad una interpretazione formalistica degli oneri di allegazione spinta al punto da non considerare compresi nella richiesta – che pure si trascrive testualmente – di risarcimento del danno arrecato al “terreno medesimo” il pregiudizio indubitabilmente derivante dalla pur accertata impossibilità, per un lungo periodo e salvo eventuali efficaci interventi di bonifica, di qualsiasi utilizzo delle risorse idriche di cui il terreno disponeva, conseguente al dimostrato inquinamento delle stesse: ciò in palese violazione del principio di onnicomprensività del danno che impone di considerare compreso nel danno in tali termini dedotto qualsiasi pregiudizio incidente sul valore e sulle potenzialità economiche del bene della vita di cui si lamenta il danneggiamento, indipendentemente da una specifica indicazione delle stesse.
Nè è a dirsi che attraverso tale operazione qualificatoria si finirebbe con il postulare un danno in re ipsa discendente dall’inquinamento delle falde e confondere il danno evento o evento lesivo (ossia la lesione dell’interesse giuridicamente rilevante – Cass. n. 500 del 1999 – che definisce a monte l’illiceità del fatto determinativo del danno in quanto non iure e contra ius) con il danno conseguenza, distinto presupposto del credito risarcitorio, che definisce, a valle, la perdita o il mancato guadagno conseguente a quella lesione.
Il dimostrato inquinamento delle falde acquifere è infatti indubitabilmente esso stesso un danno conseguenza, comportando una grave ed evidente compromissione di una risorsa preziosa del terreno, suscettibile di valutazione economica.
4.2. Erronea in tale contesto è dunque anche la correlata esclusione del ricorso alla valutazione equitativa del danno.
E’ bensì vero che, come ricordato in sentenza, secondo pacifico insegnamento, l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, che, pertanto, presuppone che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare (v. e pluribus Cass. 30/04/2010, n. 10607; 12/10/2011 n. 20990; 23/09/2015, n. 18804; 22/02/2018, n. 4310).
Nel caso di specie tuttavia la negazione, da parte dei giudici a quibus, dei presupposti necessari perchè possa accedersi all’esercizio del potere di liquidazione equitativa è, per quanto detto, viziata dalla ingiustificata obliterazione dei dati fattuali pure in sentenza rimarcati che attestano l’esistenza di un grave inquinamento della falda acquifera discendente dal riversamento di ben 31.000 litri di benzina, attraverso una lenta fuoriuscita dalla cisterna della contigua stazione di servizio Esso, prolungatasi per molto tempo.
Una tale condizione del terreno costituisce indubbiamente, di per sè, un pregiudizio derivante dalla impossibilità di fruire in alcun modo della preziosa risorsa idrica presente sul terreno, essa stessa di indubbio rilievo economico in astratto apprezzabile sotto diversi aspetti (deprezzamento commerciale del terreno, potenziali sfruttamenti imprenditoriali), ma in concreto di assai difficile dimostrazione nel suo preciso ammontare, di guisa che alla sua quantificazione non può che pervenirsi secondo valutazione equitativa, da riservarsi ovviamente al giudice del merito, che potrà a tal fine far leva su vari parametri, cumulativi o alternativi, quali: la gravità e la prevedibile durata nel tempo dell’inquinamento; le spese necessarie per un eventuale intervento di bonifica ove ritenuto possibile e pienamente risolutivo; la grandezza della falda e la quantità di acqua che essa avrebbe potuto fornire; la differenza tra il valore commerciale del terreno prima dell’inquinamento e quello stimabile successivamente ad esso.
5. In accoglimento del primo e del secondo motivo di ricorso, assorbito il terzo, la sentenza impugnata va pertanto cassata, con rinvio al giudice a quo, al quale va anche demandato il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso; dichiara assorbito il terzo; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti; rinvia alla Corte d’appello di Catanzaro in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 11 luglio 2018.
Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2018