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Cassazione civile sez. III, 24/07/2023, n.22199

Massima

L’ordinanza con cui il presidente del tribunale, decidendo sull’istanza di ricusazione di un arbitro, provveda sulle spese processuali, è impugnabile per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., trattandosi di statuizione incidente sul corrispondente diritto patrimoniale con efficacia di giudicato e non essendo previsto altro mezzo di impugnazione. (Nella specie, la S.C. ha affermato che l’ordinanza con cui, nel rigettare l’istanza di ricusazione degli arbitri, il giudice aveva liquidato le spese di lite in favore di questi ultimi invece che della parte vittoriosa, non determinando la nullità o inesistenza del titolo esecutivo, non fosse suscettibile di opposizione all’esecuzione, dovendo essere impugnata con ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost.).

Supporto alla lettura

RICUSAZIONE

La ricusazione è un meccanismo attraverso il quale una delle parti coinvolte in un processo può chiedere che il giudice al quale è affidato il processo venga sostituito da un altro giudice; può essere richiesta quando ci sia fondato motivo di dubitare dell’imparzialità del giudice. La legge stabilisce quali sono gli esatti motivi per cui si può chiedere la ricusazione nei processi penali, civili ed amministrativi, inoltre definisce anche le diverse modalità per richiedere la ricusazione del giudice.

La ricusazione può essere richiesta nelle ipotesi indicate dall’art. 51 c.p.c., ove il giudice avrebbe obbligo di astenersi e non vi provvede, ovvero:

  • se ha interesse nella causa o in altra vertente su identica questione di diritto;
  • se egli stesso o la moglie è parente fino al quarto grado o legato da vincoli di affiliazione, o è convivente o commensale abituale di una delle parti o di alcuno dei difensori;
  • se egli stesso o la moglie ha causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito con una delle parti o alcuno dei suoi difensori;
  • se ha dato consiglio o prestato patrocinio nella causa, o ha deposto in essa come testimone, oppure ne ha conosciuto come magistrato in altro grado del processo o come arbitro o vi ha prestato assistenza come consulente tecnico;
  • se è tutore, curatore, amministratore di sostegno, procuratore, agente o da- tore di lavoro di una delle parti; se, inoltre, è amministratore o gerente di un ente, di un’associazione anche non riconosciuta, di un comitato, di una società o stabilimento che ha interesse nella causa.

In ogni altro caso in cui esistono gravi ragioni di convenienza, il giudice può richiedere al capo dell’ufficio l’autorizzazione ad astenersi; quando l’astensione riguarda il capo dell’ufficio, l’autorizzazione è chiesta al capo dell’ufficio superiore.

La ricusazione del giudice si propone mediante ricorso, contenente i motivi specifici e i mezzi di prova. Il ricorso, sottoscritto dalla parte o dal difensore, deve essere depositato in cancelleria 2 giorni prima dell’udienza, se il ricusante conosce il nome dei giudici che sono chiamati a trattare o decidere la causa, e prima dell’inizio della trattazione o discussione della causa nel caso contrario.

Il provvedimento con cui il giudice decide sulla ricusazione assume la forma dell’ordinanza e, se l’accoglie, deve contenere l’indicazione nominale del giudice che sostituisce il ricusato. L’art. 54 c.p.c. impone alla cancelleria l’obbligo di dare notizia dell’ordinanza che decide sulla ricusazione al giudice ed alle parti, e ciò per porre queste ultime nella condizione di provvedere alla riassunzione della causa entro il termine di 6 mesi.

Come stabilito dall’art. 61, c. 2, c.p.c., il giudice può farsi assistere da un consulente tecnico d’ufficio (CTU) considerato ausiliario consulente del giudice, quando vengono formulate domande di natura tecnica. In tal caso il giudice è obbligato a nominare come CTU un professionista iscritto all’albo del tribunale. Se il CTU accetta l’incarico deve prestare giuramento in un’apposita udienza.

Ricevuta la nomina, il consulente può rifiutarsi o astenersi. Secondo quanto disposto dall’art. 89 disp. att. c.p.c., l’istanza di astensione va proposta con ricorso, e dunque in forma scritta; tuttavia, si ritiene anche consentita una sua proposizione in forma orale, potendo essere raccolta in un processo verbale redatto dal cancelliere del giudice competente.

Altro strumento per mezzo del quale si intende garantire l’imparzialità del CTU è la possibilità, riconosciuta a ciascuna delle parti, di sollevare istanza di ricusazione.

Per quanto concerne i possibili motivi di ricusazione, occorre richiamare la norma che disciplina i casi di astensione del giudice, ossia l’art. 51 del c.p.c..

L’istanza di ricusazione deve essere depositata presso la cancelleria del giudice che ha provveduto alla nomina, almeno tre giorni prima dell’udienza fissata per la comparizione del CTU. In caso di mancata proposizione dell’istanza di ricusazione del consulente tecnico d’ufficio entro il termine previsto dall’art. 192, deve intendersi preclusa definitivamente la possibilità di far valere in un momento successivo la situazione di incompatibilità, con la conseguenza che la consulenza rimarrà ritualmente acquisita agli atti del processo.

Ambito oggettivo di applicazione

Fatto
FATTI DI CAUSA

Con ordinanza ex art. 815 c.p.c. del 22.3.2014, il Presidente del Tribunale di Roma rigettò l’istanza di ricusazione proposta da Roma Gas & Power s.p.a. nei confronti degli avv.ti B.P. e I.M., nominati arbitri in un procedimento tra la predetta società e la Natuna s.p.a., condannando con il medesimo provvedimento la ricusante al pagamento delle relative spese nei confronti degli stessi arbitri, liquidate in Euro 4.012,08. Questi ultimi intimarono quindi precetto per il relativo pagamento, che venne opposto dalla società con atto del 18.6.2014; nel contraddittorio con gli intimanti, il Tribunale di Roma rigettò l’opposizione con sentenza n. 11885/2017, escludendo la dedotta abnormità dell’ordinanza, che avrebbe dovuto eventualmente essere oggetto di ricorso per cassazione, ex art. 111 Cost., e al contempo negando che gli arbitri avessero rinunciato al proprio credito per facta concludentia. La Corte d’appello di Roma rigettò il gravame proposto dalla società con sentenza del 23.4.2021, confermando l’impugnata decisione e condannando l’appellante anche ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, in favore dei predetti professionisti.

Avverso detta sentenza, Energy Green City s.p.a. (già Roma Gas & Power s.p.a.) propone ora ricorso per cassazione, affidandosi a tre motivi, cui resistono con unico controricorso B.P. e I.M.; le parti hanno depositato rispettive memorie. Ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c., comma 2, il Collegio ha riservato il deposito dell’ordinanza nei sessanta giorni successivi all’odierna adunanza camerale.

1.1 – Con il primo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 815 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver la Corte d’appello tenuto conto della dedotta nullità del titolo esecutivo di cui si è minacciata l’esecuzione, giacché le spese del subprocedimento di ricusazione sono state liquidate in favore di soggetti – gli arbitri ricusati – che non erano parti dello stesso subprocedimento.

1.2 – Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 99,100,101 e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver la Corte d’appello ritenuto non abnorme il provvedimento di liquidazione delle spese in favore degli arbitri, benché viziato nel merito, in quanto emesso anche in assenza di domanda da parte degli stessi. Secondo la ricorrente, si tratta di un provvedimento affetto da inesistenza giuridica o nullità radicale, da far valere in ogni tempo con azione di accertamento negativo.

1.3 – Con il terzo motivo, infine, si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 96 e 339 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver la Corte d’appello ritenuto che la mera riproposizione di tesi già disattese in primo grado potesse giustificare la condanna per lite temeraria.

2.1 – I primi due motivi, da esaminarsi congiuntamente perché connessi, sono infondati.

Invero, la pretesa nullità e/o inesistenza dell’ordinanza presidenziale con cui vennero liquidate le spese in favore degli arbitri non può inficiare – al lume delle vicende processuali del giudizio a quo, e dei suoi incidenti – il diritto degli intimanti di procedere alla minacciata esecuzione forzata.

Il titolo esecutivo su cui si fonda quest’ultima costituisce certamente un provvedimento non conforme a diritto, perché, in caso di rigetto dell’istanza di ricusazione da parte del presidente del tribunale, ai sensi dell’art. 815 c.p.c., comma 4, le spese del relativo subprocedimento non possono certamente essere liquidate in favore dell’arbitro ricusato – che neppure è abilitato a costituirsi in proprio e a difendersi alla stessa stregua della parte (v. Cass. n. 20615/2017, in motivazione, ove ampi riferimenti) -, ma semmai della controparte vittoriosa sul punto. Un simile provvedimento, però, non può dirsi abnorme, perché l’errore concerne il suo contenuto e non la stessa astratta possibilità di provvedere: e ciò in quanto (si veda, per tutte, Cass. n. 22334/2020) “l’azione di accertamento della nullità del provvedimento giurisdizionale esperibile in ogni tempo, è limitata ai soli casi eccezionali riconducibili al concetto di abnormità o inesistenza giuridica, nei quali faccia difetto alcuno dei requisiti essenziali del provvedimento e non si estende alle ipotesi in cui ricorrano vizi attinenti al suo contenuto, poiché la mera deviazione dal corretto esercizio del potere non determina l’inesistenza dell’atto, ma un vizio dello stesso che legittima l’impugnazione nelle forme consentite dalla legge”.

Di conseguenza, i vizi prospettati dalla ricorrente, sotto ogni profilo, non possono comportare la nullità e/o inesistenza del titolo esecutivo di cui si è minacciata l’esecuzione (ossia, appunto, l’ordinanza con cui il presidente del tribunale provvede sulle spese, ex art. 815 c.p.c., comma 4) e quindi un vizio suscettibile di essere fatto valere direttamente e per la prima volta in sede di opposizione ad esecuzione anche solo minacciata, ma avrebbero dovuto farsi valere nella competente sede processuale di impugnazione del titolo esecutivo giudiziale (per giurisprudenza fermissima di legittimità: su cui, per tutte, v. Cass., Sez. Un., n. 19889/2019), quale certamente è la – benché illegittima, per quanto visto – ordinanza di condanna al pagamento delle spese in favore del ricusato arbitro. Tale mezzo di impugnazione, del resto, è stato già individuato, in fattispecie del tutto sovrapponibile alla presente, nel ricorso straordinario per cassazione, ex art. 111 Cost., comma 7, “trattandosi di statuizione incidente sul corrispondente diritto patrimoniale con efficacia di giudicato, non essendo previsto altro mezzo di impugnazione” (così, Cass. n. 23638/2011; conf. Cass. n. 15607/2014).

3.1 – Il terzo motivo è invece fondato.

In via dirimente, va infatti osservato che la reiterazione di argomenti disattesi nei precedenti gradi di giudizio non comporta automaticamente una indefettibile valutazione circa la temerarietà della lite, occorrendo a tal fine che un simile comportamento processuale implichi la totale ingiustificabilità della condotta, ossia l’assenza di normale prudenza (si veda, al riguardo, la recentissima Cass. n. 15445/2023, parr. 3.2 ss.); il che, nella specie, è da escludere, quanto meno per l’evidente erroneità del provvedimento azionato, sebbene non contrastata nella competente sua sede processuale.

4.1 – In definitiva, il primo e il secondo motivo sono rigettati, mentre il terzo è accolto. La sentenza impugnata è dunque cassata in relazione e, non occorrendo ulteriori accertamenti di fatto, può essere decisa nel merito, ex art. 384 c.p.c., comma 2, col rigetto della domanda per lite temeraria, formulata da B.P. e I.M., perché infondata.

Le spese del giudizio d’appello vanno qui riliquidate in conseguenza della parziale cassazione della relativa sentenza, ma non possono che seguire la soccombenza e si liquidano come in dispositivo; quelle del giudizio di legittimità vanno compensate per due terzi, in ragione della parziale reciproca soccombenza, mentre nel resto seguono quella prevalente dei controricorrenti e, in tale proporzione, si liquidano in dispositivo a carico di quelli in solido, per l’evidente identità di posizione processuale.

P.Q.M.

la Corte rigetta i primi due motivi del ricorso e accoglie il terzo. Cassa in relazione e, decidendo nel merito, rigetta la domanda ex art. 96 c.p.c., comma 3, proposta da B.P. e I.M.. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio d’appello, liquidate in Euro 2.775,00 per compensi, oltre rimborso forfetario delle spese generali in misura del 15%, nonché accessori di legge; compensa per due terzi le spese del giudizio di legittimità, condannando i controricorrenti, tra loro in solido, al pagamento del rimanente terzo, liquidato in Euro 700,00 per compensi, oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali in misura del 15%, nonché accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il 18 maggio 2023.

Depositato in Cancelleria il 24 luglio 2023

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