Fatto
RITENUTO CHE
1. – I signori Ma.Al., Va.Ro., Ma.Pa., da un lato, e Ma.Gi. ed Po.Es., dall’altro, hanno stipulato un accordo, in data 18.7.2007, finalizzato alla divisione di alcuni beni immobili e di alcune società che le parti avevano in comune tra loro: l’accordo prevedeva l’assegnazione reciproca degli immobili e l’assegnazione delle quote sociali o alle parti o a persone da nominare.
All’accordo è stato apposto il termine del 31.12.2007 per la sua esecuzione.
1.1. – Dopo la sua approvazione, Ma.Gi. ha rinunciato ad un’azione giudiziaria pendente, da lui intrapresa per rivendicare parte di quel patrimonio.
Ma lo stesso Ma.Gi. ha in seguito comunicato al notaio che avrebbe dovuto predisporre gli atti pubblici di trasferimento e che quell’accordo non poteva essere eseguito a causa dei dissidi e delle difficoltà pratiche insorte, ed ha dunque ripreso la causa che aveva interrotto in precedenza.
2. – Le controparti, a quel punto, hanno agito in giudizio per far accertare che Ma.Gi., e con lui la moglie Po.Es., erano inadempienti all’accordo (definito “convenzione”) del 18.7.2007 e per farli condannare altresì al risarcimento dei danni.
3. – In quel giudizio si sono costituiti sia il Ma.Al. che la moglie, Po.Es. Quest’ultima ha eccepito la falsità della sottoscrizione apposta alla “convenzione” ed a lei attribuita: ne è sorto un procedimento incidentale per la querela di falso.
In primo grado, il Tribunale ha rigettato la querela di falso sul presupposto che la firma risultava apposta, sì, dal marito, ma su indicazione della moglie, mentre la Corte d’appello ha dichiarato la falsità della firma apposta.
4. – Il procedimento è dunque ripreso nel merito, ed il Tribunale di Milano ha rigettato la domanda con l’argomento che la convenzione era solamente un accordo di massima, il cui effetto era soltanto di impegnare le parti a stipulare l’atto successivo tramite alcuni adempimenti.
5.- Questa decisione è stata confermata dalla Corte d’appello di Milano la quale, nell’ampia e motivata decisione, ha messo in evidenza, fra l’altro, che: 1) la citata Convenzione aveva natura di atto d’intesa di massima, che richiedeva, per il perfezionamento, una serie di ulteriori accordi attuativi (per cui non era fonte di responsabilità contrattuale, tanto più che la firma di Po.Es. era stata ritenuta falsa); 2) che non c’era alcuna prova di un comportamento ostativo da parte di Ma.Gi. e di Po.Es., dato che la domanda si fondava su fatti indicati in modo generico e poco significativi (mancava la prova del nesso di causalità tra i comportamenti e il danno, anche perché le prove orali erano generiche e valutative e, quindi, inammissibili).
6. Contro la sentenza della Corte d’appello di Milano ricorrono Ma.Al., Va.Ro. e Ma.Pa. con unico atto affidato a tre motivi.
Resistono Ma.Gi. ed Po.Es. con controricorso. Le parti hanno depositato memorie.
Diritto
CONSIDERATO CHE
6.- La ratio della decisione impugnata.
I giudici di appello hanno ritenuto, conformemente al giudice di primo grado, che la cosiddetta convenzione era nient’altro che un accordo di massima, da cui non derivava l’effetto tipico della divisione; che comunque non era dimostrato che l’accordo finale non si fosse concluso per colpa dei convenuti, essendo emerso che la mancata definizione dei rapporti tra le parti era stata causata da difficoltà oggettive e contrasti sulla regolamentazione da adottare; che, infine, poiché la sottoscrizione della Po.Es. doveva dirsi falsa, o meglio era stata dichiarata tale, il contratto non poteva impegnare quest’ultima.
Il che coincideva con quanto accertato dal giudice di primo grado.
7.- I motivi di ricorso.
La ratio suindicata è contestata con tre motivi di ricorso.
Con il primo motivo si prospetta una violazione degli articoli 1362 c.c. e ss.
I giudici di appello hanno negato, come si è accennato, che l’accordo fatto qui valere possa costituire un regolamento definitivo tra le parti, presentandosi piuttosto come un “accordo di massima”, e ciò in quanto i beni per i quali le parti dispongono la divisione non sono descritti sufficientemente, ma sono solo indicati quali beni immobili, senza alcun riferimento catastale o ad altro indice di identificazione; inoltre il regolamento delle partecipazioni societarie viene previsto come a favore di persone da nominare che però erano rimaste tali. Rimanevano dunque elementi essenziali demandati ad un futuro accordo.
La tesi dei ricorrenti è che i giudici di merito avrebbero violato i canoni ermeneutici che impongono di tener conto del comportamento delle parti, del tenore letterale del testo e di altre circostanze, che invece, se considerati, avrebbero consentito di intendere l’accordo per ciò che effettivamente era.
In particolare, si evidenzia che all’accordo era stato apposto un termine, il che era indice del suo effetto definitivo; che le parti si erano comportate come se quel regolamento di interessi fosse effettivamente definitivo, riscuotendo i canoni, secondo quanto pattuito, ed avevano altresì dato incarico al notaio di definire gli atti pubblici di trasferimento immobiliare.
La circostanza, peraltro, che il giudice di appello non abbia tenuto conto della riscossione dei canoni è denunciata altresì sotto il profilo dell’errore di fatto, e dunque per violazione dell’art. 115 c.p.c.
Il motivo è infondato.
La questione qui posta è quella di stabilire se l’accordo invocato dai ricorrenti sia un regolamento definitivo tra le parti oppure se, come ritenuto dai giudici di merito, un atto preparatorio.
Il suo contenuto non è richiamato dai ricorrenti, e tuttavia l’atto è allegato insieme al fascicolo di primo grado e se ne può dunque attingere.
È principio di diritto che “ai fini della configurabilità di un definitivo vincolo contrattuale è necessario che tra le parti sia raggiunta l’intesa su tutti gli elementi dell’accordo, non potendosene ravvisare pertanto la sussistenza là dove, raggiunta l’intesa solamente su quelli essenziali ed ancorché riportati in apposito documento (Cosiddetto “minuta” o “puntuazione”), risulti rimessa ad un tempo successivo la determinazione degli elementi accessori. Peraltro, anche in presenza del completo ordinamento di un determinato assetto negoziale, può risultare integrato un atto meramente preparatorio di un futuro contratto, come tale non vincolante tra le parti, in difetto dell’attuale effettiva volontà delle medesime di considerare concluso il contratto il cui accertamento, nel rispetto dei canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 e segg. cod. civ., è rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in cassazione ove sorretta da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici ” (Cass. 910/ 2005; Cass. 20701/ 2007).
I giudici di merito hanno accertato che la volontà delle parti non era di concordare su tutti gli elementi necessari del contratto, ma solo su alcuni di essi, rimettendo al futuro la definizione dell’accordo, e tale accertamento è ampiamente motivato.
Ad ogni modo, risulta dal tenore letterale, e dall’intero contenuto, che l’accordo contiene la previsione che alcuni beni immobili siano assegnati ad una parte a ed altri all’altra, ma, nello stesso tempo, si prevede che occorre andare dal notaio per farlo, e gli immobili sono indicati solo genericamente: si stabilisce infatti che le spese delle compravendite devono stabilirsi entro un certo tempo; inoltre i trasferimenti societari sono fatti a favore di una delle parti o di persona da nominare. Con la conseguenza che né i “trasferimenti “di immobili né quelli delle società possono dirsi immediati, ossia immediatamente efficaci, in quanto per alcuni è prevista la stipula successiva di atti di compravendita, e per gli altri la scelta, successiva, se attribuirli alle parti o a persona da nominare.
È evidente, dunque, che l’accordo in questione – come ha puntualmente osservato la Corte d’appello – non costituisce la regolamentazione finale del rapporto, ma ne è solo una regolamentazione provvisoria: si tratta di un accordo preparatorio con il quale le parti hanno raggiunto l’intesa su alcuni aspetti soltanto del definitivo rapporto, con la conseguenza che le trattative possono proseguire (ed è previsto che proseguano) sulle rimanenti parti dell’accordo. Lo dimostra il fatto che le parti stesse rimandano al futuro (entro un termine dato) di dare incarico al notaio e di individuare la persona da nominare cui attribuire le quote.
In altri termini, l’accordo in questione non ha alcunché della divisione di una comunione e non è idoneo a produrre l’effetto di quest’ultima; la stessa volontà delle parti è di definire meglio gli aspetti più importanti di essa in seguito.
Si tratta, cioè, di una intesa su alcuni punti del contratto (di divisione) non ancora concluso, ed in quanto tale essa non impegna le parti, essendo subordinata all’esito positivo delle successive trattative e dunque alla stipula del contratto finale: le parti, in una intesa del genere, ben possono ritornare sui loro passi fino a che il contratto non venga concluso (salva la responsabilità precontrattuale, che qui non è in discussione).
E ciò segna la differenza tra questo tipo di intese ed i contratti normativi che invece si pongono come fonte del futuro contratto. Con la conseguenza ulteriore che non può esservi inadempimento rispetto ad una intesa del genere, non essendo la medesima produttiva di obbligazioni determinate.
8. – Con il secondo motivo si prospetta violazione degli articoli 1324 e ss. c.c. e 115 e ss. c.p.c.
Si contesta la tesi dei giudici di merito secondo cui, anche ammesso che siano sorte obbligazioni, non sarebbe provato l’inadempimento di esse da parte dei convenuti.
Secondo i ricorrenti vi sarebbe contraddizione tra il negare l’efficacia obbligatoria dell’intesa ed escludere la prova sull’inadempimento e si afferma che comunque la prova è stata fornita, tanto più che era stata altresì richiesta prova testimoniale al riguardo.
Il motivo è infondato.
Innanzitutto, non vi è contraddizione tra negare l’efficacia vincolante dell’intesa e ritenere, in subordine, ossia nel caso diverso in cui si volesse ravvisarla, che non c’è stata prova dell’inadempimento. Perché l’una ipotesi è subordinata all’altra. Inoltre, i giudici di merito hanno ritenuto non solo non provata ma altresì non allegata la condotta di inadempimento, cioè hanno ritenuto che non era chiaro quali fossero i comportamenti che, tenuti dai convenuti, avevano costituito inadempimento della intesa.
E tale carenza rimane: neanche nel ricorso è chiarito quale atto specifico avrebbe costituito inadempimento rilevante, che ha impedito l’effetto finale del contratto.
A ciò è da imputarsi, del resto, la mancata ammissione delle prove. Ciò si dice, ovviamente, in subordine rispetto a quanto detto in precedenza: che essendo l’intesa relativa ad alcuni aspetti del contratto (cosa attribuire alle parti, come fare per attribuirlo) essa non vincolava le parti, ma costituiva un preliminare punto fermo sulle trattative in corso, essendo necessaria attività ulteriore per la definizione dei rapporti.
9. – Il terzo motivo prospetta violazione degli articoli 1387 e ss. c.c. e 115 e ss. C.p.c.
La tesi è che Ma.Gi., avendo sottoscritto per conto della moglie, avrebbe tenuto un comportamento illecito. Il motivo è una mera asserzione di questa illiceità: non è chiaro cosa censuri.
Intanto, non è detto che la sottoscrizione sia illecita, se, come ritengono i ricorrenti, è stata autorizzata, ma poi non è chiaro quale sia il rilievo di essa: anche ad ammettere che sia illecita, resta fermo, proprio per quello, che il contratto non vincola Po.Es. che non ha sottoscritto, e se non la vincola non è una divisione, la quale è contratto plurilaterale necessario, ossia vede come parti necessarie tutti i comunisti: diversamente è un altro e diverso contratto.
10. Il ricorso, pertanto va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali, liquidate nella misura di Euro 10.000,00, oltre 200,00 Euro di esborsi, oltre spese generali ed accessori.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 2 aprile 2024.
Depositato in Cancelleria il 24 aprile 2024.