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Cassazione civile sez. III, 22/11/2017, n. 6724

Massima

Integra l’elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 cod. pen.) il compimento di più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, senza che sia necessario che essi vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo, invece, sufficiente la loro ripetizione, anche se in un limitato contesto temporale, e non rilevando, data la natura abituale del reato, che durante lo stesso siano riscontrabili nella condotta dell’agente periodi di normalità e di accordo con il soggetto passivo. (Fattispecie in cui la condotta contestata, consistita nell’ingiuriare, minacciare ed aggredire fisicamente la vittima, tenendo, altresì, atteggiamenti palesemente denigratori nei suoi confronti era stata attuata nel corso di tre mesi di convivenza frammezzata da periodi di quiete).

Supporto alla lettura

Ambito oggettivo di applicazione

RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 9/1/2017, la Corte di appello di Ancona confermava la pronuncia emessa il 4/4/2016 dal locale Tribunale, con la quale (omissis) era stato giudicato colpevole dei delitti di cui all’art. 81 cpv. c.p., art. 61 c.p., n. 2, artt. 572, 582, 585 e 609 – bis c.p. e condannato alla pena di dieci anni di reclusione; allo stesso era contestato di aver maltrattato la convivente, nei termini e con le modalità diffusamente riportate in rubrica, nonchè di aver costretto la stessa – in due occasioni e con l’uso di un’arma – a subire gli atti sessuali meglio specificati nel capo b).

2. Propone ricorso per cassazione il (omissis), a mezzo del proprio difensore, deducendo – con distinto motivo – la violazione degli articoli di legge contestati, in uno con il vizio motivazionale. La Corte di appello avrebbe confermato la condanna, quanto al delitto di maltrattamenti, senza alcuna prova in ordine all’abitualità ed alla frequenza della condotta; nel breve periodo preso in esame, infatti, al più vi potrebbero esser stati sporadici litigi, peraltro frammezzati da periodi di tranquillità nella coppia, sì da non potersi integrare il delitto di cui all’art. 572 c.p.. La responsabilità del ricorrente, peraltro, sarebbe stata affermata in forza delle sole parole della donna, prive di riscontri, ed in ragione di una “situazione da lei artatamente creata nel tempo”.

Si chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. Il ricorso risulta manifestamente infondato.

Al riguardo, occorre innanzitutto ribadire che il controllo del Giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico – argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella, n. 12110, Rv. 243247). Si richiama, sul punto, il costante indirizzo di questa Corte in forza del quale l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), è soltanto quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi; ciò in quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074).

In altri termini, il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene alla ricostruzione dei fatti nè all’apprezzamento del Giudice di merito, ma è limitato alla verifica della rispondenza dell’atto impugnato a due requisiti, che lo rendono insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento. (Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Badagliacca e altri, Rv. 255542; Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 4/1/2012, Siciliano, Rv, 251760).

4. In tal modo individuato il perimetro di giudizio proprio della Suprema Corte, osserva allora il Collegio che le censure mosse dal ricorrente al provvedimento impugnato si evidenziano come inammissibili; ed invero, dietro la parvenza di una violazione di legge o di un vizio motivazionale, peraltro solo genericamente dedotti, lo stesso tende ad ottenere in questa sede una nuova e diversa valutazione delle stesse emergenze istruttorie – testimoniali e documentali – già esaminate dai Giudici del merito.

Il che, come riportato, non è consentito.

5. A ciò si aggiunga che la Corte di appello – anche con richiamo alla prima pronuncia, alla quale si lega in un continuum argomentativo, attesa la cd. doppia conforme – ha congruamente ribadito la responsabilità del (omissis) in ordine ad entrambi i reati ascrittigli, evidenziando plurimi, oggettivi e logici elementi istruttori a sostegno della rubrica, che il ricorso tenta invano di scardinare, con considerazioni del tutto generiche.

6. In particolare, le sentenze hanno in primo luogo evidenziato i caratteri propri della deposizione della persona offesa, sottolineandone la linearità, precisione, puntualità e coerenza, oltre che l’assenza di qualsivoglia elemento anche solo per ipotizzare un’accusa calunniosa; quanto precede, peraltro, con riguardo a tutte le fattispecie contestate, e con particolare riferimento ai due episodi di violenza sessuale (settembre e novembre 2015) ed ai maltrattamenti ai quali la donna era stata sottoposta dal ricorrente, peraltro recidivo specifico. Ancora sul punto, poi, già il primo Giudice aveva richiamato l’esitazione e la ritrosia mostrate dalla donna nei passaggi più intimi e dolorosi della vicenda, a sostegno ulteriore della sua attendibilità, così come le giustificazioni dalla stessa offerte circa il silenzio serbato al riguardo anche verso i propri familiari. In tal modo, dunque, la sentenza ha fatto buon governo del principio – costantemente affermato da questa Corte e qui da ribadire – in forza del quale le dichiarazioni della persona offesa possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, sì che non operano le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, che richiedono la presenza di riscontri esterni che confermino l’attendibilità delle parole medesime; tutto ciò, però, impone la verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. U, n. 41461 del 19/7/2012, Bell’Arte, Rv. 253214; successivamente, tra le altre, Sez. 2, n. 43278 del 24/9/2015, Manzini, Rv. 265104).

Questo principio, che trova applicazione sia in sede di merito che in quella cautelare (tra le altre, Sez. 5, n. 5609 del 20/12/2013, dep. 4/2/2013, Puente Suarez, Rv. 258870; Sez. 5, n. 27774 del 26/4/2010, M., Rv. 247883), non costituisce affatto l’affermazione di una presunzione di credibilità della persona offesa, ma, anzi, impone al Giudice di merito un severo e rigoroso vaglio della sua deposizione, da tradurre adeguatamente in motivazione, reso necessario alla luce dell’interesse di cui la stessa è naturalmente portatrice, specie se costituita parte civile, ed al fine di escludere che ciò possa comportare una qualsiasi interferenza sulla genuinità delle sue parole (Sez. 3, n. 40849 del 18/7/2012, Rv. 253688; Sez. 1, n. 29372 del 24/6/2010, Stefanini, Rv. 248016).

Vaglio di certo compiuto nel caso di specie, come da argomenti appena esposti.

7. Non solo. Entrambe le pronunce di merito, superata positivamente la verifica di attendibilità della persona offesa, hanno poi riscontrato la presenza nel compendio istruttorio – di plurimi elementi a conferma delle dichiarazioni rese dalla stessa, di indubbia valenza probatoria e del tutto trascurati nel presente ricorso: in particolare, sono state richiamate numerose testimonianze (rese da soggetti che avevano notato la presenza di lividi sul corpo della donna, così come quella del ricorrente sul luogo di lavoro dell’altra, al pari di uno stato emotivo palesemente alterato in seguito all’instaurarsi della relazione, oppure ancora avevano da questa ricevuto confidenze sulle gravi condotte dell’imputato) e prove documentali (messaggi sms, lettere, certificati medici), tutte congruamente interpretate come evidenti conferme della volontà – in capo al (omissis) – di improntare il rapporto con la persona offesa ad umiliazione, mortificazione e violenza.

8. Con particolare riguardo, poi, proprio alla fattispecie di cui all’art. 572 c.p., le sentenze hanno evidenziato come tali comportamenti – “botte, ingiurie, minacce”, in uno con atteggiamenti palesemente denigratori – avessero rivestito carattere abituale, “un vero e proprio sistema di vita di relazione abitualmente dolorosa ed avvilente”, ed avessero determinato nella vittima uno stato di persistente sofferenza morale. E senza che rilevi, in tal senso, il breve lasso temporale nel quale la relazione tra i due si era sviluppata, pari a circa tre mesi, atteso che – per costante indirizzo di questa Corte – integra l’elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia il compimento di più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, senza che sia necessario che essi vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo, invece, sufficiente la loro ripetizione, anche se in un limitato contesto cronologico (per tutte, Sez. 6, n. 25183 del 19/6/2012, R., Rv. 253041). Del pari, quanto ai periodi di quiete che vi potrebbero esser stati tra i due, quel che il ricorrente meramente ipotizza, si osserva che anche l’eventuale verificarsi di questi risulterebbe irrilevante per la configurazione del reato in oggetto; ed invero, deve qui ribadirsi il condiviso principio secondo cui l’elemento psichico del reato in questione si concretizza in habitus vitae unitario ed uniforme, che deve evidenziare nell’agente una grave intenzione di avvilire e sopraffare la vittima e deve ricondurre ad unità i veri episodi di aggressione alla sfera morale e materiale di quest’ultima, pur non rilevando, data la natura abituale del reato, che durante il lasso di tempo considerato siano riscontrabili nella condotta dell’agente periodi di normalità e di accordo con il soggetto passivo (tra le altre, Sez. 6, n. 37019 del 27/5/2003, Caruso, Rv. 226794; Sez. 6, n. 8510 del 26/6/1996, Rv. 205901).

9. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento nonchè quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00. Segue la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile costituita, che si liquidano in complessivi tremila/00 euro, oltre spese generali ed accessori di legge, con distrazione in favore dello Stato.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende, nonchè alla rifusione delle spese del grado in favore della parte civile (omissis), che liquida in complessivi Euro tremila/00, oltre spese generali ed accessori di legge, con distrazione in favore dello Stato.Dispone, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 96, art. 52, che – a tutela dei diritti o della dignità degli interessati – sia apposta a cura della cancelleria, sull’originale della sentenza, un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi degli interessati riportati sulla sentenza.

Così deciso in Roma, il 22 novembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2018

Allegati

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