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Cassazione civile sez. III, 22/03/2024, n. 7897

Massima

La sentenza pronunziata in sede di gravame è legittimamente motivata “per relationem” ove il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, sì da consentire, attraverso la parte motiva di entrambe le sentenze, di ricavare un percorso argomentativo adeguato e corretto, ovvero purché il rinvio sia operato sì da rendere possibile ed agevole il controllo, dando conto delle argomentazioni delle parti e della loro identità con quelle esaminate nella pronuncia impugnata, mentre va cassata la decisione con cui il giudice si sia limitato ad aderire alla decisione di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame.

Supporto alla lettura

APPELLO

L’appello è un mezzo di impugnazione previsto dall’ordinamento processuale civilistico italiano. Disciplinato dagli artt. 339 e ss. c.p.c., costituisce il più ampio mezzo di impugnazione, poichè è riservato alla parte per il solo fatto di essere rimasta soccombente. La soccombenza è un elemento indefettibile che integra l’interesse a impugnare, infatti soccombente è colui che ha ottenuto una tutela inferiore a quella richiesta. Per rilevare la soccombenza bisogna quindi confrontare due elementi:

  • ciò che la parte ha chiesto durante l’udienza di precisazione delle conclusioni;
  • ciò che le ha dato la sentenza.

 

Se la tutela ricevuta è equivalente non vi è soccombenza e quindi neanche legittimazione a proporre l’impugnazione.

Quindi, con questo mezzo di impugnazione è possibile dolersi sia di vizi in senso specifico che inficiano la sentenza di primo grado (cd. “errores in judicando” “errores in procedendo”), sia di vizi in senso lato, che attengono alla mera ingiustizia del provvedimento emesso in primo grado. Per queste ragioni l’appello viene definito un mezzo di impugnazione a critica libera.

Con l’appello si ha un riesame totale della controversia e non soltanto un controllo dei vizi (principio del doppio grado di giurisdizione).

Sotto questo profilo, l’appello, è definito un mezzo di gravame, ovvero costituisce un mezzo devolutivo in cui il giudice d’appello viene reinvestito del potere di riesaminare ciò che è già stato oggetto di esame da parte del giudice di prima istanza. L’effetto devolutivo è tuttavia potenziale e non automatico: il giudice di appello deve invero esaminare solo le questioni che le parti hanno devoluto.

Regola generale è che siano appellabili tutte le sentenze emesse in primo grado. Questa regola però soffre di alcune eccezioni; in particolare non sono appellabili:

  • i provvedimenti per i quali l’appello è escluso dalla legge cioè le sentenze emesse secondo equità ex art. 114 c.p.c.;
  • le sentenze, qualora le parti si siano accordate ex art. 360 c.p.c. per saltare l’appello (revisio per saltum), e proporre direttamente ricorso dinanza alla Corte di Cassazione;
  • le sentenze, del Giudice di Pace o del tribunale, pronunciate secondo equità ex art. 114 c.p.c..

 

Sono appellabili anche le sentenze pronunciate dal Giudice di Pace secondo equità ex art. 113 c.p.c. (cause di valore non superiore a 1100€, quelle emesse ex art. 114 c.p.c. hanno differenti requisiti). In questo caso però l’appello sarà consentito solo per far valere vizi predeterminati dall’art. 339:

  • violazione di norme processuali,
  • violazione di norme costituzionali;
  • violazione di norme comunitarie;
  • violazione dei principi regolatori della materia.

 

Per ciò che riguarda l’oggetto del giudizio d’appello, questo non sarà mai più ampio di quello che caratterizzò il primo giudizio di merito. Per attuare tale regola il codice di procedura civile impedisce che in appello possano essere introdotte:

  • nuove domande (ad eccezione di quelle che risultano essere diretta conseguenza di quelle proposte in primo grado);
  • nuove domande riconvenzionali;
  • nuove eccezioni (ad eccezione di quelle rilevabili d’ufficio e di quelle non accolte in primo grado);
  • nuove istanze istruttorie (ad eccezione del giuramento decisorio, dei mezzi di prova che non furono proposti in primo grado per impossibilità oggettiva).

 

Tale regola viene indicata come divieto dei “nova” in appello.

Il contenuto necessario dell’atto di appello è previsto dall’art. 342 c.p.c. e contiene, a pena di inammissibilità:

  • l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado;
  • l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.

 

Il giudizio d’appello può concludersi con due tipi di provvedimento:

  • una sentenza di rigetto;
  • una sentenza di accoglimento, in tal caso, nei limiti della domanda d’appello, si sostituirà la precedente (cd. effetto sostitutivo dell’appello).

Ambito oggettivo di applicazione

…omissis…

Fatti di causa

XX ricorre, sulla base di sei motivi, per la cassazione della sentenza n. 206/20, del 14 gennaio 2020, della Corte d’appello di Roma, che – accogliendone solo parzialmente il gravame avverso la sentenza n. 19961/13, del 7 ottobre 2013, del Tribunale di Roma – ha condannato la società Anas Spa a risarcirgli, nella misura complessiva di Euro 6.427,93, oltre rivalutazione e interessi, i danni conseguenti al sinistro stradale di cui fu vittima, il 2 dicembre 2008, alla via omissis.

Riferisce, in punto di fatto, l’odierno ricorrente di aver agito in giudizio per conseguire il ristoro dei danni – al proprio veicolo e alla sua persona – cagionati dalla caduta a terra del motociclo, ad esso appartenente e da lui condotto nelle circostanze di tempo e luogo sopra meglio indicate, in ragione della presenza di una profonda buca sulla sede stradale, non segnalata e non visibile, perché completamente ricolma d’acqua.

Previo riconoscimento di un suo concorso di responsabilità, stimato nella misura del 40% (e ciò in ragione del fatto che la presenza di lavori in corso lungo la strada teatro dell’incidente, attestata da cartelli e transenne, avrebbe dovuto indurre il XX a procedere ad una velocità ridotta, adeguata alla presenza di acqua piovana sul sedime stradale), la sua domanda risarcitoria veniva accolta dal primo giudice in misura minore rispetto a quanto richiesto.

Esperito gravame dall’attore, il giudice di appello lo accoglieva solo in parte, implementando il “quantum debeatur”, ma lasciando, invece, ferma la statuizione sul concorso di responsabilità del danneggiato (e sulla misura dello stesso).

Avverso la sentenza della Corte capitolina ha proposto ricorso per cassazione il XX, sulla base – come detto – di sei motivi.

Il primo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 132, comma 2, n. 4), cod. proc. civ., oltre che dell’art. 2700 cod. civ., per avere reso il giudice di appello “una motivazione per alcuni versi apparente e per altri “de relato” e quindi emesso una sentenza priva di valida motivazione” in merito al primo motivo dell’atto di gravame, relativo “all’illegittimo ed ingiusto concorso di colpa del 40%” riconosciuto ad esso XX nella causazione del sinistro.

Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui afferma essere non pertinenti le doglianze rivolte dall’allora appellante contro la sentenza del Tribunale, per aver “fatto riferimento alla presenza di cartelli indicanti i lavori in corso e alla velocità eccessiva del motociclista”. In particolare, la Corte territoriale osservava, con riguardo alla prima circostanza, come essa fosse stata “dedotta sulla base delle stesse indicazioni dell’appellante” (e non “sulla base delle indicazioni dei vigili urbani”, accorsi sul luogo del sinistro), rilevando, quanto alla seconda circostanza, la necessità di ribadire le “convincenti argomentazioni del Tribunale”, rispetto alle quali “le critiche espresse” nell’appello non sono state ritenute suscettibili di indurre il secondo giudice “a conclusioni diverse”.

Così argomentando, tuttavia, la Corte romana – oltre a disattendere le risultanze del rapporto dei vigili urbani, atto fidefacente a norma dell’art. 2700 cod. civ. (che nulla riferiva circa la presenza di cartelli di pericolo nel tratto stradale in cui era avvenuto l’incidente, né tantomeno sulla velocità eccessiva del veicolo condotto dal XX) – avrebbe reso una motivazione meramente apparente, non spiegando quali siano state le ragioni che l’hanno indotta a condividere le “convincenti argomentazioni” del primo giudice, né a chiarire in cosa queste consistessero.

Il secondo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115, 116 e 132, comma 2, n. 4), cod. proc. civ., oltre che degli artt. 2051 e 2697 cod. civ.

Si contesta al giudice di appello di aver omesso sia di applicare la presunzione “iuris tantum” di responsabilità del custode, sancita dall’art. 2051 cod. civ. (norma che ne decreta, infatti, l’esclusiva responsabilità, in assenza di prova liberatoria dallo stesso fornita), sia di rendere motivazione in ordine alla concessione, da parte di Anas, di tale prova, da ritenersi – assume il ricorrente – inesistente.

Il terzo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione degli artt. 1226,2056 e 2059 cod. civ.

Si contesta alla Corte romana di aver fatto applicazione – pur liquidando un maggiore importo, rispetto al Tribunale, a titolo di risarcimento del danno alla persona – delle c.d. “tabelle” del Tribunale di Milano vigenti al momento del fatto illecito, e non quelle (dell’anno 2018) vigenti al tempo della liquidazione.

3.4. Il quarto motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, nn. 3) e 4), cod. proc. civ. – violazione degli artt. 1223, 2043 e 2056 cod. civ., nonché degli artt. 112 e 115 cod. proc. civ., per avere la Corte capitolina omesso di liquidare l’IVA relativamente al ristoro del danno materiale e alle spese di CTU adducendo motivazioni “illegittime, infondate e inconferenti”, consistite nell’erroneo rilievo circa la mancata produzione in giudizio delle fatture relative sia al preventivo per la riparazione del veicolo, sia al compenso liquidato al consulente.

Il quinto motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione degli artt. 91, 92, 112, 115 e 116 cod. proc. civ.

Si addebita alla Corte capitolina di aver omesso di liquidare il compenso per l’assistenza prestata dal consulente di parte in sede di CTU medico-legale, nonostante essa abbia rilevato l’avvenuto espletamento di tale attività, nonché la presenza – quale allegato alle memorie conclusionali di primo grado – della notula emessa dal professionista, oltre che dell’impegno di esso XX a pagarla.

Il sesto motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione degli artt. 91,92,112 e 132, comma 2, n. 4), cod. proc. civ., nonché del DM n. 55 del 2014, per avere il giudice d’appello liquidato spese e compensi di lite “complessivi”, senza specificare le singole voci, “disertando” la nota spese, violando la previsione del citato DM n. 55 del 2014, asseritamente applicato, nonché omettendo di replicare ad uno specifico motivo di gravame.

Ha resistito all’avversaria impugnazione, con controricorso, l’Anas, chiedendo che la stessa sia dichiarata inammissibile o, comunque, rigettata.

La trattazione del presente ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.

Il ricorrente ha depositato memoria.

Il Collegio si è riservato il deposito nei successivi sessanta giorni.

Ragioni della decisione

Il ricorso va accolto, sebbene nei limiti di seguito precisati.

Il primo motivo è fondato, per quanto di ragione, ovvero in relazione al denunciato difetto di motivazione sulla corresponsabilità del XX – e sulla misura della stessa – nella causazione del sinistro di cui fu vittima: e ciò in forza delle considerazioni che si andranno ad illustrare nel par. 8.1.2.

Non fondata è, invece, la censura di violazione dell’art. 2700 cod. civ., basata sull’assunto dell’efficacia di “piena prova” del rapporto dei vigili urbani, in merito a circostanze – la presenza di segnaletica di lavori in corso e l’eccessiva velocità del motociclo del XX – da esso non attestati. Difatti, con riferimento agli accertamenti espletati dall’autorità di pubblica sicurezza, “giunta sul luogo nell’immediatezza dell’incidente”, si è affermato – da parte di questa Corte – che “il particolare affidamento che si deve all’organo che li ha effettuati”, rende gli stessi “attendibili pur senza attribuire ad essi fede privilegiata” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 6 ottobre 2016, n. 20025, Rv. 642611-01). Analogamente, si è ritenuto che il rapporto di polizia faccia piena prova, fino a querela di falso, “solo delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesti come avvenuti in sua presenza mentre, per quanto riguarda le altre circostanze di fatto che egli segnali di avere accertato nel corso dell’indagine, per averle apprese da terzi o in seguito ad altri accertamenti, il verbale, per la sua natura di atto pubblico, ha pur sempre” – e solo – un’attendibilità intrinseca” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 9 settembre 2008, n. 22662, Rv. 604689-01).

Alla stregua di tali principi, pertanto, risulta priva di ogni fondamento la pretesa del ricorrente di attribuire efficacia di “piena prova” addirittura alla mancata menzione, nel rapporto dei vigili urbani, della presenza di cartelli di segnaletica stradale attestanti “lavori in corso” e all’eccesso di velocità del XX Come visto, infatti, a tale documento può soltanto attribuirsi un’attendibilità intrinseca in relazione i fatti da esso attestati, ma non certo – come pretenderebbe il ricorrente – piena efficacia probatoria in relazione all’insussistenza dei fatti, viceversa, non attestati.

Sussiste, al contrario, il vizio di motivazione apparente, sempre denunciato con il primo motivo di ricorso.

Secondo questa Corte, difatti, “la sentenza pronunziata in sede di gravame è legittimamente motivata “per relationem” ove il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, sì da consentire, attraverso la parte motiva di entrambe le sentenze, di ricavare un percorso argomentativo adeguato e corretto, ovvero purché il rinvio sia operato sì da rendere possibile ed agevole il controllo, dando conto delle argomentazioni delle parti e della loro identità con quelle esaminate nella pronuncia impugnata, mentre va cassata la decisione con cui il giudice si sia limitato ad aderire alla decisione di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame” (così da ultimo, in motivazione, Cass. Sez. 1, ord. 8 novembre 2018, n. 28139, Rv. 651516-01; in senso conforme, tra le altre, Cass. Sez. Lav., sent. 23 agosto 2018, n. 21037, Rv. 650138-01; Cass. Sez. 1, sent. 19 luglio 2016, n. 14786, Rv. 640759-01).

Tale, seppur sintetica, espressione delle ragioni dell’adesione al “dictum” del primo giudice risulta, obiettivamente, carente nel caso di specie, visto che la Corte capitolina neppure identifica le “convincenti argomentazioni” che dichiara di voler condividere, né illustra le ragioni della sua condivisione.

Carenze, queste, tanto più gravi, ove si consideri che il proposto gravame mirava a sollecitare una rinnovata valutazione del materiale istruttorio, ovvero quella funzione che costituisce uno degli aspetti nevralgici del giudizio di appello, in un sistema in cui non è consentito a questa Corte di legittimità alcun sindacato sul prudente apprezzamento della prova, e nel quale, pertanto, “il controllo sul giudizio di fatto resta affidato all’impugnazione di merito che caratterizza il giudizio di appello”, che “costituisce, come è noto, non un sindacato sull’atto (il provvedimento giurisdizionale di primo grado), ma un giudizio direttamente sul rapporto dedotto in giudizio” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 17 novembre 2021, n. 34786, Rv. 663118-01).

D’altra parte, nel caso di specie, la necessità di una motivazione che desse conto in modo adeguato del contributo del XX nella causazione dell’evento dannoso prodottosi a suo carico, deriva anche dal fatto che tale contributo – in relazione alla fattispecie ex art. 2051 cod. civ. – è suscettibile di essere apprezzato a norma dell’art. 1227 cod. civ. (cfr., da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 27 aprile 2023, n. 11152, Rv. 667668-01). Di qui, pertanto, la necessità di fare applicazione del principio per cui la “quantificazione in misura percentuale del contributo colposo della vittima alla causazione del danno è rimessa all’accertamento del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità”, ma pur sempre a condizione che risulti “correttamente motivato” (così Cass. Sez. 3, sent. 19 dicembre 2019, n. 33771, Rv. 656229-01).

L’accoglimento del primo motivo di ricorso non esime questa Corte dalla disamina degli altri (tranne l’ultimo, relativo alle spese di lite), che non restano assorbiti dalla constatazione del difetto di motivazione circa il contributo concausale del XX nella verificazione dell’evento dannoso di cui è stato vittima.

Il secondo motivo non è fondato.

La sentenza impugnata non ha disatteso – o meglio, sovvertito – la presunzione, “iuris tantum”, di esclusiva responsabilità del custode, sancita dall’art. 2051 cod. civ. in relazione a danni che originino dalla cosa custodita. Essa ha, semplicemente, ritenuto (ancorché con motivazione inidonea a dare conto di tale conclusione, e pertanto da cassare, per le ragioni già sopra illustrate) che fosse stata raggiunta la prova di un contributo dello stesso danneggiato, “sub specie” di condotta colposa dello stesso, nell’eziologia dell’evento dannoso.

A tale esito il giudice di appello è pervenuto conformandosi ad un consolidato orientamento di questa Corte, peraltro da essa “ribadito e definitivamente “suggellato” anche dal suo massimo consesso” (il riferimento è Cass. Sez. Un., sent. 30 giugno 2022, n. 20943, Rv. 665084-01), secondo cui la condotta del danneggiato, “nella motivata valutazione del giudice del merito”, potrà “assumere un rilievo causale meramente concorrente (cosicché vi sarà una percentuale di danno ascrivibile al fatto del danneggiato e una percentuale ascrivibile al fatto della cosa, e dunque imputabile al custode di essa), ma anche un’efficienza causale esclusiva, ove, per il grado della colpa e il rilievo delle conseguenze, si ponga come causa assorbente del danno, sicché ne sia del tutto esclusa la derivazione dalla cosa”, (cfr., tra le più recenti, Cass. Sez. 3, ord. 23 maggio 2023, n. 14228, Rv. 667836-02).

Il terzo motivo è, invece, inammissibile.

Infatti, se è vero essere – come assume il ricorrente – una “affermazione oramai costante di questa Corte quella che il giudice deve applicare la tabella elaborata dall’osservatorio presso il Tribunale di Milano vigente al momento della liquidazione” (Cass. Sez. 3, ord. 19 dicembre 2019, n. 33770, non massimata), naturalmente allorché si affidi ad esse per operare la liquidazione equitativa del danno alla persona, resta, nondimeno, inteso che, in tema di liquidazione del danno alla persona e con riferimento ai criteri di cui alle cd. “tabelle milanesi”, non soddisfa “l’onere di autosufficienza di cui all’art. 366, comma 1, n. 6), cod. proc. civ., il ricorso per cassazione che si limiti a riportare le somme pretese in applicazione delle stesse” (condizione questa, peraltro, neppure osservata nel caso di specie), “omettendo di indicarle specificamente” – omissione anch’essa riscontrabile nell’ipotesi che occupa – “tra i documenti ex art. 369, comma 2, cod. proc. civ., e di individuare l’atto con il quale siano state prodotte nel giudizio di merito ed il luogo del processo in cui risultino reperibili” (Cass. Sez. 3, sent. 15 giugno 2016, n. 12288, Rv. 640255-01).

Inammissibili sono pure i motivi quarto e quinto, perché si risolvono nel tentativo di sollecitare a questa Corte un non consentito – in questa sede – riesame del materiale probatorio relativo alla corresponsione dell’IVA, quanto alla riparazione del danno al veicolo e alle spese della CTU medico-legale, nonché alla liquidazione del compenso spettante al consulente tecnico di parte.

Il sesto motivo, infine, resta assorbito dall’accoglimento parziale del primo, giacché la cassazione della sentenza travolge la pronuncia sulle spese, “perché in tal senso espressamente disposto dall’art. 336, comma 1, cod. proc. civ., sicché il giudice del rinvio ha il potere di rinnovare totalmente la relativa regolamentazione alla stregua dell’esito finale della lite” (Cass. Sez. 3, sent. 14 marzo 2016, n. 4887, Rv. 639295-01).

In conclusione, il primo motivo di ricorso va accolto, per quanto di ragione; e la sentenza va cassata in relazione, con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, per la decisione nel merito, oltre che sulle spese di lite, ivi comprese quelle del presente giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie, per quanto di ragione, il primo motivo di ricorso, rigettando il secondo e dichiarando inammissibili il terzo, il quarto e il quinto, nonché assorbito il sesto, cassando in relazione la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, per la decisione nel merito, oltre che sulle spese di lite, ivi comprese quelle del presente giudizio di legittimità.

Allegati

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