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Cassazione civile sez. III, 20/06/2025, n. 16594

Massima

In tema di azione risarcitoria esercitata iure hereditatis per diritti spettanti al genitore defunto, la prova della qualità di erede – inclusa quella derivante da accettazione tacita dell’eredità, anche tramite l’esercizio dell’azione giudiziaria – è subordinata alla preliminare e indefettibile dimostrazione dello status di figlio. Tale status deve essere provato attraverso la produzione degli atti dello stato civile, come l’estratto per riassunto del certificato di nascita con indicazione della paternità. I certificati di stato di famiglia, attestanti la mera coabitazione, non sono sufficienti a dimostrare il rapporto di filiazione se non lo certificano espressamente. L’eccezione di difetto di legittimazione per mancanza di tale prova, attenendo al contraddittorio, è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, salvo il limite del giudicato interno.

Supporto alla lettura

ACCETTAZIONE TACITA EREDITA’

L’accettazione tacita o per facta concludentia di eredità si determina ogniqualvolta il chiamato all’eredità, titolare di una delazione attuale, compia un atto che presupponga necessariamente la sua volontà di accettare.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

1. (omissis), nella dichiarata qualità di erede di (omissis), ricorre, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 3136/21, del 22 dicembre 2021, della Corte d’Appello di Bologna, che – in accoglimento solo parziale del gravame dallo stesso esperito avverso la sentenza n. 20056/16, del 21 giugno 2016, del Tribunale di Bologna (respingendo, invece, l’appello incidentale condizionato di UNIPOLSAI ASSICURAZIONI Spa, volto ad accertare il difetto della suddetta qualità in capo all’odierno ricorrente) – ha così provveduto.

Essa, innanzitutto, ha ritenuto operante la presunzione di pari responsabilità, dell’odierno ricorrente e di (omissis), nella causazione del sinistro stradale del 22 maggio 2002, a seguito del quale il primo ebbe a riportare delle macrolesioni, in relazione alle quali il medesimo (omissis), quale asserito erede del padre (omissis), ha fatto valere la pretesa risarcitoria già azionata dal proprio genitore per lesione del rapporto parentale. Su tale presupposto, inoltre, il giudice d’appello ha liquidato, in favore dell’allora appellante, l’importo di Euro 20.000,00, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale.

2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierno ricorrente di aver incardinato – prima dell’instaurazione del presente giudizio, nel quale, come detto, ha agito “iure hereditatis”, per conseguire il ristoro del danno da lesione del rapporto parentale patito dal proprio preteso genitore – una diversa controversia risarcitoria, in relazione ai danni subiti, in proprio, sempre in ragione del sinistro stradale di cui è stato vittima, consistito nella collisione tra l’autovettura guidata dalla (omissis) e la bicicletta dal medesimo condotta. Conclusasi tale controversia con una transazione stragiudiziale (in forza della quale (omissis) conseguiva il pagamento di Euro 360.000.000, senza alcun addebito di responsabilità concorsuale), il giudizio promosso dal preteso padre, (omissis), si interrompeva – senza essere riassunto da alcuno – con il decesso dell’attore.

Solo in seguito, (omissis) e (omissis) – sul presupposto di essere gli eredi del defunto genitore (omissis) – agivano, nei confronti della (omissis) e della sua assicuratrice per la “RCA”, società UNIPOLSAI ASSICURAZIONI, d’ora in poi, Unipolsai, per far valere il danno, subito dal supposto “de cuius”, in ragione della lesione del rapporto parentale.

Il primo grado di giudizio – nel quale si costituiva la sola società UNIPOLSAI ASSICURAZIONI – si concludeva con la declaratoria di difetto di legittimazione di (omissis) e con il rigetto della domanda risarcitoria di (omissis), essendosi ritenuto “non sufficientemente provato” il danno patito dal defunto genitore.

Esperito gravame, in via di principalità, soltanto dall’odierno ricorrente (e non pure dalla sorella Lucrezia), nonché in via incidentale condizionata da Unipolsai, il giudice d’appello accoglieva parzialmente il primo, nei termini già sopra meglio illustrati, respingendo il secondo.

3. Avverso la sentenza della Corte felsinea ha proposto ricorso per cassazione (omissis), sulla base – come detto – di tre motivi.

3.1. Il primo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione degli artt. 12272054 e 2700 cod. civ., nonché degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., “per avere la Corte territoriale attestato la responsabilità concorsuale e paritaria di A.A. nella causazione del sinistro stradale oggetto di causa, per incongruità degli argomenti, per omesso esame di un fatto decisivo connesso alla non contestazione della responsabilità del sinistro”, oltre che per aver “ritenuto come prova della corresponsabilità il verbale della Polizia Municipale e per aver fatto scorretta applicazione dei principi in ordine alla valutazione delle prove documentali ed orali”.

Il ricorrente assume di aver “sempre ascritto l’esclusiva responsabilità del sinistro alla condotta di guida di (omissis), la quale nell’effettuare una svolta a sinistra all’incrocio regolato da semaforo – rosso, come dichiarato dal teste (omissis) – dopo aver rallentato tanto da convincere (omissis) che gli stesse riservando di proseguire la sua marcia, ometteva di dare la precedenza allo stesso, urtandolo violentemente”.

Orbene, con il presente motivo viene dedotto, innanzitutto, che la convenuta società assicuratrice “non ha mai espressamente e specificamente contestato la circostanza dell’esclusiva responsabilità della (omissis)”, da ritenersi, pertanto, provata, a norma dell’art. 115, comma 2, cod. proc. civ.

Difatti, anche a ritenere che la dinamica del sinistro non sia stata esattamente chiarita (ma così non è, assume il ricorrente), la non contestazione della stessa comporterebbe l’esonero, per l’attore, dalla necessità di provarla.

Ciò nonostante, la Corte territoriale ha ritenuto sussistere la concorrente (e paritaria) responsabilità di esso (omissis) nella causazione del sinistro. Esito al quale è pervenuta sul duplice presupposto che non risultava “adeguatamente chiarito” se l’auto condotta dalla (omissis) si fosse mossa con la luce semaforica rossa oppure verde, e che, in ogni caso, sussisteva “un profilo di colpa” nella condotta dello stesso (omissis), perché l’automobilista avrebbe avuto “ragione di ritenere, vista la segnaletica stradale” – la quale imponeva all’odierno ricorrente di svoltare a destra e non di procedere diritto, così immettendosi nella corsia riservata soltanto agli autobus – “che il ciclista non procedesse diritto”.

Tanto premesso, il ricorrente sottolinea che l’art. 2054, comma 1, cod. civ. prevede una presunzione di responsabilità a carico del conducente del veicolo, salvo che non provi di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. Orbene, tale prova può essere raggiunta anche indirettamente, “ad esempio” – osserva sempre il ricorrente – “attraverso la dimostrazione che il sinistro si sia verificato a causa di un comportamento altrui o un evento esterno imprevedibile ed inevitabile”.

Nel caso di specie, tuttavia, la convenuta non avrebbe assolto tale onere probatorio, né in sua assenza, prosegue il ricorrente, “può supplire il Giudice, mediante il ricorso ad astratte considerazioni svincolate da qualsivoglia concreto e specifico richiamo alle circostanze del sinistro”. Infatti, il ragionamento svolto nella sentenza impugnata difetterebbe della “necessaria integrazione argomentativa e la motivazione in essa contenuta ha carattere apodittico, e dunque gravemente illogico”, donde la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e, conseguentemente, degli artt. 12272054 e 2700 cod. civ., essendo, in ogni caso, il risultato di “un procedimento deduttivo manifestamente implausibile nel percorso che lega la verosimiglianza delle premesse alla probabilità delle conseguenze”.

In particolare, il giudice d’appello avrebbe dovuto dare “prevalenza alle dichiarazioni spontanee delle persone”, raccolte

nell’immediatezza dei fatti, “rispetto alla “libera interpretazione”” delle risultanze istruttorie. E ciò perché la (omissis) ebbe a dichiarare – agli agenti della polizia municipale accorsi sul luogo del sinistro – di non essere “in grado di ricordare il colore del semaforo” al momento della sua svolta a sinistra, soggiungendo, inoltre, di non aver “visto assolutamente la bicicletta”, mentre il teste (omissis), per parte propria, ha affermato, quanto alla luce del semaforo, di aver “visto che era rosso per le auto”.

In definitiva, la conclusione della Corte felsinea sarebbe unicamente fondata sulla suggestiva ed errata convinzione, priva di alcun concreto riscontro, che la (omissis) “aveva ragione di ritenere, vista la segnaletica stradale, che il ciclista non procedesse dritto”.

3.2. Il secondo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione dell’art. 2054, comma 2, cod. civ. e dell’art. 132, comma 2, n. 4), cod. proc. civ., per avere la Corte territoriale dettato una motivazione totalmente illogica, apodittica e, in estrema sintesi, sostanzialmente apparente a fondamento dell’attribuzione di un ruolo (con)causale alla condotta stradale di A.A. nella causazione del sinistro dedotto in giudizio e dunque per avere ritenuto non superata la presunzione di corresponsabilità dei conducenti ex art. 2054, comma 2, cod. civ., accertando il concorso di colpa nella misura del 50 per cento.

Premette il ricorrente che la presunzione di pari responsabilità, di cui all’art. 2054, comma 2, cod. civ., “ha funzione meramente sussidiaria, operando esclusivamente nel caso in cui le risultanze probatorie non consentano di accertare in modo concreto in quale misura la condotta dei due conducenti abbia cagionato l’evento dannoso”.

Nondimeno, la prova liberatoria di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno – idonea a superare tale presunzione – potrebbe risultare anche indirettamente, e cioè tramite l’accertamento del collegamento eziologico esclusivo dell’evento dannoso con il comportamento dell’altro conducente. Ciò è quanto si sarebbe verificato nell’ipotesi che occupa, visto che – come riconosce lo stesso giudice d’appello – “la (omissis) non si era affatto accorta del ciclista” e il teste (omissis) ha riferito che la luce semaforica era rossa, in direzione centro città, ovvero quella percorsa dall’automobilista. Nel caso di specie, infatti, “non sussisteva alcun elemento” – osserva il ricorrente – “che potesse obiettivamente far ritenere non accertata l’assenza di ogni possibile addebito a carco del ciclista”, mentre, per contro, risulta accertata la consumazione, da parte della conducente l’autovettura, “di ben due, gravi, infrazioni stradali”, e cioè “il passaggio con luce semaforica rossa e la mancata concessione della precedenza alla bicicletta”.

3.3. Il terzo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione dell’art. 2059 cod. civ. e degli artt. 2 e 3 Cost., “avendo la Corte territoriale in merito al “quantum” liquidato, in via puramente equitativa, il danno da lesione del rapporto parentale subito dal genitore”, nonché dell’art. 111 Cost. e degli artt. 132, comma 2, n. 4), e 156 cod. proc. civ., “per avere la Corte territoriale liquidato il danno da lesione del rapporto parentale senza alcun ancoraggio a parametri obiettivi, da cui il carattere arbitrario della decisione”, non essendo “dato comprendere da dove siano emersi i valori monetari indicati”.

Premette il ricorrente che il danno da lesione del rapporto parentale va identificato “nella duplice dimensione del c.d. danno morale ossia della sofferenza puramente interiore patita per la perdita affettiva riscontrabile sul piano dell’afflizione e della compromissione dell’ordinario equilibrio emotivo (senza tuttavia alcuna degenerazione patologica suscettibile di accertamento medico-legale)”, nonché, “sotto altro profilo, del danno rappresentato dalla modificazione delle attività della vita quotidiana e degli eventuali aspetti dinamico-relazionali in conseguenza di tale perdita affettiva”.

Nella specie, “negato in entrambi i gradi di giudizio il diritto al risarcimento del danno biologico subito da (omissis) (necessariamente da intendere come danno alla salute dello stesso, e dunque come lesione della propria integrità psico-fisica conseguente al sinistro occorso al figlio), la Corte avrebbe potuto procedere ad una congrua personalizzazione del danno da lesione del rapporto parentale”, in assenza della quale essa – secondo il ricorrente – sarebbe, pertanto, incorsa in “un irriducibile difetto motivazionale”.

In particolare, la censura del ricorrente si appunta sulla “mancanza di un passaggio logico fra le circostanze evidenziate e gli importi identificati”, rimarcando che, nella specie, quanto “resta privo di motivazione, e che rende quindi apparente quella resa nel provvedimento, è il perché di quei determinati importi, poste in premessa le circostanze evidenziate”.

Nel muovere dall’assunto che nella liquidazione del danno non patrimoniale non è consentito, in mancanza di criteri stabiliti dalla legge, il ricorso ad una liquidazione equitativa pura, non fondata su criteri obiettivi, dovendosi preferire l’uniformità assicurata dal c.d. “sistema tabellare” (è citata Cass. Sez. 3, sent. 18 maggio 2017, n. 12470), il ricorrente evidenzia di aver richiesto – come già il suo preteso padre (omissis), nel giudizio estintosi con la morte del medesimo – l’applicazione delle tabelle milanesi del 2009, allora vigenti. Evidenzia, altresì, “come la Corte territoriale, nella liquidazione del danno da lesione del rapporto parentale, abbia ritenuto sì significativo il criterio della convivenza e dell’intensità dell’invalidità, ma risulti tacere circa la giovane età della persona offesa (42 anni) e sul dolore arrecato al fragile padre, già da poco vedovo, “sicché l’ammontare liquidato è palesemente non congruo rispetto al caso concreto, perché irragionevole e sproporzionato per difetto in relazione a quello previsto dal sistema tabellare”.

D’altra parte, si rammenta pure come questa Corte abbia puntualizzato che “al fine di garantire non solo un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul sistema a punti, che preveda, oltre l’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, da indicare come indefettibili, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l’indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l’eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella”.

Rispondenti, in particolare, a tale modello sono state ritenute le tabelle romane, giacché esse – sottolinea il ricorrente – prevedono, “ormai dal 2007 e con alcuni correttivi apportati nel 2009”, per tale tipo di danno non patrimoniale, nell’ottica di una maggiore personalizzazione, “un sistema a punti basato sulla attribuzione al danno di un punteggio numerico a seconda della sua presumibile entità e nella moltiplicazione di tale punteggio per una somma di denaro, che costituisce il valore ideale di ogni punto”.

Ciò premesso, posto che la tabella romana quantifica il valore di ogni punto, per l’anno 2019, in Euro 6.000,00, nel caso che qui occupa i “parametri da prendere in considerazione per il calcolo del risarcimento sono rappresentati:

A) dalla relazione di parentela con il danneggiato – Il genitore ha 20 punti;

B) dal coefficiente relativo al numero dei familiari – Unico familiare ha 1 punto;

C) dall’età del danneggiato – 42 anni conducono a 6 punti nel caso di specie;

D) dall’età del soggetto da risarcire – 75 anni di età conducono a 2 punti nel caso di specie”.

Di talché, “tale operazione matematica condurrebbe” – nel presente caso – “al seguente risultato: 29 punti x 6.000,00 valore unitario x 45% invalidità = 78.300,00”.

4. Ha resistito all’avversaria impugnazione, con controricorso, Unipolsai, chiedendo che la stessa sia dichiarata inammissibile o, comunque, rigettata, nonché svolgendo ricorso incidentale sulla base di due motivi.

4.1. Il primo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – “violazione e falsa applicazione di norme di diritto (error in iudicando) ed in particolare dell’art. 2697 cod. civ.”, per “mancata prova della qualifica di figlio ed unico erede del de cuius in capo a (omissis)”.

Si censura la sentenza impugnata per aver disatteso l’appello incidentale condizionato, con il quale era stata censurata la decisione del primo giudice nella parte in cui aveva rigettato l’eccezione preliminare – rilevabile anche d’ufficio – di mancanza di prova circa il fatto che l’odierno ricorrente (omissis) “sia davvero figlio ed unico erede del defunto (omissis)”, eccezione formulata da Unipolsai sin dalla costituzione nel primo grado di giudizio.

Si assume, infatti, che la Corte di merito, “con una motivazione del tutto errata e contraddittoria”, è “giunta ad accertare la sussistenza della legittimazione attiva dell’odierno ricorrente, basando il proprio convincimento su semplici “convinzioni” prive di alcun supporto probatorio sia in fatto che in diritto”, giacché “i numerosi certificati di stato di famiglia”, richiamati nella motivazione, sono rappresentati “esclusivamente da certificati di residenza e di stato di famiglia anagrafica”, i quali “indicano le persone che risiedono insieme in un certo indirizzo”, senza però nulla riferire “se e quale rapporto di parentela intercorra tra tali persone”.

Per contro, il rapporto di paternità “avrebbe invece potuto (e dovuto) facilmente essere provato con la produzione di un estratto per riassunto del certificato di nascita con indicazione della paternità, come previsto dall’art. 3 del D.P.R. 2 maggio 1957, n. 432“.

In ogni caso, sostiene la ricorrente incidentale, “anche qualora si ritenesse provato il rapporto di filiazione – la cui sussistenza in questa sede viene nuovamente del tutto contestata – l’istante avrebbe dovuto provare anche la sua qualità di unico erede, fatto costitutivo della domanda, senza la cui prova, in realtà, non sussiste alcuna legittimazione a richiedere iure hereditatis l’intero diritto di credito spettante al de cuius come in questa sede preteso”.

La sentenza, inoltre, sarebbe “contraddittoria”, e ciò “in quanto il primo grado di giudizio è stato iniziato anche dall’altra presunta figlia (ed erede soprattutto) del signor (omissis), signora (omissis)”, la cui legittimazione ad agire è stata, invece, esclusa.

4.2. Il secondo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – “violazione e falsa applicazione di norme di diritto (error in iudicando) ed in particolare degli artt. 122312262059 e 2697 cod. civ.”, per “errato riconoscimento della sussistenza del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale”.

Si censura la sentenza impugnata per aver ravvisato l’esistenza del danno da lesione del rapporto parentale sul presupposto che (omissis) convivesse, “al momento dell’incidente, con il figlio”, e ovviamente si giovasse “del rapporto con questi, che sul piano pratico lo aiutava nei compiti della vita quotidiana più faticosi, gli consentiva di avere una vita più attiva di quella che avrebbe potuto svolgere in autonomia, e costituiva motivo di serenità, nel momento in cui l’età lo rendeva più fragile”, sottolineando trattarsi di “normali aspetti di una vita familiare condivisa, come avevano padre e figlio, che possono ritenersi acquisiti presuntivamente”.

Assume, tuttavia, la ricorrente incidentale che nella fattispecie, in realtà, “non è stata formulata alcuna allegazione idonea ad avvalorare la sussistenza di un profondo legame di comunanza di vita ed affetti con il danneggiato, che sarebbe venuto meno a seguito del sinistro per cui è giudizio”.

Viene, inoltre, dedotto che “(omissis), a seguito del sinistro per cui è causa, ha subito delle lesioni e delle limitazioni (cicatrici, mobilizzazione del collo ridotta di un 1/3) e dei disturbi alle mani, che attenevano sostanzialmente alla “alterazione della sensibilità tattile e termica”” e che, per parte propria, (omissis) “è sempre stato pienamente autonomo in ogni atto del vivere quotidiano, tanto da escludere che in siffatta situazione potesse venir meno od essere alterata la relazione affettiva e di comunanza di vita ed affetti” tra padre e figlio.

Su tali basi, dunque, si osserva che l’orientamento di questa Corte – che pure ha riconosciuto la legittimazione dei congiunti del c.d. macroleso a formulare la richiesta risarcitoria del danno non patrimoniale”, inteso come danno morale – ha, però, precisato che occorre “di volta in volta verificare in che cosa il legame affettivo sia consistito e in che misura la lesione subita dalla vittima primaria abbia inciso sulla relazione fino a comprometterne lo svolgimento”.

5. Sono rimaste solo intimate (omissis) e (omissis).

6. La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.

7. Il ricorrente principale ha presentato memoria.

8. Il Collegio si è riservato il deposito nei successivi sessanta giorni.

Motivi della decisione

9. Reputa questo Collegio di dover esaminare, con priorità, il ricorso incidentale di Unipolsai, in ragione del carattere pregiudiziale della questione oggetto del suo primo motivo.

9.1. Invero, l’odierna ricorrente incidentale – già integralmente vittoriosa, all’esito del primo grado di giudizio – ha visto, in appello, non solo parzialmente accogliere, in riforma della decisione del Tribunale, la domanda risarcitoria proposta nei suoi confronti da (omissis), ma pure respingere il gravame, da essa esperito in via incidentale condizionata, con cui si era eccepito il difetto di legittimazione attiva in capo ad esso.

Essendo, dunque, intervenuta una decisione espressa su tale eccezione, qui messa in discussione da Unipolsai con ricorso incidentale non condizionato, l’esame della stessa va condotto con priorità (cfr. Cass. Sez. 1, sent. 31 ottobre 2024, n. 23271, Rv. 633364-01, nonché, “a contrario”, tra le più recenti, Cass. Sez. 3, ord. 25 settembre 2024, n. 25694, Rv. 672453-01).

9.1. Il primo motivo del ricorso incidentale è fondato.

9.1.1. Questa Corte, invero, ha ripetutamente affermato il principio secondo cui, “in tema di legitimatio ad causam, colui che promuove l’azione (o specularmente vi contraddica) nell’asserita qualità di erede di altro soggetto indicato come originario titolare del diritto”, nel caso di specie al risarcimento dei danni, “deve allegare la propria legittimazione per essere subentrato nella medesima posizione del proprio autore, fornendo la prova, in ottemperanza all’onere di cui all’art. 2697 cod. civ., del decesso della parte originaria e della sua qualità di erede, perché altrimenti resta indimostrato uno dei fatti costitutivi del diritto di agire (o a contraddire)”, precisandosi che, “per quanto concerne la delazione dell’eredità, tale onere – che non è assolto con la produzione della denuncia di successione – è idoneamente adempiuto con la produzione degli atti dello stato civile, dai quali è dato coerentemente desumere quel rapporto di parentela con il de cuius che legittima alla successione ai sensi degli artt. 565 e ss. cod. civ.” (così, in motivazione, Cass. Sez. ord. 11 agosto 2021, n. 22730, Rv. 662065-01; sulla necessità che “il rapporto di parentela con il “de cuius”, quale titolo che, a norma dell’art. 565 cod. civ., conferisce la qualità di erede”, sia “provato tramite gli atti dello stato civile, salvo che questi ultimi manchino o siano andati distrutti o smarriti, potendo in questo caso la prova dei fatti oggetto di registrazione – quali la nascita, la morte o il matrimonio – essere data con ogni mezzo”, si vedano pure Cass. Sez. 2, sent. 12 luglio 2024, n. 19254, Rv. 671727-01; Cass. Sez. 2, ord. 14 ottobre 2020, n. 22192, Rv. 659330-01; Cass. Sez. 2, sent. 29 marzo 2006, n. 7276, Rv. 587734-01; Cass. Sez. 2, sent. 4 maggio 1999, n. 4414, Rv. 525973-01).

Alla stregua di tale principio, pertanto, non può affatto ritenersi – come invece reputa la sentenza impugnata – “superflua la produzione degli atti dello stato civile a supporto della prova della qualità di erede, atteso che l’azione proposta per far valere un credito del de cuius, costituisce tacita accettazione dell’eredità”, dal momento che, rispetto alla prova dell’accettazione dell’eredità, preliminare era quella della prova della qualità di erede, in quanto figlio.

In altri termini, l’errore commesso dalla Corte territoriale è consistito nel ritenere che la dimostrazione dello “status” di figlio – che doveva precedere quella della qualità di erede, a raggiungere la quale è certamente idonea l’accettazione tacita dell’eredità, anche mediante l’esercizio dell’azione giudiziaria volta a far valere i diritti del dante causa (cfr., tra le più recenti, Cass. Sez. 2, ord. 19 marzo 2018, n. 6745, Rv. 647819-01, pronuncia che, non casualmente, concerne una fattispecie in cui non era, però, in contestazione la qualità di figlio) – potesse dirsi raggiunta, fuori dei casi in cui gli atti dello stato civile manchino, mediante presunzioni, e non con estratti di atti dello stato civile.

Difatti, nella specie, non può attribuirsi rilievo ai “numerosi certificati di stato di famiglia da cui” – secondo quanto si legge in sentenza – “si trae la costante convivenza di (omissis) e (omissis) all’interno dello stesso nucleo familiare, seppure spostatosi in luoghi di residenza diversi, nel tempo”. Infatti, se è vero che – a norma dell’art. 4 del D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223 – il certificato di stato di famiglia attesa l’esistenza di una famiglia anagrafica (“un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, unione civile, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune”), esso, nel caso di specie, avrebbe potuto costituire prova dello “status” di figlio solo ove avesse certificato, unitamente al dato della coabitazione, anche il rapporto di paternità/filiazione che legava (omissis) e (omissis) (cfr., a pag. 9 della motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 26 giugno 2018, n. 16814, Rv. 649422-01).

Parimenti, sebbene per ragioni diverse, neppure potrebbe darsi rilievo – come sostenuto da (omissis) nella propria memoria ex art. 380-bis 1 cod. proc. civ. – né a pretesi comportamenti di “non contestazione” del rapporto di filiazione, perché posti in essere nell’ambito non del presente giudizio, ma di altri contenziosi (in un caso, peraltro, neppure tra le stesse parti), né alla deposizione testimoniale – resa in taluna di tali diverse sedi processuali – da (omissis).

Difatti, quanto ai primi, deve qui ribadirsi che la “non contestazione” ha l’effetto di dispensare la parte – che quel fatto non contestato abbia allegato – dalla necessità di provarlo solo nell’ambito del giudizio in cui tale comportamento sia stato assunto, atteso che il principio di non contestazione opera esclusivamente all’interno di esso, giacché trova fondamento nel fenomeno di circolarità degli oneri di allegazione, confutazione e prova dei fatti che integrano il “thema decidendum” di quello specifico giudizio (si veda, in tal senso, Cass. Sez. Lav., ord. 1 febbraio 2021, n. 2174, Rv. 660331-01).

Quanto, invece, alla deposizione testimoniale “aliunde” resa da (omissis), se è innegabile che il giudice di merito può utilizzare, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, anche le prove raccolte in un diverso giudizio tra le stesse parti o tra altre parti, delle quali la sentenza che in detto giudizio sia stata pronunciata

costituisce documentazione (da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 20 gennaio 2015, n. 840, Rv. 633913-01), deve sottolinearsi che, nel caso di specie, ciò non risulta avvenuto, sicché giammai questa Corte potrebbe fare riferimento ad una risultanza probatoria alla quale la sentenza impugnata non ha inteso riferirsi.

Infine, in merito alla pretesa tardività dell’eccezione sollevata da Unipolsai, giacché – secondo quanto assume il (omissis), sempre nella propria memoria – essa sarebbe stata proposta in primo grado “allorquando erano già spirati i termini per le memorie ex art. 183, comma 6, cod. proc. civ.”, deve rilevarsi che tale eccezione, giacché relativa a “materia attinente al contraddittorio”, nonché mirando “a prevenire una sentenza “inutiliter data”, comporta una “verifica, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo”, col “solo limite” – qui insussistente – “della formazione del giudicato interno” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 9 febbraio 2012, n. 1912, Rv. 620484-01; Cass. Sez. Lav., sent. 8 agosto 2012, n. 14243, Rv. 623528- 01; Cass. Sez. 6-3, ord. 6 dicembre 2018, n. 31574, Rv. 651972- 01; Cass. Sez. 5, sent. 24 dicembre 2020, n. 29505, Rv. 660293-01).

10. L’accoglimento del primo motivo di ricorso incidentale comporta l’assorbimento del secondo, nonché del ricorso principale.

La sentenza impugnata, dunque, va cassata in relazione, con rinvio alla Corte d’Appello di Bologna in diversa composizione, essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto – preclusi in questa sede – in merito all’impossibilità di produrre gli atti dello stato civile.

Pertanto, nell’assumere la decisione nel merito, e provvedere alla conseguente regolazione delle spese processuali (anche della

presente sede di legittimità), il giudice del rinvio si atterrà al seguente principio di diritto:

“Colui che agisce per far valere la pretesa risarcitoria che sarebbe stata azionabile dal proprio genitore defunto può provare l’avvenuta accettazione tacita dell’eredità anche mediante l’esercizio dell’azione giudiziaria volta a far valere i diritti spettante al proprio dante causa, ma a condizione che sia stato provato – o risulti incontestato in quel giudizio – il suo status di figlio”.

11. Infine, per la natura della causa petendi, va di ufficio disposta l’omissione, in caso di diffusione del presente provvedimento, delle generalità e degli altri dati identificativi del ricorrente principale, dell’intimata (omissis), e del loro preteso genitore (omissis), ai sensi dell’art. 52 del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso incidentale, dichiarando assorbito il secondo e il ricorso principale, e per l’effetto cassa la sentenza impugnata, rinviando alla Corte d’Appello di Bologna in diversa composizione, per la decisione sul merito e sulle spese, ivi comprese quelle del presente giudizio di legittimità.

Dispone che, ai sensi dell’art. 52 del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, in caso di diffusione del presente provvedimento siano omessi generalità ed altri dati identificativi del ricorrente principale, dell’intimata (omissis) e del loro preteso genitore, (omissis).

Così deciso in Roma, all’esito dell’adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, svoltasi il 14 gennaio 2025.

Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2025.

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