Massima

Va affermata la condanna al pagamento, in favore delle controparti vittoriose, di una somma equitativamente determinata, ai sensi dell’art. 96, terzo comma, c.p.c. in ragione della circostanza che le censure proposte, tutte inammissibili, infrangendosi su orientamenti nomofilattici consolidati da molto tempo, si sono tradotte in una condotta processuale connotata da mala fede o colpa grave, contraria ai canoni di correttezza, nonché idonea a determinare oggettivamente, attraverso un uso abusivo del mezzo di impugnazione, un ingiustificato sviamento del sistema processuale dai suoi fini istituzionali, ponendosi in posizione incompatibile con un quadro ordinamentale che, da una parte, deve universalmente garantire l’accesso alla tutela giurisdizionale dei diritti (art. 6 CEDU) e, dall’altra, deve tenere conto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo e della conseguente necessità di strumenti dissuasivi rispetto ad azioni meramente dilatorie, defatigatorie o pretestuose. Tale condotta si presta, dunque, ad essere sanzionata con la condanna dei soccombenti al pagamento, in favore delle controparti, di una somma equitativamente determinata, ai sensi dell’art. 96, terzo comma, cod. proc. civ.

NDR: in senso conforme Cass. 04/08/2021 n. 22208, 21/09/2022 n. 27568 e 05/12/2022 n. 35593; la SC non condivide, invece il diverso opinamento espresso da Cass. n. 28441 del 12/10/2023 affermando, peraltro che, quanto al fondamento ed alla compatibilità a Costituzione dell’istituto in esame (fermo restando che certamente non è predicabile, e qui certamente non si intende affermare, alcun automatismo tra la soccombenza in giudizio e la condanna ex art. 96, terzo comma, cod. proc. civ.) appare riduttiva una lettura che lo rapporti (solo) alla previsione dell’art. 24 Cost. per fondarne una interpretazione restrittiva ed eccezionale in termini tali da rischiare di svuotarne totalmente la funzione e la pratica applicabilità, dovendosi invece confermare che l’istituto, dalla indubbia finalità sanzionatoria, è chiaramente volto a rafforzare in modo generalizzato, prescindendo cioè dalla domanda di parte, “le cosiddette sanzioni processuali, in funzione della più incisiva valutazione del comportamento delle parti durante il processo” (così la relazione), in tal modo ponendosi in evidente correlazione con il fenomeno dell’abuso del processo, che la giurisprudenza di legittimità concepisce come esercizio del potere da parte di chi, pur essendone titolare legittimo, lo utilizza per fini diversi da quelli per i quali quel potere viene riconosciuto dalla legge, con la conseguenza che esso ricorre quando, con violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede e dei principi di lealtà processuale e del giusto processo, si utilizzano strumenti processuali per perseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l’ordinamento li ha predisposti (v. Cass. 07/3/2017, n. 5677 e Cass. SU 15/05/2015, n. 9935). Il parametro cui va rapportato l’istituto e che anzi ne costituisce il suo fondamento, conferendogli piena cittadinanza nell’ordinamento processuale considerato nel suo complesso, non è l’art. 24 Cost. ma l’art. 111 Cost., là dove in particolare, ai commi primo e secondo, sancisce il principio del giusto processo regolato dalla legge e quello, al primo consustanziale, della sua ragionevole durata. Ribaltando in tal modo la prospettiva atomistica e focalizzata al singolo caso da cui muove l’esegesi qui non condivisa, può dirsi che l’istituto, lungi dal comprimere o limitare il diritto costituzionalmente tutelato di agire e difendersi in giudizio, è diretto piuttosto ad assicurarne l’effettiva attuazione, sanzionando quelle condotte che, abusando di quel diritto, contribuiscono al moltiplicarsi del contenzioso e limitano per ciò stesso (esse sì) l’accesso alla giurisdizione, che è risorsa limitata. Ciò non esclude certo che il presupposto cui ancorare la sanzione continui ad essere rappresentato dalla mala fede e della colpa grave della parte.

Supporto alla lettura

RESPONSABILITA’ AGGRAVATA

L’art. 96 c.p.c sanziona quel comportamento illecito della parte, poi risultata soccombente nel giudizio, che dia luogo alla c.d. “lite temeraria“, cioè quel comportamento della parte che nonostante sia consapevole dell’infondatezza della sua domanda o eccezione (mala fede), la propone ugualmente, costringendo la controparte a partecipare ad un processo immotivato.

Inoltre, viene sanzionata la mancanza di quel minimo di diligenza richiesta per l’acquisizione di tale consapevolezza (colpa grave).

La legge configura in tale comportamento una responsabilità aggravata, ossia una responsabilità che si aggrava in quanto, essendo fondata su un illecito, comporta l’obbligo di risarcire tutti i danni che conseguono all’aver dovuto partecipare ad un processo privo di fondamento alcuno.

Si tratta di un istituto posto a tutela dell’interesse di una delle parti a non subire pregiudizi a seguito dell’azione o resistenza dolosa o colposa dell’altra parte.

Ambito oggettivo di applicazione

…omissis…

Fatti di causa

I ricorrenti indicati in epigrafe (insieme ad altri) convennero davanti al Tribunale di Roma la Presidenza del Consiglio dei Ministri e i Ministeri indicati in epigrafe, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni conseguenti alla mancata attuazione delle direttive europee 75/362/CEE, 75/363/CEE e 82/76/CEE, in tema di adeguata remunerazione spettante per la frequenza di corsi di specializzazione medica in cui si erano immatricolati a far tempo dall’anno 1983.

Con sentenza n. 4547 del 2021, depositata il 15 marzo 2021, il Tribunale rigettò le domande per intervenuta prescrizione.

La Corte d’appello di Roma, con ordinanza n. 7280 del 2022, depositata il 5 ottobre 2022, ha dichiarato l’inammissibilità dell’appello ex art. 348 bis e ter cod. proc. civ. e ha condannato ciascun appellante al pagamento della somma di Euro 1.000,00 in favore delle amministrazioni appellate, ai sensi dell’art. 96, terzo comma, cod. proc. civ.

Avverso la sentenza di primo grado viene proposto ricorso per cassazione, sulla base di due motivi, censurandosi altresì la statuizione di condanna ex art. 96, terzo comma, cod. proc. civ., contenuta nell’ordinanza di inammissibilità dell’appello.

Rispondono con controricorso le amministrazioni intimate, chiedendo, anche con riguardo al presente giudizio di legittimità, la condanna dei ricorrenti al risarcimento del danno per lite temeraria, quantificando la somma invocata a tale titolo in Euro 1.000 per ogni ricorrente.

La trattazione del ricorso è stata fissata in adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.

Il pubblico ministero non ha presentato conclusioni scritte.

I ricorrenti hanno depositato memoria, con la quale, nell’insistere per l’accoglimento del ricorso, hanno preso posizione sui presupposti (che reputano insussistenti, richiamando l’ordinanza n.28441 del 2023 della Prima Sezione Civile di questa Corte) della condanna ex art.96, terzo comma, cod. proc. civ.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso viene impugnata la sentenza di primo grado e viene denunciata, ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., “violazione e falsa applicazione delle norme e dei principi in materia di risarcimento del danno derivante da omesso e/o tardivo recepimento di direttive comunitarie nonché degli artt. 5 e 189 del Trattato CEE, dell’art. 10 Cost.; dell’art. 19, comma 1, seconda parte, del Trattato sull’Unione Europea; dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, cd. Carta di Nizza (approvata il 7 dicembre 2000); delle Dir. CEE 82/76, 75/363 e 93/16, delle sentenze della Corte di Giustizia Europea 25 febbraio 1999 (procedimento C-131/97) e del 3 ottobre 2000; violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU; degli artt. 1, 10, 11 e 12 delle Preleggi; degli artt. 2934,2935 e 2938 c. c., dell’art. 6 del D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257 (in Gazz. Uff., 16 agosto, n. 191), nonché dell’art. 11 della Legge n. 370/99”.

I ricorrenti sostengono che la legge n. 370 del 1999 non può assumere rilievo ai fini della determinazione del danno risarcibile e, conseguentemente, neanche ai fini della individuazione della data di decorrenza del termine di prescrizione.

Il giudice del merito avrebbe quindi errato, omettendo di considerare che la prescrizione non avrebbe potuto farsi decorrere se non da quando sarebbero state elise le incertezze giurisprudenziali di settore (e dunque dal 17 maggio 2011, atteso che nel 2005 era stata fugata l’incertezza sulla giurisdizione, nel 2009 quella sulla natura dell’azione esperibile e, appunto nel 2011, quella sulla legittimazione passiva unica dello Stato), anche alla luce della giurisprudenza comunitaria, eventualmente da investire con rinvio pregiudiziale, attesa la necessità di assicurare la piena ed effettiva attuazione della normativa sovranazionale.

1.1. Il motivo è inammissibile, a norma dell’art. 360-bis, n. 1, cod. proc. civ.

1.1.a. È ormai ius receptum, nella giurisprudenza di questa Corte, il principio secondo cui il diritto al risarcimento del danno da inadempimento della direttiva n. 82/76/CEE, riassuntiva delle direttive n. 75/362/CEE e n. 75/363/CEE, sorto in favore dei soggetti che avevano seguito corsi di specializzazione medica iniziati, dopo l’applicabilità del regime eurounitario ed entro l’anno accademico 1990-1991, in condizioni tali che, se detta direttiva fosse stata attuata, avrebbero acquisito i diritti da essa previsti, si prescrive nel termine di dieci anni decorrente dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore dell’art.11 della legge 19 ottobre 1999, n. 370 (cfr. già Cass. 09/02/2012, n. 1917, che riprende Cass. 17/05/2011, nn. 10813, 10814, 10815, 10816 del 2011; successivamente, ex multis, Cass. 15/11/2016, n. 23199; Cass. 31/05/2018, n. 13758; Cass., Sez. Un., 27/11/2018, n. 30649; Cass. 19/06/2019, n. 16452; Cass. 19/07/2019, n. 16452; Cass. 24/01/2020, n. 1589; Cass. 07/07/2020, n. 14112; Cass. 11/09/2020, n. 18961; Cass.13/12/2021, n. 39421; Cass. 11/02/2022, n. 4573; Cass. 14/03/2022, n. 8096; Cass., Sez. Un., 31/05/2022, n. 17619; Cass., Sez. Un., 09/06/2022, n. 18640; Cass. 27/09/2022, n. 28130; Cass. 09/11/2022, n. 32959; Cass.03/03/2023, n.23697; Cass. 03/08/2023, n. 23771; Cass. 07/08/2023, n. 24029; Cass. 06/12/2023, n. 34212; Cass. 30/12/2023, n.36556; Cass. 14/03/2024, n.6891; Cass. 25/03/2024, n.7984; Cass. 02/04/2024, n.8691; Cass. 03/04/2024, n. 8715; Cass. 05/04/2024, n. 9168).

1.1.b. Questo consolidato orientamento trova fondamento nel rilievo secondo il quale, “a seguito della tardiva ed incompleta trasposizione nell’ordinamento interno delle direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, relative al compenso in favore dei medici ammessi ai corsi di specializzazione universitari – realizzata solo con il D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257 – è rimasta inalterata la situazione di inadempienza dello Stato italiano in riferimento ai soggetti che avevano maturato i necessari requisiti nel periodo che va dal 1° gennaio 1983 al termine dell’anno accademico 1990-1991. La lacuna è stata parzialmente colmata con la L. 19 ottobre 1999, n. 370, art. 11, che ha riconosciuto il diritto ad una borsa di studio soltanto in favore dei beneficiari delle sentenze irrevocabili emesse dal giudice amministrativo; ne consegue che tutti gli aventi diritto ad analoga prestazione, ma tuttavia esclusi dal citato art. 11, hanno avuto da quel momento la ragionevole certezza che lo Stato non avrebbe più emanato altri atti di adempimento alla normativa Europea. Nei confronti di costoro, pertanto, la prescrizione decennale della pretesa risarcitoria comincia a decorrere dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore del menzionato art. 11” (così la citata Cass. n. 1917 del 2012).

1.1.c. In senso contrario, non assume rilevanza l’argomento secondo il quale solo in tempi ampiamente successivi al 1999 la giurisprudenza di questa Corte avrebbe escluso quelle incertezze inibenti la decorrenza della prescrizione in pregiudizio del danneggiato, relative ad aspetti quali: l’individuazione della giurisdizione, se ordinaria o amministrativa; la natura dell’azione esperibile, se contrattuale o aquiliana; il termine di prescrizione; l’individuazione del legittimato passivo della domanda.

Detti argomenti – come già questa Corte ha più volte avuto modo di rimarcare (tra le più recenti, cfr. la citata Cass. 09/11/2022, n.32959) – sono del tutto infondati e inidonei a indurre a un ripensamento della stabile nomofilachia sopra richiamata.

Giova ricordare, al riguardo, che la questione della giurisdizione non incide affatto sulla consapevolezza della cristallizzazione della lesione e quindi sulla possibilità, per il danneggiato, di interrompere la sua inerzia e il decorso del termine prescrizionale che, come noto, non ha bisogno di iniziative giurisdizionali ma può ben essere stragiudiziale.

Del pari, non ha alcun rilievo l’individuazione della natura dell’azione esperibile mentre la più ampia durata decennale della prescrizione, quale riconosciuta, fa sì che la predetta individuazione non abbia avuto alcun riflesso sulla maturazione della stessa.

Quanto alla legittimazione passiva – premesso che è dello Stato in persona della Presidenza del Consiglio dei Ministri, mentre l’evocazione in giudizio di un diverso organo statuale non si traduce nella mancata instaurazione del rapporto processuale, costituendo una mera irregolarità, sanabile ai sensi dell’art. 4 della legge n. 260 del 1958 (Cass., Sez. Un., 27/11/2018, n. 30649), sicché solo se diretta nei confronti della sola Università l’interruzione della prescrizione risulta inidonea (Cass.25/07/2019, n. 20099) – va osservato che dalla normativa del 1999 doveva ragionevolmente desumersi che il destinatario del credito era individuabile nell’amministrazione statale e non nell’autonomia universitaria.

1.1.d. Con riferimento alla remunerazione, deve porsi in evidenza che, a séguito dell’intervento con il quale il legislatore – dettando l’art. 11 della legge 19 ottobre 1999, n. 370 – ha effettuato una aestimatio del danno, alla precedente obbligazione risarcitoria per mancata attuazione delle direttive si è sostituita un’obbligazione satisfattiva avente natura di debito di valuta, iscritta in una cornice di disciplina comunitaria nella quale non è rinvenibile una definizione di retribuzione adeguata, né sono posti i criteri per la determinazione della stessa, come ribadito anche dalla pronuncia della Corte di giustizia 24 gennaio 2018, C-616/16 e C-617-16 (cfr., ancora, tra le più recenti, la citata Cass. n. 32959 del 2022, nonché, in modo articolato, Cass.24/01/2020, n. 1641).

1.1.e. Quanto sopra si coordina con i rilievi da svolgere in ordine alla disciplina del trattamento economico dei medici specializzandi di cui all’art. 39 del D.Lgs. n. 368 del 1999, la quale è applicabile, per effetto di ripetuti differimenti, in favore dei medici iscritti alle scuole di specializzazione a decorrere dall’anno accademico 2006-2007 e non a quelli iscritti negli anni antecedenti, che restano soggetti alla regolazione di cui al D.Lgs. n. 257 del 1991, sia sotto il profilo ordinamentale che economico, giacché, in particolare, la direttiva n. 93/16 non ha introdotto alcun nuovo e ulteriore obbligo con riguardo alla misura della borsa di studio.

In altre parole, non è individuabile alcun momento in cui si è stabilita una remunerazione adeguata da valutarsi come la sola recettiva della disciplina unionale, tale da poter concludere, anche in tesi, che esclusivamente a far data da allora avrebbe potuto decorrere la prescrizione (cfr., in termini, Cass. 09/11/2022, n. 32959, cit.).

1.1.f. Alla luce di quanto si è rilevato, non vi è alcuna incertezza, sulla questione in esame, che imponga il rinvio interpretativo ex art. 267 T.F.U.E.

In proposito, i ricorrenti hanno formulato espressa istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, per investirla della seguente questione: “se alla stregua del diritto dell’unione, un rimedio giurisdizionale possa considerarsi effettivo prima che sia definita la natura giuridica dell’azione esperibile, con le conseguenti ricadute sui termini di prescrizione, prima che sia identificato il soggetto legittimato passivamente e prima che sia individuata la giurisdizione interna competente a conoscere la domanda”.

L’istanza non può essere accolta, atteso che questa Corte ha già rilevato – cfr., ad es., la già citata Cass., Sez. Un., n. 18640 del 2022 – come, alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia che si è occupata della decorrenza e del dies a quo della prescrizione in relazione alla posizione dei medici specializzandi, non emerga un potenziale contrasto tra la soluzione adottata e il principio di effettività tutelato dal diritto europeo, in quanto la predetta soluzione appare ampiamente rispettosa del richiamo a termini di prescrizione “ragionevoli”, mediante i quali sia garantita l’adeguatezza dei mezzi di tutela a fronte di un’azione giurisdizionale proposta da un singolo per ottenere la protezione dei diritti conferiti da una direttiva comunitaria.

Nella specie, non solo a partire dal 27 ottobre 1999 nessuna norma dell’ordinamento interno impediva agli odierni ricorrenti di promuovere un giudizio per domandare il risarcimento del danno da tardiva attuazione delle direttive comunitarie, ma – deve aggiungersi – nessuna incertezza poteva sussistere su quale fosse il soggetto tenuto a rispondere di tale danno (lo Stato), né poteva dubitarsi che qualsiasi eventuale incertezza circa l’individuazione del giudice munito di giurisdizione a conoscere della relativa domanda non poteva impedire il decorso della prescrizione, dal momento che qualsiasi eventuale errore poteva essere rimediato mediante lo strumento del regolamento di giurisdizione (cfr., ancora, sul punto, la citata Cass. n.32959 del 2022).

1.1.g. Va pure sottolineata la compatibilità della soluzione adottata con i principi affermati dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani concernente la tutela del diritto di accesso ad un tribunale, sancito dall’art. 6, par. 1 della Convenzione Europea dei Diritti Umani; da questa giurisprudenza, infatti, si ricava che, se, da un lato, il diritto di accesso ad un tribunale deve essere “concreto ed effettivo” (Bellet c. Francia, 4.12.1995; Zubac c. Croazia, 5.4.2018), nonché offrire alla persona “una chiara e concreta possibilità di opporsi ad un atto che costituisce un’ingerenza nei suoi diritti” (Bellet c. Francia, cit.; Nunes Dias c. Portogallo, 10.4.2003; Fazliyski c. Bulgaria, 16.7.2013), dall’altro lato le norme che disciplinano le formalità e i termini da rispettare al fine della presentazione di un ricorso o di una domanda di riesame giudiziario sono finalizzate ad assicurare la corretta amministrazione della giustizia e in particolare il rispetto del principio della certezza del diritto (Canete de Goni c. Spagna, 15.10.2003); è pertanto necessario, alla stregua dell’orientamento della Corte di Strasburgo, che i tribunali applichino le norme procedurali evitando sia l’eccessivo formalismo che l’eccessiva flessibilità che vanificherebbe i requisiti procedurali stabiliti dalla legge (Hasan Tunc ad altri c. Turchia, 30.4.2017).

In particolare, con riferimento ai termini di prescrizione, la Corte EDU (Miragall Escolano e altri c. Spagna, 30.4.2000) si è limitata ad affermare che il diritto di instaurare un’azione o di proporre appello deve sorgere a decorrere dal momento in cui le parti hanno potuto effettivamente essere informate di una decisione giudiziaria che impone loro un obbligo o lede potenzialmente i loro legittimi diritti o interessi.

Non appare dunque ipotizzabile, nel caso di specie, la possibilità di una violazione dell’art. 6 della Convenzione, se solo si consideri che la prescrizione del diritto al risarcimento del danno per tardiva attuazione delle direttive comunitarie è fissata in dieci anni, secondo la chiara indicazione fornita dalle Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., n. 9147 del 17/04/2009) e che il diritto era esercitabile immediatamente, non necessitando della proposizione preventiva dell’azione davanti al giudice amministrativo, trattandosi di diritto autonomo, scaturente dalla condotta dello Stato italiano (in termini, in motivazione, Cass., Sez. Un., n. 18640 del 2022, cit.).

1.1.h. Quanto alla giurisprudenza della Corte di Giustizia che si è occupata del dies a quo della prescrizione relativa ai medici specializzandi, essa – come già si è osservato in precedenti arresti -ha evidenziato l’insussistenza di un potenziale contrasto tra la soluzione adottata e il principio di effettività tutelato dal diritto europeo, apparendo la soluzione sopra illustrata di certo rispettosa del richiamo a termini di prescrizione “ragionevoli” ed idonea a garantire l’adeguatezza dei mezzi di tutela per un’azione giurisdizionale proposta dai singoli per ottenere la protezione dei diritti conferiti da una direttiva comunitaria. Nella specie, non solo a partire dal 27 ottobre 1999 nessuna norma dell’ordinamento interno impediva agli odierni ricorrenti di promuovere un giudizio per domandare il risarcimento del danno da tardiva attuazione delle direttive comunitarie, ma – deve aggiungersi – nessun dubbio poteva sussistere su quale fosse il soggetto tenuto a rispondere di tale danno (lo Stato), e qualsiasi eventuale incertezza in ordine all’individuazione del giudice munito di giurisdizione a conoscere della relativa domanda non poteva ostare al decorso della prescrizione, dal momento che ogni eventuale errore poteva essere emendato mediante lo strumento del regolamento di giurisdizione (cfr., ancora, sul punto, le citate Cass. n. 18640 del 2022 e n.32959 del 2022).

1.1.i. Sulla base di tutte le considerazioni che precedono, può concludersi che la statuizione di rigetto della domanda dei ricorrenti (originari attori), in accoglimento dell’eccezione preliminare di merito di prescrizione del diritto risarcitorio (sollevata dalle amministrazioni convenute), è stata correttamente assunta dal giudice del merito, conformandosi, in piena legittimità, ai principi consolidati reiteratamente affermati da questa Corte ed assurti a situazione di “diritto vivente”.

Il primo motivo di ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile, ex art. 360-bis, n.1 cod. proc. civ.

2. Con il secondo motivo viene impugnata la statuizione di condanna ai sensi dell’art.96, terzo comma, cod. proc. civ., contenuta nell’ordinanza con cui la Corte d’appello ha dichiarato inammissibile l’impugnazione ai sensi dell’art.348-bis cod. proc. civ.; i ricorrenti denunciano “violazione e falsa applicazione dell’art. 96, comma 3 c.p.c. e dell’art. 5 quater della legge n. 89/01 in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c. e dell’art. 111 della Cost.”.

I ricorrenti contestano l’apprezzamento di temerarietà e pretestuosità dell’iniziativa giudiziaria compiuto dalla Corte d’appello e, richiamando il diverso apprezzamento compiuto, al riguardo, dal Tribunale (che aveva disposto la compensazione delle spese, sul rilievo del contrasto e della continua evoluzione giurisprudenziale sulla questione della prescrizione), deducono l’insussistenza dei presupposti della condanna al pagamento della somma equitativamente determinata.

2.1. Il motivo è inammissibile.

Se, per un verso, l’ordinanza di inammissibilità dell’appello ex art. 348-bis cod. proc. civ., nella formulazione antecedente alla riforma operata con il D.Lgs. 10 ottobre 2022, n.149, è ricorribile per cassazione, ex art. 111, comma 7, Cost., limitatamente ai vizi suoi propri costituenti violazioni della legge processuale, ove compatibili con la logica e la struttura del giudizio ad essa sotteso (cfr., ad es., Cass. 21/08/2018, n. 20861; Cass. 06/11/2023, n. 30759), per altro verso, tuttavia, la censura in sede di legittimità della condanna ex art.96 terzo comma, cod. proc. civ., per mancanza dei suoi presupposti è, ex se, inammissibile, ove la condanna stessa sia stata – come nella specie – debitamente motivata.

Anche l’accertamento della condotta processuale abusiva costituente il fondamento della condanna ex art.96, terzo comma, cod. proc. civ., come ogni ipotesi di responsabilità processuale aggravata o di temerarietà della lite, costituisce, infatti, oggetto di un apprezzamento di merito, come tale insindacabile in sede di legittimità (Cass. 08/09/2003, n. 13071; Cass. 12/01/2010, n. 327; Cass.04/03/2022, n. 7222).

In definiva, il ricorso va dichiarato inammissibile.

3. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

4. I ricorrenti vanno anche condannati al pagamento, in favore delle controparti vittoriose, di una somma equitativamente determinata, ai sensi dell’art.96, terzo comma, cod. proc. civ.

4.1. Ciò, in ragione della circostanza che le censure proposte -tutte, come si è veduto, inammissibili -, infrangendosi su orientamenti nomofilattici consolidati da molto tempo, si sono tradotte in una condotta processuale connotata da mala fede o colpa grave, contraria ai canoni di correttezza, nonché idonea a determinare oggettivamente, attraverso un uso abusivo del mezzo di impugnazione, un ingiustificato sviamento del sistema processuale dai suoi fini istituzionali, ponendosi in posizione incompatibile con un quadro ordinamentale che, da una parte, deve universalmente garantire l’accesso alla tutela giurisdizionale dei diritti (art.6 CEDU) e, dall’altra, deve tenere conto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo e della conseguente necessità di strumenti dissuasivi rispetto ad azioni meramente dilatorie, defatigatorie o pretestuose. Tale condotta si presta, dunque, ad essere sanzionata con la condanna dei soccombenti al pagamento, in favore delle controparti, di una somma equitativamente determinata, ai sensi dell’art.96, terzo comma, cod. proc. civ. (Cass. 04/08/2021, n. 22208; Cass. 21/09/2022, n. 27568; Cass. 05/12/2022, n. 35593).

4.2. Non si condivide, in proposito, il diverso opinamento espresso, in una fattispecie assimilabile alla presente, da Cass. Sez. 1 Ordinanza n. 28441 del 12/10/2023 (evocata in memoria dal difensore dei ricorrenti successivi per resistere alla richiesta, avanzata dalle amministrazioni nel controricorso, di applicazione di detta sanzione processuale).

Si argomenta in detto precedente che:

– “per applicare la norma in questione occorre individuare un quid pluris rispetto alla soccombenza totale e cioè un profilo di dolo o colpa grave nel promuovere l’azione (o nel resistere), ravvisabile nella consapevolezza della infondatezza della domanda ma anche nella consapevolezza della infondatezza delle tesi sostenute, ovvero nel difetto della normale diligenza per l’acquisizione di detta consapevolezza (Cass. n. 9060/2003); vale a dire che la parte non solo deve essere consapevole (o colpevolmente inconsapevole) del contrasto con la corrente interpretazione giurisprudenziale delle norme che governano la fattispecie, ma anche della infondatezza della lettura alternativa proposta ovvero della richiesta di applicare norme diverse”;

– “agire o resistere in giudizio con mala fede o colpa grave significa infatti, come precisato dalle Sezioni Unite di questa Corte, azionare la propria pretesa, o resistere a quella avversa, con la coscienza dell’infondatezza della domanda o dell’eccezione; ovvero senza aver adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza della propria posizione; e comunque senza compiere alcun serio sforzo interpretativo, deduttivo, argomentativo, per mettere in discussione con criteri e metodo di scientificità il diritto

vivente o la giurisprudenza consolidata, sia pure solo con riferimento alla singola fattispecie concreta (Cass., Sez. Un., n. 32001 del 2022)”;

– “questa interpretazione restrittiva si giustifica in quanto l’art. 96 c.p.c. introduce un limite alla libertà, costituzionalmente tutelata, di agire (o resistere) in giudizio a difesa dei propri diritti e quindi ha carattere eccezionale, sicché una sua interpretazione lata nonché ogni automatismo correlato alla sconfitta processuale verrebbe a contrastare con i principi della Costituzione e segnatamente dell’art. 24 (Cass. n. 19948 del 2023)”;

– “nella fattispecie, la parte è consapevole, come sopra detto, che l’orientamento di legittimità è a lei sfavorevole, nondimeno si avvale del suo diritto – indirettamente riconosciuto dallo stesso art. 360-bis c.p.c. ma prima ancora tutelato dall’art 24 Cost. – di esporre rilevi critici ad esso e di sollecitare un ripensamento della Corte, esponendo un ragionamento che, pur trascurando alcuni passaggi, tuttavia si sviluppa secondo un percorso razionale; sicché non si ravvisa nei ricorrenti alcun indice di consapevolezza (o di colpevole inconsapevolezza) della non idoneità delle loro tesi difensive a determinare l’auspicato mutamento giurisprudenziale”.

4.3. Degli esposti enunciati, questo Collegio condivide i primi due ma non il terzo né tanto meno l’ultimo.

Quanto al fondamento ed alla compatibilità a Costituzione dell’istituto in esame – fermo restando che certamente non è predicabile, e qui certamente non si intende affermare, alcun automatismo tra la soccombenza in giudizio e la condanna ex art. 96, terzo comma, cod. proc. civ., non foss’altro per la chiara rubrica dell’articolo che accomuna tale disposizione alle altre che definiscono e disciplinano la responsabilità “aggravata” della parte soccombente – appare invero riduttiva una lettura che lo rapporti (solo) alla previsione dell’art. 24 Cost. per fondarne una interpretazione restrittiva ed eccezionale in termini tali da rischiare di svuotarne totalmente la funzione e la pratica applicabilità.

Occorre muovere dalla premessa che l’istituto, dalla indubbia finalità sanzionatoria (v. Cass., Sez. Un., 05/07/2017, n. 16601), è chiaramente volto a rafforzare in modo generalizzato, prescindendo cioè dalla domanda di parte, “le cosiddette sanzioni processuali, in funzione della più incisiva valutazione del comportamento delle parti durante il processo” (così la relazione). In tal modo esso si pone in evidente correlazione con il fenomeno dell’abuso del processo, che la giurisprudenza di legittimità concepisce come esercizio del potere da parte di chi, pur essendone titolare legittimo, lo utilizza per fini diversi da quelli per i quali quel potere viene riconosciuto dalla legge, con la conseguenza che esso ricorre quando, con violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede e dei principi di lealtà processuale e del giusto processo, si utilizzano strumenti processuali per perseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l’ordinamento li ha predisposti (v. Cass. 07/3/2017, n. 5677; Cass., Sez. Un., 15/05/2015, n. 9935).

In quest’ordine di idee si colloca anche la giurisprudenza della Corte Costituzionale che, reputando costituzionalmente legittima, in riferimento agli artt. 3,24 e 111 Cost., la scelta legislativa di porre una sanzione adottabile anche d’ufficio a favore di una parte privata anziché dell’Erario, ha attribuito all’istituto in discorso una funzione sanzionatoria delle condotte di quanti abusando del proprio diritto di azione e di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori, contribuendo così ad aggravare il volume (già di per sé notoriamente eccessivo) del contenzioso e, conseguentemente, ad

ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti. Ad avviso della Corte costituzionale, quindi, l’art. 96, terzo comma, cod. proc. civ., istituisce una ipotesi di condanna di natura sanzionatoria e officiosa per “l’offesa arrecata alla giurisdizione che deve manifestare e garantire la ragionevole durata di un giusto processo, in attuazione di un interesse di rango costituzionale intestato allo Stato” (Corte cost. 23 giugno 2016, n. 152, ove si sottolinea anche la “la finalizzazione alla tutela di un interesse che trascende (o non è, comunque, esclusivamente) quello della parte stessa, e si colora di connotati innegabilmente pubblicistici”; v. anche Corte Cost. 6 giugno 2019, n. 139).

Ne deriva che il parametro cui va rapportato l’istituto e che anzi ne costituisce il suo fondamento, conferendogli piena cittadinanza nell’ordinamento processuale considerato nel suo complesso, non è l’art. 24 Cost. ma l’art. 111 Cost., là dove in particolare, ai commi primo e secondo, sancisce il principio del giusto processo regolato dalla legge e quello, al primo consustanziale, della sua ragionevole durata.

Ribaltando in tal modo la prospettiva atomistica e focalizzata al singolo caso da cui muove l’esegesi qui non condivisa, può dirsi che l’istituto, lungi dal comprimere o limitare il diritto costituzionalmente tutelato di agire e difendersi in giudizio, è diretto piuttosto ad assicurarne l’effettiva attuazione, sanzionando quelle condotte che, abusando di quel diritto, contribuiscono al moltiplicarsi del contenzioso e limitano per ciò stesso (esse sì) l’accesso alla giurisdizione, che è risorsa limitata.

4.4. Ciò non esclude certo che il presupposto cui ancorare la sanzione continui ad essere rappresentato dalla mala fede e della colpa grave della parte.

Come osserva Corte cost., sent. n. 139 del 2019, cit., richiamando Cass., Sez. Un., 20/04/2018, n. 9912, “l’incipit della disposizione censurata fa riferimento a “ogni caso”, scilicet, di responsabilità aggravata che, come enunciato nella rubrica della disposizione, ne costituisce l’oggetto, sicché devono intendersi richiamati i presupposti del primo comma: aver la parte soccombente agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave”.

La prospettiva valoriale sopra descritta impone però di interpretare tali presupposti (la cui consistenza semantica resta inevitabilmente indefinita, come è proprio delle clausole generali) come espressione di scopi o intendimenti abusivi, ossia strumentali o comunque eccedenti la normale funzione del processo, di modo che resterebbe ingiustificata una applicazione restrittiva e tendenzialmente abrogante della norma limitata solo ai casi in cui la mala fede o la colpa grave risultino in modo eclatante dal testo degli atti della parte soccombente (perché ad es. mancante di alcuna parte argomentativa o contenente tesi giuridiche manifestamente abnormi), astraendo dalla considerazione di altri elementi, anche extratestuali, che guardino al più ampio contesto in cui quella iniziativa si inserisce e che invece ben possono ugualmente, se non spesso a maggior ragione, evidenziarne il carattere abusivo a prescindere dalla intrinseca apparente razionalità degli argomenti esposti nell’atto.

Ci si riferisce in particolare proprio all’ipotesi – che ricorre nella specie ma anche in altri numerosi casi in tema di “specializzandi” (del cui rilevante e persistente flusso statistico è questa Sezione ad avere maggiormente contezza, per competenza tabellare) – in cui il ricorso, pur in sé argomentato, si palesa in realtà esattamente identico o comunque proposto sulla base di argomenti già tutti esaminati e motivatamente confutati da altrettanto numerosi precedenti della Corte, senza che tali motivazioni vengano contrastate in modo puntuale e pertinente ma solo attraverso la reiterazione degli stessi argomenti.

Basti in tal senso considerare che, nella specie, nelle pur numerose pagine del ricorso, i riferimenti alla giurisprudenza di questa Corte non si curano di prendere in esame, e tanto meno di sottoporre a “rilievi critici”, le numerosissime conformi pronunce, sopra ricordate, intervenute sui temi evocati sia prima della proposizione dei ricorsi che nelle more del giudizio di legittimità (circostanza, quest’ultima, che non appare di minor rilievo, dal momento che la mala fede o la colpa grave rilevante ai fini in esame ben possono emergere o essere rappresentate, specie nella prospettiva accolta, anche dalla mancata rinuncia al ricorso, una volta che si abbia consapevolezza dell’intervento di pronunce che, sulle stesse identiche questioni e sugli stessi argomenti difensivi, si sono ripetutamente espresse in senso chiaramente e univocamente contrario alle aspettative della parte).

4.5. Si conferma, dunque, la sussistenza, nella fattispecie, dei presupposti per la condanna dei ricorrenti al pagamento, in favore delle controparti controricorrenti vittoriose, di una somma equitativamente determinata, ai sensi dell’art.96, terzo comma, cod. proc. civ., il cui importo può essere quantificato nella misura indicata in dispositivo.

5. Sussistono, infine, i presupposti processuali di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna i ricorrenti, in solido tra loro, a rimborsare alle amministrazioni controricorrenti le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.600,00 oltre le spese prenotate a debito; condanna altresì i ricorrenti, in solido tra loro, a pagare alle amministrazioni controricorrenti, ai sensi dell’art.96, terzo comma, cod. proc. civ., la somma equitativamente determinata di Euro 4.300,00, oltre interessi legali dalla pubblicazione della presente sentenza al saldo; ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile della Corte di cassazione, in data 18 aprile 2024.

Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2024.

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