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Cassazione civile sez. III, 17/05/2025, n. 13145

Massima

In tema di liquidazione delle spese processuali, il valore della causa si determina secondo il principio del decisum, ovvero in base alla somma riconosciuta dal giudice o, in sede di appello, alla sola parte del credito ancora oggetto di contestazione. L’erronea dichiarazione del difensore circa il valore della controversia ai fini del contributo unificato, benché irrilevante per la determinazione del valore della domanda giudiziale (in quanto destinata al funzionario di cancelleria), può tuttavia costituire una grave ed eccezionale ragione per la compensazione delle spese del giudizio di impugnazione, qualora abbia indotto in errore il giudice adito nella definizione dello scaglione applicabile per la liquidazione delle spese nel provvedimento emesso.

Supporto alla lettura

SPESE PROCESSUALI

I costi previsti quando si fa ricorso all’Autorità Giudiziaria sono generalmente definiti spese processuali. Questi possono essere di varia natura, ma in particolare le parti devono sostenere complessivamente:

  • spese legali: spese che ciascuna parte deve versare al legale (nell’ordinamento italiano, fatte salve le eccezioni, la parte deve valersi dell’assistenza di un avvocato) che la assiste e difende nel giudizio, quantificabili sulla base di parametri stabiliti dalla legge (sia in caso di processo civile che di processo penale);
  • spese processuali: spese legate alla giustizia e all’attività degli organi giurisdizionali e devono essere tendenzialmente versate allo stato.

Il soggetto tenuto a versarle sarà individuato dalla stessa Autorità giudiziaria secondo il c.d. principio della soccombenza, con il quale il giudice condanna la parte soccombente al rimborso in favore della parte vittoriosa di tutte le spese legali e processuali da questa sostenute. A questo principio si affianca il c.d. principio di causalità, secondo il quale chi deve sostenere i costi del giudizio è colui che l’ha reso necessario proponendolo o resistendovi indebitamente.

Esistono però dei correttivi che consentono al Giudice di valorizzare il caso concreto, in quanto l’automatismo del principio della soccombenza può risultare troppo rigido e quindi non essere sempre la scelta più idonea.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

1. Su ricorso di (omissis) fu emesso decreto ingiuntivo, immediatamente esecutivo, nei confronti della Riscossione Sicilia Spa (ora Agenza delle Entrate Riscossione, per brevità, di seguito ADER).

Ad esito dell’opposizione all’esecuzione, intentata dalla (omissis) e basata su quel monitorio, proposta da ADER e del rigetto della richiesta di sospensione ex art. 615 comma 2 c.p.c., con condanna della stessa opponente al pagamento delle spese della fase sommaria, il Giudice assegnò il termine ex art. 616 c.p.c. per l’introduzione del giudizio di merito.

2. Nel rispetto di detto termine, nel 2021, la (omissis) conveniva in giudizio innanzi il Giudice di Pace di Palermo, la Riscossione Sicilia Spa (adesso Agenzia delle Entrate Riscossione), affinché venisse dichiarata infondata l’opposizione, proposta dalla convenuta avverso il decreto ingiuntivo.

Il Giudice di Pace di Palermo, istruita documentalmente la causa, con sentenza n. 1885/22 emessa nel contraddittorio delle parti, accoglieva integralmente la domanda attorea, ma, nel regolare le spese, tenuto conto del valore della causa identificato in Euro 1200,71, dapprima riduceva del 40% i parametri medi previsti dallo scaglione di riferimento e, quindi, compensava la somma complessivamente determinata in Euro 620 (di cui Euro 522 per compenso professionale ed Euro 98 per spese vive, oltre accessori di legge) nella misura del 50% e, quindi, liquidava le spese di lite in Euro 310 (di cui Euro 261 per compenso professionale ed Euro 49 per spese vive, oltre accessori di legge).

Avverso la sentenza del giudice di primo grado veniva proposto appello dalla (omissis), la quale, dichiarato il valore della causa in Euro 1200,71, deduceva la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. e chiedeva che, in parziale riforma della sentenza impugnata, la ADER fosse condannata all’ulteriore 50% delle spese di lite, “considerata l’ingiusta compensazione parziale delle spese di lite”.

Il Tribunale di Palermo con sentenza n. 986/2023, nel rigettare l’appello, confermava la sentenza del primo giudice e condannava parte appellante alle spese processuali relative al grado.

2. Avverso la sentenza del giudice di appello ha proposto ricorso la (omissis) in ordine al capo relativo alla sua condanna alle spese.

Parte intimata non ha svolto difese.

Per l’odierna adunanza il Procuratore Generale non ha rassegnato conclusioni scritte.

Il Difensore di parte resistente ha depositato memoria.

La Corte si è riservata il deposito della motivazione entro il termine di giorni sessanta dalla decisione.

Motivi della decisione

1. (omissis) articola in ricorso un solo motivo, con il quale denuncia: “violazione degli artt. 10 c.p.c., 13, comma 6, L 247/12 e 5 D.M. 55/14 aggiornato al Decreto 147/22 con la relativa tabella parametrica, in relazione all’art. 360, comma 1, punto 3 c.p.c.”, nella parte in cui il giudice di appello, in violazione dei parametri minimi previsti dallo scaglione di riferimento (sino ad Euro 1.100), l’ha condannata al pagamento della somma di Euro 2.010, 65 (euro 1.378 oltre accessori), mentre nel rispetto dei parametri minimi previsti da quello scaglione, avrebbe dovuto liquidare in favore di ADER la somma di Euro 484,42 (pari ad Euro 332, oltre accessori).

Sottolinea che, in sede di atto di appello, si era lamentata esclusivamente della compensazione parziale delle spese processuali relative al giudizio di primo grado.

Riconosce di avere, ai fini della determinazione del contributo unificato, erroneamente indicato in atto di appello come valore della controversia la somma di Euro 1.200,71, ma osserva che detta dichiarazione attiene esclusivamente alla determinazione del contributo unificato e non rileva sul valore della domanda giudiziale.

In definitiva, la ricorrente chiede che questa corte, previa cassazione senza rinvio della sentenza impugnata, determini in Euro 484,42 (euro 332, oltre accessori) le spese di lite oggetto di condanna del precedente Giudice. Il tutto con il favore delle spese processuali relative al giudizio di legittimità, da distrarsi a favore del difensore antistatario.

2. Il ricorso è fondato.

Come è noto, il D.M. 55/2014 disciplina i criteri di liquidazione del compenso dovuto al professionista dal proprio cliente, attraverso l’unificazione di diritti ed onorari nella nuova accezione omnicomprensiva di “compenso”, che, ai fini della liquidazione, tiene conto degli elementi, di cui all’art. 4 del decreto stesso (complessità delle questioni, pregio dell’opera, risultati conseguiti, ecc.).

Detti elementi – che vanno valutati in relazione (non a singoli atti o a singole fasi, ma) alla prestazione professionale nella sua interezza – sono applicabili in via generale e sono “destinati a riflettersi anche sulla liquidazione giudiziale effettuata per determinare il quantum delle spese processuali di cui la parte vittoriosa può pretendere il rimborso nei confronti di quella soccombente” (così, testualmente, in motivazione la sentenza delle Sezioni Unite n. 17405/2012).

Ed è consolidato il principio (affermato ad es. da Cass. n. 23873/2021) per cui le spese processuali si liquidano alla luce delle tabelle vigenti al momento della conclusione dell’attività giudiziale, ragion per cui i nuovi parametri vanno applicati ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del decreto ministeriale, che li prevede, e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, quantunque tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta in epoca precedente, quando ancora erano in vigore le tariffe professionali abrogate.

Come riconosciuto da disposizione di ordine generale del D.M. n. 55/2014 e come questa Corte ha di recente precisato (Cass, n. 35195/2022, che richiama anche Cass. n. 27871/2017), quando la domanda sia accolta, il valore della causa, ai fini del rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente, deve essere pari alla somma attribuita dal giudice (c.d. principio del decisum).

In estrema sintesi, in applicazione del suddetto principio, il valore della causa è pari:

a) per il giudizio di primo grado, alla somma domandata con l’atto introduttivo, se la domanda viene rigettata; e, alla somma accordata dal giudice, se la domanda viene accolta;

b) per il giudizio di appello, alla sola somma che ha formato oggetto di impugnazione, se l’appello è rigettato; e, alla maggior somma accordata dal giudice d’appello rispetto a quella ottenuta in primo grado dall’appellante, se l’impugnazione è accolta.

Nel caso di specie l’appellante aveva lamentato esclusivamente l’erronea compensazione parziale delle spese di lite e, quindi, chiesto la riforma parziale della sentenza di primo grado nella parte in cui aveva liquidato le spese processuali nella misura di Euro 620 (oltre accessori di legge su Euro 522), in luogo della ridotta misura di Euro 310 (oltre accessori di legge su Euro 261). Ragion per cui il valore del gravame era pari ad Euro 429,82 (Euro 310 oltre accessori di legge su Euro 261).

Pertanto, il giudice di appello, nel condannare la (omissis) al pagamento delle spese di quel grado in ragione della maggior somma di Euro 1.378, oltre accessori di legge (per un totale complessivo di Euro 2.010,65), è incorso nel vizio denunciato. Egli, infatti, nel liquidare le spese di lite in favore dell’ADER secondo i parametri minimi previsti dallo scaglione di riferimento, avrebbe dovuto tenere conto di quelli dello scaglione sino ad Euro 1.100, motivo per cui avrebbe dovuto, non constando ragioni per discostarsi dai valori minimi già applicati nella qui gravata sentenza, liquidare la somma di Euro 332 per compensi, oltre CPA, IVA e altri accessori di legge.

Occorre qui ribadire che l’applicazione del principio del decisum in grado di appello impone di determinare il valore della causa, ai fini della liquidazione delle spese, in base a quella sola parte del credito ancora oggetto di contestazione.

Ne consegue che la sentenza va cassata, limitatamente al capo sulle spese del grado di appello.

Inoltre, poiché non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, è possibile decidere la causa nel merito (ai sensi del secondo comma dell’art. 384 c.p.c.), liquidando le spese dovute per il grado di appello nel totale di Euro 332 per compensi (per le quattro fasi considerate dal d.m.), oltre CPA, IVA e altri accessori di legge.

3. Nonostante l’accoglimento del ricorso, le spese del presente giudizio possono essere compensate.

Vero è che, secondo un consolidato principio di diritto di questa Corte (cfr., tra le più recenti, Cass. n. 12770/2023), la dichiarazione del difensore attinente alla determinazione del contributo unificato è ininfluente sul valore della domanda, in quanto è indirizzata al funzionario di cancelleria, cui compete il relativo controllo, sicché, non appartenendo tale dichiarazione di valore alle conclusioni contenute nell’atto introduttivo del giudizio di merito, deve decisamente escludersi la possibilità di considerare la dichiarazione come parte della “domanda” nel senso cui vi allude il primo comma dell’art. 10 c.p.c., quando dice che “il valore della causa, ai fini della competenza, si determina dalla domanda a norma delle disposizioni seguenti”.

Senonché è di giustizia che l’errata dichiarazione del difensore non sia priva di rilievo ai fini della regolamentazione delle spese, essendo astrattamente idonea a indurre in errore il giudice che deve su di esse provvedere emanando il provvedimento conclusivo del giudizio dinanzi a lui; sicché non è equo che i costi dell’impugnazione resa necessaria dall’errore della parte ricadano sulla controparte, ove questa all’impugnazione stessa non abbia – come nella specie – neppure resistito; e quell’errata dichiarazione può, allora, integrare una grave ed eccezionale ragione di integrale compensazione delle spese di questo giudizio di legittimità.

Sul punto viene quindi affermato il seguente principio di diritto:

“La dichiarazione del difensore, attinente alla determinazione del contributo unificato, è ininfluente sul valore della domanda, in quanto è indirizzata al funzionario di cancelleria, cui compete il relativo controllo, ma, ove sia errata, può costituire una grave ed eccezionale ragione di compensazione delle spese processuali dell’impugnazione proposta dalla parte che voglia emendare l’errore in cui ha indotto il giudice adito nella determinazione dello scaglione applicabile per liquidare le spese nel provvedimento da lui emesso”.

Il tenore della presente pronunzia – che è (non di rigetto, inammissibilità o improponibilità del gravame, ma) di cassazione senza rinvio della sentenza impugnata – esclude l’applicabilità dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, per cui si dà atto che non sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.

P.Q.M.

La Corte, in accoglimento del ricorso, cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta; e, decidendo nel merito, condanna A.A.alla rifusione in favore della Agenzia delle entrate – Riscossione delle spese processuali del secondo grado, che si liquidano in Euro 332 per compensi, oltre CPA, IVA e altri accessori di legge; compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Terza Sezione Civile, il giorno 14 maggio 2025.

Depositato in Cancelleria il 17 maggio 2025.

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