1. F.F. convenne in giudizio, nel gennaio del 2010, davanti al Tribunale di Bologna, l’Ausl di B ed i dott.ri A.A.e G.G. chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni iure proprio e iure hereditatis subiti a seguito del decesso della propria madre H.H., avvenuto in data 15 dicembre 2005.
Espose a fondamento che:
– la sera del 23 aprile 2005 H.H. richiese l’intervento della guardia medica di B;
– il medico di turno, dott. G.G., recatosi in visita domiciliare, le diagnosticò una epigastralgia somministrandole una dose di (Omissis); anche il giorno seguente, avendo la paziente ricontattato la guardia medica, il medico di turno dott. A.A. confermò la diagnosi del giorno precedente e le somministrò ulteriore dose dello stesso farmaco;
– dopo una settimana la signora H.H. venne condotta al pronto soccorso di B da cui, essendole stato diagnosticato un infarto miocardico in atto, venne trasferita all’ospedale Sant’Orsola di B ove rimase ricoverata sino al 29 luglio 2005, subendo un intervento chirurgico di sostituzione della valvola mitralica;
– dimessa e trasferita a domicilio, la paziente decedette il 15 dicembre 2005 per i danni irreparabili subiti dal cuore in conseguenza del non tempestivo intervento cardiochirurgico effettuato tardivamente a causa dell’errata diagnosi iniziale formulata dai sanitari della guardia medica.
Ciò premesso, dedusse che:
– già al momento delle visite domiciliari del 23 e 24 aprile 2005 la madre aveva in corso un infarto miocardico;
– i due medici di guardia avevano formulato una diagnosi superficiale e negligente;
– la mancata effettuazione in quella occasione di un elettrocardiogramma aveva impedito di individuare per tempo la vera causa del malessere lamentato dalla paziente e di intervenire tempestivamente.
2. Instaurato il contraddittorio ed espletate due C.T.U. (la seconda, in rinnovo della prima, affidata a due specialisti), il Tribunale con sentenza n. 555 del 2016, rigettò la domanda avendo ritenuto che, pur essendo altamente probabile la presenza di un infarto del miocardio già il 23 e 24 aprile (come desumibile dalla presenza di aneurisma postinfartuale rilevato dall’ecocardiogramma eseguito presso il Sant’Orsola il 3/5/2005) e pur risultando, conseguentemente, non corretta la diagnosi formulata dai sanitari della guardia medica intervenuti in visita domiciliare il 23 e 24 aprile, nondimeno i due medici non si erano trovati davanti un quadro sintomatologico chiaramente indicativo del predetto evento, in particolare essendo controversa e non dimostrata la circostanza che, oltre al dolore addominale e al vomito (sintomi che da soli non avrebbero potuto indirizzare verso la diagnosi di infarto in atto), la paziente avesse loro riferito anche un dolore dorsale che, invece, avrebbe imposto la diagnosi differenziale con una crisi infartuale; a tale riguardo, il tribunale ritenne, in particolare, di non poter conferire determinante valenza alle deposizioni testimoniali della figlia e del marito dell’attrice, secondo i quali la paziente aveva riferito ai medici della guardia medica anche del dolore alla schiena, perché contrastanti con le risultanze emergenti dalla cartella clinica di accesso all’ospedale Sant’Orsola, in cui era annotato che il dolore dorsale era insorto improvvisamente il 3 maggio 2005.
3. In totale riforma di tale decisione, la Corte d’appello di Bologna, con sentenza n. 1090/2021, resa pubblica il 7 maggio 2021, ha accolto la domanda ed ha per l’effetto condannato gli appellati, Azienda Usl di B, A.A.e G.G., in solido tra loro, al pagamento in favore dell’appellante F.F. della somma complessiva di Euro 265.518,98, già rivalutata e comprensiva degli interessi compensativi per il danno da mora (di cui: Euro 239.698,87 per danno iure proprio da perdita del rapporto parentale; Euro 15.820,11, per “danno biologico terminale … ragguagliato all’invalidità totale per il periodo di tempo compreso tra il 3/5/2005 e 15/12/2005”; Euro 10.000, equitativamente determinato, per “danno morale terminale, incontestabilmente sofferto dalla paziente (come comprovato dall’insorgere della sindrome depressiva, segnalata durante il ricovero presso il reparto di geriatria dell’ospedale Sant’Orsola)” – oltre interessi legali dalla sentenza al saldo, nonché alla refusione delle spese processuali di entrambi i gradi del giudizio di merito.
4. Ha infatti ritenuto che:
a) come dedotto dall’appellante con il primo motivo di gravame, nel costituirsi nel giudizio di primo grado i convenuti non avevano contestato il fatto che la paziente avesse riferito il dolore dorsale, ma si erano limitati a dedurre la correttezza della diagnosi di epigastralgia e nausea e della somministrazione del (Omissis) nonché l’insussistenza di nesso causale tra tale diagnosi, l’infarto insorto il 3 maggio 2005 ed il successivo decesso della paziente;
b) quindi, alla stregua del principio di non contestazione dei fatti, doveva ritenersi acquisito il dato che la paziente avesse accusato sin dall’inizio i sintomi indicati in atto di citazione, tra i quali la componente dorsale del dolore che, secondo la C.T.U. collegiale, era molto suggestiva per la patologia di infarto del miocardio;
c) le deposizioni testimoniali del marito e della figlia dell’attrice (secondo le quali l’anziana paziente aveva riferito ad entrambi i sanitari della guardia medica i sintomi in questione), apparendo intrinsecamente coerenti e compatibili con le incontestate allegazioni in fatto di parte attrice, andavano rivalutate in rapporto a quelle emergenze istruttorie (dati anamnestici desunti dalla cartella clinica dell’ospedale Sant’Orsola) in considerazione delle quali il Tribunale aveva formulato il giudizio di irrilevanza probatoria;
d) le notizie anamnestiche contenute nella cartella clinica non avevano natura di certificazione amministrativa e ad esse, pertanto, non era applicabile lo speciale regime di cui agli articoli 2699 e seguenti c.p.c., in quanto non attinenti alle “attività espletate nel corso di una terapia o di un intervento”;
e) erano dunque tali informazioni – anche a non voler considerare l’indeterminatezza temporale e modale con cui le notizie in questione erano state raccolte e riportate nella cartella clinica e l’impossibilità di risalire al soggetto che le aveva materialmente scritte – ad assumere valore recessivo (essendo state sin da subito contestate dall’attrice e non essendo stata fornita dai convenuti prova idonea a confermarne la veridicità) rispetto alle dichiarazioni testimoniali di segno contrario rese dal marito e della figlia dell’attrice, dichiarazioni concordanti tra loro e coerenti con i fatti esposti nell’atto di citazione introduttivo del giudizio;
f) pertanto, in difetto di elementi che minassero l’attendibilità dei due testi, doveva darsi credito alla versione dei fatti da essi riferiti e doveva, quindi, concludersi che la sintomatologia riferita dalla paziente ai sanitari della guardia medica che la visitarono a domicilio nelle giornate del 23 del 24 aprile 2005 comprendeva anche l’indicazione del dolore dorsale;
g) essendo condiviso dai consulenti del giudice e delle parti che, se la componente dorsale del dolore fosse stata nota ai sanitari della guardia medica, certamente gli stessi avrebbero dovuto procedere alla richiesta di ulteriori accertamenti clinico-strumentali specialistici, in quanto la sintomatologia imponeva una diagnosi differenziata con la patologia anche di origine cardiaca, ne discendeva che l’errore diagnostico compiuto dai sanitari della guardia medica assumeva i caratteri di condotta negligente in correlazione causale con il successivo decesso della paziente.
5. Avverso tale sentenza l’Azienda Usl di B, A.A. nonché B.B., C.C., D.D.e E.E., eredi di G.G., deceduto nel corso del giudizio di secondo grado, propongono ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, cui resiste F.F., depositando controricorso.
6. È stata fissata per la trattazione l’odierna adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ., con decreto del quale è stata data rituale comunicazione alle parti.
Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo – rubricato “art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. e violazione degli artt. 115 comma 1 e 116 c.p.c.: difetto di motivazione della sentenza: errore di fatto/erronea applicazione del principio di non contestazione” – i ricorrenti lamentano che erroneamente la Corte d’appello abbia ritenuto non contestata la circostanza, affermata da parte attrice in citazione, che ai medici di guardia intervenuti a domicilio nei giorni del 23 e 24 aprile 2015, la paziente abbia riferito di accusare, oltre a dolore gastrico e vomito, anche mal di schiena.
Rilevano, infatti, che, “nel corpus della comparsa di costituzione” depositata in difesa dei sanitari, si era specificato che la sig.ra H.H. aveva riferito al dott. A.A. e al dott. G.G. della sussistenza di (soli) dolori alla bocca dello stomaco, di nausea e disturbi gastrointestinali, sintomi compatibili con una influenza gastro intestinale e responsivi al farmaco (Omissis) e si era anche precisato che, in occasione della seconda visita, la paziente aveva anche riferito di un netto miglioramento della propria condizione fisica.
Sostengono che in tal modo doveva considerarsi assolto l’onere della contestazione avendo essi convenuti assunto una posizione difensiva incompatibile, in termini oggettivi, con i fatti allegati, così implicitamente negandone l’esistenza.
Soggiungono che, peraltro, una approfondita contestazione sul punto (presenza o meno di dolore dorsale nel corso delle visite domiciliari) è potuta avvenire solamente all’esito dell’accertamento peritale, allorquando i secondi CC.TT.UU. hanno posto rilievo sulla sussistenza o meno di detto sintomo.
2. Con il secondo motivo – rubricato “Art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. e violazione dell’art. 2699 c.c.: errata motivazione della sentenza; art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. e violazione dell’art. 2697 c.c.: violazione e falsa applicazione delle regole sulla ripartizione degli oneri probatori in materia di responsabilità professionale medica” – i ricorrenti censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto non assistite da fede privilegiata le notizie anamnestiche contenute nella cartella clinica del S. Orsola e raccolte dal sanitario ivi operante ed ha conseguentemente posto a carico dei convenuti l’onere di provare che quelle dichiarazioni fossero state realmente rese dalla figlia della paziente, con ciò violando i criteri di riparto vigenti in materia.
3. Con il terzo motivo – rubricato “Art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. e violazione dell’art. 2699 c.c.: errata motivazione della sentenza; art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. e violazione dell’art. 2697 c.c.: violazione e falsa applicazione delle regole sulla ripartizione degli oneri probatori in materia di responsabilità professionale medica” – i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per aver negato non solo fede privilegiata ma anche alcuna rilevanza probatoria alle dichiarazioni anamnestiche raccolte il 3 maggio 2005 dal sanitario del Policlinico S.Orsola di B, in tal modo erroneamente giungendo alla conclusione che non sussisterebbero elementi “che minino l’attendibilità dei due testi”.
I giudici d’appello avrebbero pertanto violato, secondo i ricorrenti, il principio del libero convincimento e le regole poste dagli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e non avrebbero fatto buon governo dei principi sulla ripartizione dell’onere della prova in materia di accertamento del nesso causale in ambito di responsabilità medica.
4. Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano, infine, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., “omessa e/o contraddittoria motivazione della sentenza nella parte in cui la Corte territoriale ha riconosciuto e liquidato alla sig.ra F.F., iure hereditatis, il danno morale catastrofale”.
Rilevano che, secondo l’insegnamento della S.C., il danno morale c.d. catastrofale è risarcibile solo ove venga dimostrata una sofferenza psichica, di massima intensità anche se di durata contenuta, che, non essendo suscettibile di degenerare in danno biologico in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, non può che essere risarcita come danno morale, nella sua nuova e più ampia accezione; il danno biologico c.d. “terminale” ed il danno morale c.d. “catastrofale” costituiscono, dunque, poste di danno alternative tra loro e non possono dare luogo a cumuli di sorta.
Erroneamente, dunque, la Corte d’appello ha giustificato il riconoscimento di entrambe le voci di danno sulla base dello stesso identico presupposto: la ritenuta comparsa di sindrome depressiva.
5. I primi tre motivi, congiuntamente esaminabili per la loro stretta connessione, sono in parte inammissibili, in parte infondati.
5.1. A doversi dire inammissibile è, anzitutto, il primo motivo, con il quale i ricorrenti deducono la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., perché, secondo l’assunto e contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, non sussisteva la non contestazione ad opera di essi odierni ricorrenti della circostanza allegata in citazione secondo cui, tra i sintomi rappresentati ai sanitari della guardia medica intervenuti in visita domiciliare il 23 e il 24 aprile, vi fosse anche il dolore dorsale.
Tale motivo, infatti, da un lato, è privo di autosufficienza, non riportando in modo adeguato, a norma dell’art. 366 n. 6 c.p.c., il contenuto testuale della comparsa di costituzione dalla quale, secondo la lettura in questa sede offertane dalla stessa parte, dovrebbe desumersi la specifica contestazione del fatto; dall’altro lato, investe un elemento valutativo riservato al giudice del merito, atteso che – nel vigore del novellato art. 115 c.p.c., secondo cui la mancata contestazione specifica di circostanze di fatto produce l’effetto della relevatio ab onere probandi – spetta al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte (cfr., fra le altre, Cass. 11/06/2014, n. 13217; 07/02/2019, n. 3680, Rv. 653130; 28/10/2019, n. 27490; 17/05/2024, n. 13783).
5.2. La denuncia del vizio di “errore di fatto”, ove alla ipotesi del “travisamento della prova”, non trova, poi, alcuna pertinente declinazione nella illustrazione del motivo, non essendo in alcun modo indicata la fonte di prova il cui contenuto sia stato travisato, né tanto meno come e perché la si debba ritenere travisata, così da potersene predicare la sindacabilità nel giudizio di cassazione nei termini indicati da Cass. Sez. U. 05/03/2024, n. 5792.
5.3. Il secondo e il terzo motivo sono infondati.
Va rammentato in premessa che, secondo pacifico insegnamento, il principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c., se solleva la parte dall’onere di provare il fatto non specificamente contestato dal convenuto costituito, non esclude tuttavia che il giudice, ove dalle prove comunque acquisite emerga la smentita di quel fatto o una sua diversa ricostruzione, possa pervenire ad un diverso accertamento (Cass. 07/06/2023, n. 16028, Rv. 667816).
Alla luce di tale principio non può considerarsi un fuor d’opera il fatto che i giudici d’appello, dopo aver dato atto che la circostanza di cui s’è detto (pacificamente di centrale importanza nella valutazione della diligenza professionale dei sanitari nel caso de quo) non era stata specificamente contestata dai convenuti, abbiano nondimeno dedicato ampio spazio alla valutazione del materiale istruttorio pertinente e idoneo a offrire elementi di giudizio, in un senso e nell’altro, sulla medesima circostanza.
5.4. Ciò detto, deve anche darsi atto che, in effetti, è erronea l’affermazione contenuta in sentenza secondo cui al contenuto della cartella clinica redatta dai sanitari del pronto soccorso dell’Ospedale S. Orsola in occasione del ricovero il 5 maggio 2005 di H.H., in particolare là dove si riferisce la dichiarazione che è stata ad essi resa dalla odierna ricorrente, non può riconoscersi la fede privilegiata di cui all’art. 2700 cod. civ., per essere questa riservata (solo) alle “attività espletate nel corso di una terapia o di un intervento”.
L’assunto è evidentemente frutto di una erronea e parziale lettura della norma richiamata, alla luce della quale deve invero ritenersi che, come questa Corte ha avuto modo di chiarire, “il referto del pronto soccorso di una struttura ospedaliera pubblica è atto pubblico assistito da fede privilegiata e, come tale, fa piena prova sino a querela di falso della provenienza dal pubblico ufficiale che lo ha formato, delle dichiarazioni rese al medesimo, e degli altri fatti da questi compiuti o che questi attesti avvenuti in sua presenza restando, invece, non coperte da fede privilegiata le valutazioni, le diagnosi o, comunque, le manifestazioni di scienza o di opinione in essa espresse” (Cass. 16/09/2022, n. 27288, Rv. 665724; 24/09/2015, n. 18868, Rv. 636969).
5.5. Il valore di prova legale riguarda però il solo dato estrinseco della dichiarazione, ossia il fatto che quella dichiarazione fu effettivamente resa e lo fu con quel contenuto rappresentato nell’atto, non anche il valore probatorio intrinseco della dichiarazione medesima, ossia l’idoneità della stessa a dar prova del fatto che si tratta di provare (nella specie l’essere stato oppure no, il sintomo del dolore dorsale, rappresentato ai sanitari della guardia medica in occasione delle visite domiciliari del 23 e 24 aprile 2005).
In tale direzione a quella dichiarazione non può assegnarsi altra valenza che quella di confessione stragiudiziale resa ad un terzo, la quale, ai sensi dell’art. 2735, primo comma, secondo inciso, cod. civ., è liberamente valutabile dal giudice del merito.
5.6. Il che è quanto ha fatto la Corte di merito ponendo in raffronto il contenuto della cartella clinica e la dichiarazione in essa riportata con le deposizioni testimoniali e, quindi, motivatamente attribuendo a queste ultime valore probatorio prevalente.
Del tutto infondatamente di tale valutazione i ricorrenti si dolgono evocando, con il terzo motivo, l’art. 116 cod. proc. civ., essendo appena il caso di rammentare che in sede di ricorso per cassazione, una questione di violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (v. ex multis Cass. Sez. U. n. 16598 del 2016; Id. n. 20867 del 2020).
5.7. Tutto ciò senza sottacere che risulta incontrastato (v. ricorso, pag. 23) il rilievo, cui la Corte d’appello dedica solo un accenno incidentale, ma che invece appare decisivo e assorbente ai fini della valutazione recessiva del valore probatorio della cartella clinica in questione, della impossibilità di risalire al soggetto che l’ha redatta.
6. Il quarto motivo è in parte inammissibile, in parte manifestamente infondato.
6.1. L’assunto che ne è posto a fondamento secondo cui la Corte avrebbe liquidato, per lo stesso pregiudizio, una somma a titolo di danno biologico e altra somma a titolo di danno morale non trova riscontro nella motivazione della sentenza impugnata, che al contrario risulta molto chiara nel distinguere il motivato apprezzamento, da un lato, di un “danno biologico terminale … ragguagliato all’invalidità totale per il periodo di tempo compreso tra il 3/5/2005 e 15/12/2005”, dall’altro, di sofferenze di carattere morale, bensì giustificate con riferimento alla documentata insorgenza di una sindrome depressiva, ma tuttavia valutata nella sua consistenza di pregiudizio riflettentesi nella sfera morale del danneggiato, collocantesi nella dimensione interiore del rapporto del soggetto con sé stesso, e non sul piano dinamico-relazionale della sua vita (v. Cass. 17/01/2018, n. 901; 27/03/2018, n. 7513). La Corte non ha detto che la sofferenza morale “si identifica” nella sindrome depressiva, né tanto meno ne ha indicato la consistenza nelle ripercussioni di carattere dinamico relazionale, ma che “è comprovata” da essa.
6.2. Né ha pregio argomentare su una presunta incompatibilità tra le due poste risarcitorie, la quale non ha alcun fondamento e non risulta mai affermata dalla giurisprudenza della S.C.
Ben diversamente è stato sempre (e solo) affermato, e va qui ribadito, che in tema di risarcimento del danno non patrimoniale in caso di morte causata da un illecito, il danno morale terminale e quello biologico terminale si distinguono perché il primo (danno da lucida agonia o danno catastrofale o catastrofico) consiste nel pregiudizio subito dalla vittima in ragione della sofferenza provata per la consapevolezza dell’approssimarsi della propria fine ed è risarcibile in base all’intensità della sofferenza medesima, indipendentemente dall’apprezzabilità dell’intervallo temporale intercorso tra le lesioni e il decesso, mentre il secondo è costituito dal pregiudizio alla salute che, anche se temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, sussiste per il tempo della permanenza in vita, a prescindere dalla cosciente percezione della gravissima offesa all’integrità personale della vittima, ed è risarcibile a condizione che tra le lesioni e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo (Cass. 23/03/2024, n. 7923, Rv. 670457 – 02; Cass. 30/08/2019, n. 21837, Rv. 655085 -01; Cass. 23/10/2018, n. 26727, Rv. 650909 – 01).
7. La memoria che, come detto, è stata depositata dai ricorrenti, ai sensi dell’art. 380-bis.1, comma primo, cod. proc. civ., non offre argomenti che possano indurre a diverso esito dell’esposto vaglio dei motivi.
8. Il ricorso deve essere pertanto rigettato.
Alla soccombenza segue la condanna dei ricorrenti, in solido, alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.
9. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, al competente ufficio, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 10.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, al competente ufficio, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 3 giugno 2024.
Depositato in Cancelleria il 13 giugno 2024.
