Esponeva che (omissis), la cui autovettura si era arenata sul greto del fiume, aveva richiesto a (omissis), dipendente della società in un vicino cantiere, di intervenire per recuperare il veicolo e che il convenuto, mentre guidava la macchina operatrice per raggiungere il luogo in cui l’autovettura era bloccata, in una ripida discesa, a causa della velocità, ne aveva cagionato il ribaltamento.
I convenuti si costituivano e contrastavano la domanda, cui gli attori rinunciavano nei confronti di (omissis).
Il tribunale adito condannava la società convenuta a pagare agli attori la somma di L. 245.441.000, oltre interessi e spese processuali, nella considerazione che essa dovesse risponderne, ai sensi degli artt. 2054 c.c., comma 3, e art. 2049 cod. civ., rispettivamente, quale proprietaria della macchina operatrice e quale committente per il fatto del suo dipendente.
Sul gravame principale della società soccombente e su quello incidentale di (omissis), in proprio e nella qualità, provvedeva la Corte d’appello di Venezia con la sentenza pubblicata il 27 novembre 2001, che, respinto l’appello incidentale, in accoglimento di quello principale rigettava la domanda di risarcimento dei danni e condannava (omissis) e (omissis) a pagare le spese del doppio grado del giudizio.
I giudici d’appello consideravano che la circolazione sulla pubblica via della macchina operatrice, non idonea a tale uso, era stata vietata dal titolare della società proprietaria del mezzo, ciò potendosi dedurre dal fatto che era stata rifiutata la prima richiesta di (omissis) di messa a sua disposizione della macchina, rivolta ad altro dipendente della società presente in cantiere, il quale aveva giustificato il suo diniego perchè una disposizione siffatta non poteva essere da lui impartita e perchè, in ogni caso, nessuna macchina poteva uscire dal cantiere.
Rilevavano, inoltre, che all’uso del caterpillar aveva poi acconsentito (omissis), dopo l’orario di chiusura del cantiere, e che la conseguente sua condotta clandestina di portare fuori del cantiere la macchina operatrice per un uso non consentito, potendo addirittura costituire il fatto-reato dell’appropriazione indebita, doveva far ritenere certa la proibizione del proprietario alla circolazione del mezzo.
Ritenevano, altresì, insussistente la responsabilità della società ai sensi dell’art. 2049 cod. civ., poichè la disponibilità del mezzo da parte del dipendente era limitata all’uso normale della macchina all’interno del cantiere, per cui era da escludere il nesso di causalità tra l’esercizio delle incombenze del dipendente e l’evento di danno, questo essendo derivato da una condotta posta in essere al di fuori delle mansioni consentite al lavoratore dipendente.
Per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso (omissis) e la figlia (omissis), le quali hanno affidato l’impugnazione a due motivi.
Ha resistito con controricorso la società (omissis) s.a.s. di (omissis) & C. s.a.s., che ha eccepito l’inammissibilità del ricorso in quanto i motivi esposti a sostegno dell’impugnazione concreterebbero censura in fatto.
Le ricorrenti hanno presentato memoria.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Osserva, anzitutto, questa Corte che non sussiste l’ipotesi dell’eccepita inammissibilità del ricorso per il fatto che i motivi dell’impugnazione prospetterebbero mere questioni in fatto, non consentite in sede di legittimità.
E’ pacifico, infatti, che, in materia di impugnazioni per cassazione, la prospettazione di una mera quaestio facti, pur rendendo inammissibile la censura, comporta il rigetto e non già l’inammissibilità del ricorso (da ultimo: Cass., n. 23077/2005).
Con il primo motivo d’impugnazione – deducendo la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 cod. proc. civ., n. 3, in relazione all’art. 2054 cod. civ.- le ricorrenti denunciano che il giudice di secondo grado avrebbe erroneamente interpretato il terzo comma del citato art. 2054 cod. civ. ritenendo che la circolazione su strada della macchina operatrice era avvenuta prohibente domino.
Assumono che il giudice d’appello avrebbe omesso l’indagine diretta ad accertare se la volontà del proprietario si fosse estrinsecata in un concreto comportamento specificamente idoneo a vietare ed impedire la circolazione dell’escavatore.
Sostengono, in particolare, che la società convenuta avrebbe dovuto dare la prova che al dipendente (omissis) era del tutto preclusa l’effettiva disponibilità della macchina operatrice e che le precauzioni, che all’uopo il proprietario avrebbe dovuto adottare, dovevano essere idonee ad impedire anche l’uso abusivo dell’escavatore, per cui non sarebbe dovuto venire in rilievo, al fine di escludere la responsabilità della società proprietaria del mezzo, “un informale scontato dissenso”, manifestato con l’avere “rivolto a tutti la preghiera di non uscire con gli automezzi sulla pubblica via”.
Aggiungono che l’avere il giudice del merito, al fine di escludere l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 2049 cod. civ., considerato che il dipendente aveva agito non solo al di fuori dell’esercizio delle incombenze, ma anche al di fuori di qualsiasi rapporto di occasionalità necessaria con le sue mansione, avrebbe dovuto costituire circostanza confermativa del fatto che il datore di lavoro, avendo omesso di adottare tutte le specifiche ed idonee cautele dirette ad impedire che l’escavatore potesse uscir fuori dal cantiere, non aveva, perciò, fatto tutto il possibile per evitare la circolazione della macchina operatrice all’esterno del cantiere di lavoro.
La complessa ed articolata censura, che riguarda solo la ratio decidendi relativa alla questione circa l’applicabilità della norma di cui all’art. 2054 cod. civ., comma 3, non può essere accolta.
Premesso che è configurabile l’ipotesi di responsabilità di cui all’art. 2054 cod. civ., comma 1, rispetto ai danni cagionati dalla circolazione di un escavatore, che, ai sensi dell’art. 58 dell’attuale C.d.S. e dell’art. 31 C.d.S. precedente, vigente al momento del sinistro, rientra nella categoria dei veicoli quale macchina operatrice meccanica (Cass., n. 1378/80), osserva questa Corte che anche in tal caso si rende applicabile il principio di diritto, pacifico nella giurisprudenza di legittimità (ex plurimis: Cass., n. 10027/2000; Cass., n. 681/2000; Cass., n. 12255/98), secondo il quale il proprietario del veicolo, il quale intenda sottrarsi alla presunzione di responsabilità prevista dal terzo comma dell’art. 2054 cod. civ., non può limitarsi a provare che la circolazione sia avvenuta senza il suo consenso (invito domino), ma deve dimostrare che la stessa abbia avuto luogo “contro la sua volontà” (prohibente domino), il che postula che la volontà contraria si manifesti in un concreto ed idoneo comportamento ostativo, specificamente rivolto a vietare la circolazione ed estrinsecatosi in atti e fatti rivelatori della diligenza e delle cautele allo scopo adottate.
E’ stato anche precisato che la valutazione della diligenza del proprietario e della sufficienza dei mezzi adottati per impedire la circolazione del veicolo deve essere compiuta secondo un criterio di normalità ed in relazione al caso concreto e che il relativo accertamento è rimesso al giudice del merito, il cui giudizio, se adeguatamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità.
Orbene, il giudice di secondo grado non è incorso nel denunciato errore di diritto, in quanto uniformandosi al richiamato principio di diritto, che richiede la prova della specifica volontà contraria del proprietario alla circolazione del veicolo, manifestata con un comportamento idoneo, secondo il criterio della normalità, ad impedirne la circolazione – di tale specifico ed idoneo divieto ha ravvisato sussistere, in concreto, gli elementi, argomentando dalle seguenti circostanze:
a) il titolare della società convenuta in giudizio aveva impartito disposizioni perchè le macchine opera-trici non uscissero al cantiere di lavoro;
b) la specifica disposizione era conosciuta da tutti i dipendenti ed era stata coerentemente osservata dal dipendente, cui per primo la vittima aveva chiesto l’uso dell’escavatore all’esterno del cantiere, che detto uso aveva negato;
c) B.S., agendo “all’insaputa” dell’altro dipendente che aveva opposto il rifiuto all’uso dell’escavatore, aveva aderito, dopo l’orario di chiusura del cantiere, ad altra richiesta (a lui avanzata da parte della vittima, senza che altri ne fossero a conoscenza) di usare l’escavatore per trarre l’autovettura dal greto del fiume;
d) la macchina operatrice non era abilitata a circolare al di fuori del cantiere e di essa (omissis) si era appropriato “clandestinamente”.
Le considerazioni svolte sul punto sono logiche ed adeguate.
Il giudice di secondo grado ha tenuto conto della specificità delle macchine operatrici, per le quali il divieto di circolazione, a differenza che per gli altri veicoli normalmente destinati a circolare sulle strade, ben può essere assicurato, in base al criterio di normalità, con la misura adottata della proibizione (assoluta e vincolante per i dipendenti) proveniente dal datore di lavoro; ha, inoltre, posto in evidenza come la circolazione fuori del cantiere dell’escavatore avrebbe costituito, nel caso di specie, l’illecito sanzionato dalla norma di cui all’art. 76 dell’allora vigente codice della strada, in quanto la macchina operatrice non era munita neppure della relativa certificazione richiesta per la circolazione su strada.
Non può, quindi, essere accolto neppure il secondo motivo d’impugnazione, con il quale le ricorrenti – deducendo l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia – denunciano che il giudice di secondo grado aveva desunto la volontà contraria del proprietario ex art. 2054 cod. civ., comma 3, dal fatto che tutti i dipendenti sapevano che la macchina operatrice era priva di carta di circolazione e non poteva, perciò, uscire sulla pubblica strada.
Trattasi, infatti, di censura sostanzialmente diretta ad ottenere in questa sede una diversa valutazione del materiale probatorio e, perciò, inammissibile, essendo giurisprudenza costante che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per Cassazione può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione.
Il ricorso, pertanto, è rigettato.
In considerazione della particolarità del caso deciso – nel quale la contraria volontà del proprietario alla circolazione del mezzo si realizza in modo idoneo con l’adozione di misure concrete diverse da quelle richieste per i veicoli destinati normalmente a circolare su strada – sussistono giusti motivi (art. 92 cod. proc. civ.) per compensare interamente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2006
