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Cassazione civile sez. III, 06/10/2023, n.28141

Massima

L’azione revocatoria ordinaria è esperibile anche a tutela delle aspettative di credito.

Supporto alla lettura

Azione revocatoria

L’azione revocatoria è un mezzo di conservazione della garanzia patrimoniale, con cui il creditore chiede la revoca e conseguente dichiarazione di inefficacia di atti di disposizione del proprio patrimonio posti in essere dal debitore, che diminuiscano la garanzia del creditore, ossia la sua possibilità di soddisfarsi sul patrimonio del debitore. A differenza dell’azione surrogatoria, il cui esito è a favore di tutti i creditori, l’azione revocatoria opera ad esclusivo vantaggio del creditore che ha agito. L’atto revocato rimane perfettamente valido, ma esso è inefficace nei confronti del creditore che ha agito, che potrà soddisfarsi sul bene oggetto dell’atto revocato come se esso non fosse mai uscito dal patrimonio del debitore e sottoporlo ad esecuzione forzata (art. 2902 c.c.). In sostanza il terzo che acquista non potrà avvalersi dello scudo della trascrizione a protezione del bene quale regime di pubblicità dell’atto poiché inopponibile al creditore che ha esperito vittoriosamente l’azione revocatoria. Il bene sarà esposto quindi ad azioni esecutive e conservative.

Ambito oggettivo di applicazione

La Corte d’appello di Torino, con la sentenza n. 401/2020, resa pubblica il 23 aprile 2020 e notificata il 27 aprile 2020, ha confermato la decisione n. 113/2019 del Tribunale di Vercelli che aveva accolto la domanda revocatoria, ex art. 2901 c.c., promossa da R.M.B., da Z.L. e da A.G., avente ad oggetto l’atto di cessione della nuda proprietà dell’immobile sito in (Omissis) da parte di T.S. a favore dei genitori T.P.A. e B.L.;

per quanto ancora di interesse in questa sede la Corte territoriale ha ritenuto provati:

  1. i) il credito vantato da R.M.B., da Z.L. e da A.G., a favore dei quali T.S. aveva emesso tre assegni bancari già precettati, non avendo quest’ultimo dimostrato che essi non costituivano una valida promessa di pagamento, atteso che non aveva negato la consegna dei moduli di assegno, né disconosciuto la sottoscrizione, limitandosi ad allegare che essi erano stati consegnati in bianco; tantomeno aveva contestato, al momento della notifica dell’atto di precetto e in sede di esecuzione dei pignoramenti, la sussistenza di valide ragioni di credito;
  2. ii) l’eventus damni, stante l’anteriorità del credito rispetto all’atto dispositivo e la non contestazione che quello oggetto di trasferimento era l’unico cespite del disponente;

iii) la partecipatio fraudis, dato il rapporto parentale tra le parti dell’atto di cessione, e il quadro degli elementi indiziari;

T.S., T.P.A. e B.L. ricorrono per la cassazione della pronuncia della Corte d’appello di Torino, formulando due motivi;

R.M.B., Z.L. e A.G. resistono con controricorso, illustrato con memoria;

la trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

1) con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1988 e 2696 c.c. e del R.D. n. 1736 del 1933, art. 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonché l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5;

la Corte territoriale, secondo la rappresentazione dei ricorrenti, ha errato quando ha ritenuto che l’assegno costituisce una promessa di pagamento e che, a meno di non provare l’inesistenza o l’invalidità del rapporto da cui esso deriva, esso fa presumere l’esistenza del credito dichiaratovi, a nulla rilevando la validità dello stesso, la cui valenza nel giudizio per cui è causa è da considerare esclusivamente finalizzata alla verifica del credito dell’attore e non anche ad accertare se esso possa essere utilizzato quale titolo esecutivo; l’errore imputatole è specificamente quello di aver considerato non rilevante la validità dell’assegno quale titolo esecutivo, omettendo di prendere in esame gli elementi indiziari a fondamento della denuncia di abusivo riempimento, e di avere invece affermato apoditticamente e in maniera non veritiera – era stata fatta opposizione da parte della comproprietaria dei beni pignorati e T.S. aveva, con intervento adesivo autonomo, sollevato la questione della nullità degli assegni – che nulla era stato eccepito al momento della notifica dell’atto di precetto e in sede di esecuzione dei pignoramenti;

i ricorrenti insistono con la tesi secondo cui gli assegni erano privi di efficacia cartolare, perché erano stati consegnati privi di data e di luogo di emissione, erano in possesso di soggetti che non avevano ragioni di credito nei confronti di T.S., erano stati riempiti con grafie diverse, e che, pertanto, legittimati a pretendere il pagamento non erano i possessori degli stessi, ma solo i soggetti a cui favore gli assegni, incorporanti la promessa di pagamento, erano stati emessi;

il motivo è infondato;

mette conto ribadire che “in tema di azione revocatoria ordinaria l’art. 2901 c.c., accoglie una nozione lata di credito, comprensiva della ragione o aspettativa, con conseguente irrilevanza della certezza del fondamento dei relativi fatti costitutivi, coerentemente con la funzione propria dell’azione, la quale non persegue scopi specificamente restitutori, bensì mira a conservare la garanzia generica sul patrimonio del debitore in favore di tutti i creditori, compresi quelli meramente eventuali; pertanto, ai fini dell’accoglimento di detta azione non è necessaria la sussistenza di un credito certo, liquido ed esigibile, essendo sufficiente una ragione di credito anche eventuale, e rilevano a tal fine anche i crediti litigiosi o comunque oggetto di contestazioni, purché non manifestamente fondate; deve quindi ritenersi sufficiente ragione di credito ai fini dell’esercizio dell’azione in questione quella dedotta del portatore di uno o più assegni bancari emessi dal debitore, costituendo detti titoli promesse di pagamento ai sensi dell’art. 1988 c.c., che invertono l’onere della prova a carico del debitore sull’inesistenza della relativa obbligazione”: per tutte cfr. Cass. 15/11/2016, n. 23208;

va, in aggiunta, precisato che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, “l’emissione di un assegno in bianco o postdatato, cui di regola si fa ricorso per realizzare il fine di garanzia – nel senso che esso è consegnato a garanzia di un debito e deve essere restituito al debitore qualora questi adempia regolarmente alla scadenza della propria obbligazione, rimanendo nel frattempo nelle mani del creditore come titolo esecutivo da far valere in caso di inadempimento -, è contrario alle norme imperative contenute del R.D. 21 dicembre 1933, n. 136, artt. 1 e 2, e dà luogo ad un giudizio negativo sulla meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, alla luce del criterio della conformità a norme imperative, all’ordine pubblico ed al buon costume enunciato dall’art. 1343 c.c.. Pertanto, non viola il principio dell’autonomia contrattuale sancito dall’art. 1322 c.c., il giudice che, in relazione a tale assegno, dichiari nullo il patto di garanzia e sussistente la promessa di pagamento di cui all’art. 1988 c.c.”: (Cass. 26/05/2022, n. 17099);

in buona sostanza, la nullità del patto di garanzia non incide sulla validità ed efficacia della promessa di pagamento sono immuni da censure, dunque, le enunciazioni del giudice a quo che si rivelano in piena sintonia con la giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale “l’assegno bancario, nei rapporti diretti tra traente e prenditore (ovvero tra girante ed immediato giratario), anche se privo di valore cartolare, deve essere considerato come una promessa di pagamento, e pertanto, secondo la disciplina dell’art. 1988 c.c., comporta una presunzione “iuris tantum” dell’esistenza del rapporto sottostante, fino a che l’emittente (o il girante) non fornisca la prova – che può desumersi da qualsiasi elemento ritualmente acquisito al processo, da chiunque fornito – dell’inesistenza, invalidità ed estinzione di tale rapporto” (cfr. Cass. 2/09/1998, n. 8712);

l’assegno bancario, privo di valore cartolare, è correttamente utilizzabile come semplice chirografo con l’efficacia di una promessa di pagamento e questa forma di utilizzazione “e’ consentita anche nei rapporti tra girante ed immediato giratario e ciò perché nel contenuto tipico della girata si deve ravvisare una dichiarazione negoziale diretta a promettere al possessore del titolo l’assunzione dell’obbligazione, da parte del girante, in caso d’inadempimento dell’emittente, dichiarazione che fornita dei caratteri della promessa di pagamento di cui all’art. 1988 c.c., ed assistita da presunzione di esistenza del rapporto sottostante, può essere fatta valere indipendentemente dalla forza del titolo, nel quale è contenuta” (Cass. 8/02/2006, n. 2816);

anche la censura di omesso esame non può accogliersi; anzitutto, e in via assorbente, per il limite di deducibilità del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in presenza di c.d. doppia conforme (art. 348-ter c.p.c., commi 4 e 5); al fine di evitare tale conclusione, parte ricorrente avrebbe dovuto, confrontando le ragioni di fatto poste a fondamento della decisione di primo grado con quelle poste a base della sentenza di rigetto del gravame, dimostrarne la diversità: il che nel caso di specie non risulta avvenuto;

in ogni caso, cioè quand’anche il vizio fosse stato deducibile, se ne sarebbe dovuta egualmente dichiarare l’inammissibilità: le censure, infatti, mancano di evidenziare un “fatto storico” e decisivo, il cui esame sia stato omesso, poiché non può ricondursi, di per sé, alla nozione di “fatto storico” (principale o secondario) la consulenza tecnica d’ufficio in quanto tale; giova, infatti, precisare che il “fatto storico” di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, è accadimento fenomenico esterno alla dinamica propria del processo, ossia a quella sequela di atti e di attività disciplinate dal codice di rito che, dunque, viene a caratterizzare la diversa natura e portata del “fatto processuale”, il quale segna il differente ambito del vizio deducibile, in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 (Cass. 9/07/2019, n. 18328);

2) con il secondo motivo i ricorrenti imputano alla sentenza gravata la violazione e falsa applicazione degli artt. 2901 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5;

sostengono che la Corte d’appello con motivazione contraddittoria ha dapprima affermato che la sussistenza del credito è presupposto dell’azione pauliana e, poi, per ritenere integrati gli elementi costitutivi della domanda, ha fatto ricorso al ragionamento inferenziale, sebbene esso non trovasse riscontro probatorio: la Corte territoriale ha fatto leva sul rapporto parentale tra le parti dell’atto di trasferimento della nuda proprietà, sul fatto che il disponente avesse continuato ad abitare l’immobile e sul fatto che il prezzo di vendita fosse inferiore al valore del bene venduto, ma secondo il ricorrente il prezzo era stato effettivamente corrisposto, la vendita si era resa necessaria per conseguire liquidità, a seguito delle dimissioni cui T.S. era stato costretto, il prezzo convenuto era congruo, contrariamente a quanto emerso dalle perizie di parte che, essendo state redatte in assenza di contraddittorio, non costituivano prove, ma allegazioni difensive, non erano giunte a conclusioni univoche e, in più, avevano calcolato il valore dell’usufrutto muovendo da un dato erroneo quanto all’età dell’alienante;

il motivo è inammissibile, poiché tende in tutta evidenza ad ottenere una rivalutazione dei fatti di causa cui non può provvedersi perché il giudizio di legittimità ha caratteri morfologici e funzionali che sono d’ostacolo a farne la sede per un nuovo esame di merito della vicenda processuale;

infatti, la deduzione dell’art. 2901 c.c., non è stata formulata in modo tale da evidenziare le affermazioni contenute nella sentenza impugnata che si assumono essere in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con la loro interpretazione, come stabilito da consolidato orientamento di questa Corte (Cass., 02/03/2018, n. 5001; Cass., 12/01/2016, n. 287; Cass., 20/08/2015, n. 17060);

anche la violazione dell’art. 2967 c.c., non è stata dedotta in maniera efficace, giacché un motivo denunciante la violazione dell’art. 2697 c.c., si configura effettivamente e, dunque, dev’essere scrutinato come tale solo se in esso risulti dedotto che il giudice di merito abbia applicato la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni (Cass., Sez. Un., 5/08/2016, 16598 e già Cass. 10/06/2016, n. 11892);

senza sottacersi che i presupposti dell’azione revocatoria vengono meno, ai sensi dell’art. 2901 c.c., comma 3, se l’atto dispositivo sia posto in essere allo scopo di reperire la liquidità occorrente all’adempimento di un proprio debito, purché esso rappresenti il solo mezzo per tale scopo, ponendosi, in siffatta ipotesi, la vendita in rapporto di strumentalità necessaria con un atto dovuto, sì da poterne escludere il carattere di atto pregiudizievole per i creditori richiesto per la revoca (Cass. 15/05/2020, n. 8992); al contrario, nel caso in cui risulti dimostrata la sussistenza di una difficoltà economica del disponente – nel caso di specie il ricorrente ha lamentato l’esigenza di liquidità determinata dal suo stato di disoccupazione – essa è un indizio che rafforza la presunzione che l’atto dispositivo sia stato posto in essere allo scopo di sottrarre il bene che ne costituisce l’oggetto alle pretese creditorie;

3) il ricorso va rigettato;

4) le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento, in solido, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge, in favore dei controricorrenti.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio dalla Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 15 settembre 2023.

Allegati

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