FATTI DI CAUSA
1. Re.Fr. premesso che il coniuge, Ca.Mi. già titolare dell’indennizzo previsto dall’art. 1 della legge n. 210/1992 per i soggetti lesi da patologie cagionate da emotrasfusioni infette, era deceduto per insufficienza epatica acuta correlata all’epatopatia HCV contratta a causa delle somministrazioni di sangue cui era stato sottoposto – convenne in giudizio dinanzi al Giudice del lavoro del Tribunale di Roma il Ministero della Salute, chiedendone la condanna alla corresponsione dell’assegno una tantum previsto dall’art. 2, comma 3, della stessa legge n. 210/1992, nell’importo di Euro 77.468,53.
Costituitosi l’amministrazione statale convenuta, il giudice adìto rigettò la domanda, per difetto del requisito della “vivenza a carico”, richiesto dal citato art. 2, comma 3, della legge n. 210/1992, come modificato dalla legge n. 238/1997; requisito che la ricorrente non solo non aveva provato ma non aveva neppure allegato.
2. Avverso questa decisione Re.Fr. propose appello, deducendo, per un verso, sotto il profilo processuale, che il primo giudice aveva rilevato d’ufficio la questione della mancata allegazione del requisito della “vivenza a carico”, senza previamente indicarla alle parti e assegnare termine per memorie al riguardo, con conseguente nullità della sentenza per violazione del contraddittorio; per altro verso, sotto il profilo sostanziale, che la sentenza impugnata era illegittima sia, de iure, per avere erroneamente reputato necessario il predetto requisito ai fini del diritto alla percezione dell’assegno richiesto (dovendosi al contrario ritenere che esso, quanto meno, fosse stato “abrogato” dalla legge n. 238/1997), sia, de facto, per avere reputato non allegato e provato il requisito medesimo nella specifica fattispecie (avuto riguardo allo stato di famiglia prodotto e alla circostanza che esso doveva comunque presumersi sussistente in capo al coniuge convivente della persona deceduta).
Costituitosi il Ministero della Salute, che resistette al gravame, la Corte d’Appello, con sentenza 31 luglio 2023, n. 2495, ha rigettato l’impugnazione, confermando integralmente la sentenza impugnata, sui rilievi:
I- che non fosse ravvisabile la dedotta lesione del contraddittorio, in quanto la questione circa l’omessa allegazione del requisito della “vivenza a carico” da parte dell’attrice era stata sollevata dall’amministrazione statale convenuta “con la memoria di costituzione di primo grado (v. punto n. 2, lett. a, pag.2), citando la giurisprudenza della Corte di cassazione ed eccependo la mancanza di ogni allegazione e di prova da parte della ricorrente”; pertanto la questione non era stata rilevata dal Tribunale d’ufficio, “ma era già stata sottoposta al contraddittorio delle parti in forza delle eccezioni di parte resistente” (pag. 3 della sentenza impugnata).
II- che, sotto il profilo sostanziale, la “vivenza a carico” continuava ad integrare, pur dopo le modifiche apportate alla legge n. 210/1992 dalla leggen. 238/1997, un presupposto costitutivo del diritto alla provvidenza assistenziale invocata, in quanto, secondo il pacifico orientamento giurisprudenziale di legittimità, la legge del 1997, rispetto alla formulazione originaria della norma, aveva introdotto la possibilità per gli aventi diritto (coniuge, figli, genitori, fratelli minorenni o quelli maggiorenni se inabili al lavoro) di optare tra l’indennizzo reversibile e l’assegno una tantum, aumentandone l’importo originario da 50 a 150 milioni di Lire, ma non aveva inciso sui requisiti necessari per la concessione del beneficio;
III- che, infine, sotto il profilo della concreta allegazione e prova del requisito, da un lato non potesse attribuirsi rilievo al certificato di stato di famiglia e alla mera circostanza della “coabitazione” dell’attrice con il coniuge deceduto (circostanza non sufficiente ai fini della “vivenza a carico”, che richiede invece la sussistenza di una condizione di non autosufficienza economica del congiunto superstite e la dipendenza dal reddito della persona deceduta, ancorché questo non rappresenti l’unico sostentamento della famiglia); dall’altro lato, neppure fosse possibile supplire all’inerzia probatoria della parte, rispetto ad un elemento costitutivo del diritto azionato, mediante l’attivazione dei poteri istruttori del giudice.
3. Per la cassazione della sentenza della Corte capitolina ricorre Re.Fr. sulla base di quattro motivi.
Risponde con controricorso il Ministero della Salute.
La trattazione del ricorso è stata fissata in adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ..
Il Pubblico Ministero presso la Corte non ha presentato conclusioni scritte.
La ricorrente ha depositato memoria.
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso viene denunciata, ai sensi dell’art. 360 n. 3 (recte: n.4) cod. proc. civ., “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 101 c.p.c.”.
La sentenza d’appello è censurata per aver ritenuto che la questione circa l’omessa allegazione del requisito della “vivenza a carico” non fosse stata rilevata d’ufficio dal Tribunale, ma fosse stata sottoposta al contraddittorio delle parti in ragione dell’eccezione sollevata dal Ministero resistente nel proprio atto di costituzione.
La ricorrente ribadisce che, al contrario, la predetta questione era stata “rilevata d’ufficio dal giudice di prime cure”, il quale aveva sottolineato per ben due volte, nella motivazione della sentenza, che il requisito della “viveva a carico” costituiva un elemento costitutivo della fattispecie, l’onere di provare il quale incombeva sulla parte attrice e la cui mancanza era dunque “rilevabile d’ufficio” (pag.6 del ricorso).
Pertanto – conclude la ricorrente – il giudice di prime cure, sollevando la questione, avrebbe dovuto assegnare alle parti il termine per memorie previsto dall’art. 101, secondo comma, cod. proc. civ., la cui violazione avrebbe invece determinato la nullità della sentenza.
1.1. Il motivo è inammissibile.
La violazione dell’art. 101 cod. proc. civ., sul presupposto che il giudice di primo grado avesse rilevato d’ufficio una questione mista di fatto e di diritto senza assegnare alle parti il termine per il deposito di memorie contenenti osservazioni sulla questione medesima, era stata già dedotta con i motivi del ricorso in appello.
Nel provvedere su questi motivi, la Corte d’Appello ha escluso la dedotta violazione sul rilievo che, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, la questione non era stata rilevata d’ufficio poiché l’omessa allegazione del requisito della “vivenza a carico” da parte dell’attrice sarebbe stata eccepita dal convenuto già nella memoria di costituzione in giudizio e in tal modo offerta al contraddittorio delle parti, sin dagli atti introduttivi.
Per censurare validamente tale statuizione con il ricorso per cassazione, la ricorrente avrebbe dovuto specificamente riportare lo stralcio della memoria difensiva avversaria citato dalla Corte territoriale (Punto n.2, lett. a), pag.2), argomentando sulle ragioni per le quali nel detto atto processuale non figurasse l’eccezione invece reputata sollevata dal giudice d’appello.
Al fine di consentire a questa Corte di legittimità di controllare se il Ministero convenuto avesse sollevato la predetta eccezione o se invece la questione mista di fatto e di diritto fosse stata effettivamente rilevata d’ufficio in violazione del contraddittorio, la ricorrente avrebbe anche dovuto provvedere, ai sensi dell’art. 366 n. 6 cod. proc. civ., all’indicazione della sede processuale in cui tale memoria fosse rinvenibile, eventualmente provvedendo a depositarla in sede di legittimità, o quanto meno a trascriverne la parte reputata rilevante.
Le censure veicolate con il primo motivo di ricorso, anziché essere proposte egli anzidetti termini, si limitano invece a ribadire che il giudice di primo grado avrebbe violato l’art. 101 cod. proc. civ., per avere rilevato d’ufficio la questione della “vivenza a carico”, senza criticare adeguatamente e specificamente le ragioni per cui il giudice d’appello ha ritenuto insussistente la violazione.
L’argomentazione della Corte d’Appello secondo cui la questione relativa alla “vivenza a carico” sarebbe stata sollevata dal Ministero resistente nella memoria difensiva viene criticata solo con la memoria illustrativa, ma questa critica non consente di superare il rilievo di inammissibilità del motivo in esame, sia perché la memoria ha funzione meramente illustrativa e non può essere utilizzata per integrare le omissioni del ricorso (Cass. n. 17603/2011; Cass. n.3780/2015; Cass. n.5355/2018), sia perché si tratta di una critica meramente generica, con cui si assume che la contestazione contenuta nell’originario atto di costituzione del Ministero sarebbe stata “di mero stile” (pag.2 della memoria), senza riportarne il contenuto e soprattutto senza indicare la sedes processuale in cui rinvenire l’atto medesimo, al fine di mettere questa Corte in condizione di verificare se l’eccezione fosse stata o meno sollevata e, quindi, se la statuizione del giudice d’appello in tal senso sia, o no, corretta.
Il primo motivo di ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile.
2. Con il secondo motivo viene denunciata, ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., “violazione e/o falsa interpretazione dell’art. 2, 3 co. L. 210/92”.
3. Il secondo motivo presenta elementi di connessione col (e pertanto va illustrato ed esaminato unitamente al) terzo motivo, con cui viene denunciata, sempre ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., “violazione e/o falsa interpretazione dell’art. 2, 3° co. L. 210/1992 così come modificata ed integrata dall’art. 1, 3° co. della L. 238 del 1997, art. 12 e 15 delle disposizioni sulla legge in generale”.
Con questi motivi, la sentenza impugnata viene censurata per aver ritenuto, peraltro in conformità al pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità, che la “vivenza a carico” costituisca, in via generale, un requisito costitutivo del diritto alla fruizione del beneficio di cui all’art. 2, comma 3, della legge n. 210/1992.
La ricorrente sostiene che, al contrario, la percezione dell’assegno una tantum per i superstiti del congiunto deceduto a causa di patologie correlate con la vaccinazione o con l’emotrasfusione infetta, non sarebbe stata subordinata al presupposto della “vivenza a carico” del de cuius nel vigore del testo originario della norma né, tanto meno, lo sarebbe attualmente, a seguito delle modifiche ad essa apportate dalla legge n. 238/1997, la quale avrebbe eliminato anche formalmente la locuzione “a carico”, erroneamente contenuta nella disposizione originaria.
L’irrilevanza del requisito della vivenza a carico dovrebbe desumersi, anzitutto dalla natura dell’indennizzo, il quale, diversamente da quanto ritenuto in giurisprudenza, assumerebbe, non già funzione assistenziale, bensì funzione riparatoria del danno da lesione del rapporto parentale.
In secondo luogo, la non necessità del detto requisito emergerebbe dal raffronto della disposizione in esame (il comma 3 dell’art.2 della legge n. 210/1992) con quella di cui al successivo comma 4, il quale, nell’ipotesi in cui la persona sia deceduta in età minore, individua gli aventi diritto nei genitori o in chi esercita la responsabilità parentale.
In terzo luogo, dovrebbe argomentarsi dalla natura e dalla funzione dell’istituto della “reversibiltà”, quale istituto a carattere non assistenziale ma unicamente previdenziale, con conseguente necessità di interpretare restrittivamente la locuzione “soggetti a carico” contenuta nel testo originario della norma, in quanto riferita alle sole categorie di legittimari specificamente individuati come tali, come, ad es., i “fratelli maggiorenni inabili al lavoro”.
In quarto luogo, a prescindere dalla portata assunta da questa locuzione nella formulazione originaria della norma, dovrebbe comunque prendersi atto che il requisito della “vivenza a carico” è stato espunto anche formalmente dal testo normativo con l’entrata in vigore della legge n. 238/1997, la quale ha pure ampliato la platea dei legittimari, ricomprendendovi tutti i figli e i fratelli del de cuius e non solo, come in passato, quelli “inabili al lavoro”; pertanto, quanto meno a far tempo dall’entrata in vigore della legge n. 238/1997, a causa dell’effetto “abrogativo” da essa prodotto in relazione alla parte del precetto normativo eventualmente richiedente il requisito della “vivenza a carico”, dovrebbe concludersi che il diritto alla percezione dell’assegno una tantum di cui all’art. 2, comma 3, della legge n. 210 del 1992, in conformità alle intenzioni soggettive del legislatore, quali risultanti dai lavori preparatori riportati negli atti parlamentari, non sarebbe “in nessun modo collegato alla condizioni economiche del soggetto danneggiato” (pag.13 del ricorso).
In quinto luogo, la mancanza, nella disposizione in esame, della previsione di un requisito reddiduale per la fruizione del beneficio sarebbe tanto più evidente ove la si ponga in relazione alle varie disposizioni ordinamentali aventi ad oggetto l’erogazione di prestazioni assistenziali (art.1 legge n. 18/1980: indennità di accompagnamento; artt. 12 e 13 legge n. 118/1971: pensione di inabilità e assegno di invalidità), le quali prevedono espressamente, in relazione ad ogni prestazione, “il requisito amministrativo, ossia la condizione in presenza della quale si ritiene che la persona versi in uno stato di bisogno che per l’ordinamento meriti attenzione” (pag.14 del ricorso).
Al di là di tali osservazioni generali sulla non configurabilità, neppure in astratto, della “vivenza a carico” quale requisito costitutivo del diritto all’assegno una tantum ex art. 2, comma 3, legge n. 210/1992, la ricorrente, con i motivi in esame, censura infine la sentenza d’appello anche per avere escluso tout-court dai beneficiari il coniuge del soggetto deceduto ove esso sia stato, come nella specie, in rapporto di “convivenza” con il de cuius; essa sostiene, al riguardo, che nei confronti del coniuge la vivenza a carico sarebbe già insita nella relazione di “convivenza”, avuto riguardo ai doveri derivanti dal rapporto di coniugio, ai sensi dell’art.143 cod. civ..
3.1. Il secondo e il terzo motivo sono inammissibili, ai sensi dell’art.360-bis n.1 cod. proc. civ., in quanto il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto ad essi sottese in modo conforme alla giurisprudenza di questa Corte di legittimità e il loro esame non offre elementi per rimeditare l’orientamento consolidatosi al riguardo.
3.1.a. In proposito, pare anzitutto opportuno ricostruire l’articolato quadro normativo nel cui ambito si colloca la provvidenza dell’assegno una tantum invocata dalla ricorrente.
L’art.1, comma 1, della legge n. 210 del 1992 prevede che “chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, ha diritto ad un indennizzo da parte dello Stato, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla presente legge”.
L’art. 2, comma 1, stabilisce che “l’indennizzo di cui all’art. 1, comma 1, consiste in un assegno non reversibile determinato nella misura di cui alla tabella 8 allegata alla legge 29 aprile 1976, n. 177, come modificata dall’art. 8 della legge 2 maggio 1984, n. 111”.
Il comma 3 dello stesso art.2 ha introdotto l’assegno una tantum, prevedendo che, “qualora a causa delle vaccinazioni o delle patologie previste dalla presente legge sia derivata la morte, spetta, in sostituzione dell’indennizzo di cui al comma 1, un assegno una tantum nella misura di Lire 50 milioni da erogare ai soggetti a carico, nel seguente ordine: coniuge, figli minori, figli maggiorenni inabili al lavoro, genitori, fratelli minori, fratelli maggiorenni inabili al lavoro”.
L’articolo 7 del D.L. n. 548/1996, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 641/1996, ha sostituito il citato articolo 2, prevedendo la reversibilità per 15 anni dell’assegno di cui al comma 1 ed elevando l’importo dell’assegno una tantum a 150 milioni di Lire (ora 77.468,53 Euro); inoltre, ha riscritto l’ambito degli aventi diritto, includendovi i figli maggiorenni, anche non inabili al lavoro, e ampliandone la portata, nel profilo più squisitamente economico, nel senso di considerare non dirimente che il reddito della persona deceduta rappresenti o meno l’unico sostentamento della famiglia: nell’attuale formulazione, infatti, il comma 3 del citato art. 2 stabilisce che, “ai fini della presente legge, sono considerati aventi diritto nell’ordine i seguenti soggetti a carico: il coniuge, i figli, i genitori, i fratelli minorenni, i fratelli maggiorenni inabili al lavoro” e prevede che “i benefici di cui al presente comma spettano anche nel caso in cui il reddito della persona deceduta non rappresenti l’unico sostentamento della famiglia”.
La legge 24 dicembre 2003, n. 350, art. 3, comma 145, ha chiarito che la reversibilità dell’assegno previsto dal comma 1 dell’articolo 2 della legge n.210/1992 si intende applicabile solo in presenza delle condizioni di cui all’art. 2, comma 3, così uniformando i presupposti, oggettivi e soggettivi, per l’assegno reversibile e per l’assegno una tantum, in considerazione della natura alternativa delle due prestazioni.
Pertanto, nell’ipotesi di decesso del danneggiato causalmente connesso con le vaccinazioni o patologie previste dalla legge n. 210/1992, i familiari indicati nel comma 3 dell’art. 2 hanno diritto di fruire dell’assegno mensile reversibile (per il tempo di 15 anni) o, in alternativa, di percepire l’assegno una tantum: vengono in considerazione diritti alternativi, non penetrati nel patrimonio del dante causa, riconosciuti al familiare iure proprio e soggetti ai presupposti stabiliti dallo stesso comma 3 (in tal senso, Cass. n.3879/2009 e Cass. n. 19502/2028). Al contrario, nell’ipotesi di decesso del danneggiato non causalmente connesso con le vaccinazioni o patologie, spetta agli eredi, iure successionis, ciò che formava oggetto del diritto già acquisito dal de cuius, ovverosia i ratei dell’assegno istituito in suo favore, scaduti prima del decesso e non ancora percepiti.
3.1.b. Alla luce del quadro normativo, come ricostruito, possono formularsi le seguenti considerazioni.
a) Entrambe le provvidenze previste dal comma 3 dell’art. 2 sono funzionalmente distinte dall’indennizzo di cui al comma 1 e soggette a presupposti specifici diversi da quelli ai quali è subordinata la percezione dell’indennizzo stesso (Cass. n. 25559/2015, cit.). Tale diversità implica, per un verso, la compatibilità della fruizione da parte del de cuius dell’indennizzo di cui al comma 1 con la percezione, da parte degli aventi diritto, dell’assegno una tantum di cui al comma 3 (Cass. n. 19502/2018) e trova fondamento, per altro verso, nella diversa natura dei due diritti soggettivi: l’uno (quello all’indennizzo di cui al comma 1), avente la funzione di riparazione (sia pure non integrale stante il carattere indennitario e non risarcitorio stricto sensu della prestazione) dei pregiudizi conseguenti alle menomazioni dell’integrità fisica derivate dalle vaccinazioni o somministrazioni di sangue ed emoderivati; l’altro (alternativamente, il diritto all’assegno reversibile o a quello una tantum di cui al comma 3), avente la funzione pubblicistica assistenziale di ristoro, anche economico, garantito dall’ordinamento agli stretti familiari del congiunto che per il proprio sostentamento contavano, anche solo in parte, sul reddito della persona deceduta.
b) Diversamente da quanto vigorosamente ma infondatamente sostenuto dalla ricorrente, con riguardo ai diritti iure proprio dei superstiti di cui al comma 3 dell’art. 2 (dunque, sia l’assegno reversibile che l’assegno una tantum), il requisito della “vivenza a carico” del de cuius, già richiesto dalla formulazione originaria della norma, non è stato, neppure sotto il profilo meramente testuale, espunto da quella successiva. Si è visto, infatti, che, dal punto di vista formale, le interpolazioni al testo del comma 3 dell’art. 2 della legge n. 210/1992 sono state apportate, non già dalla legge n. 238/1997, bensì dal decreto-legge n. 548/1996, convertito con modificazioni dalla legge n. 641/1996, il cui art.7, nel sostituire l’art. 2 della legge n. 210/1992, ha mantenuto, nella riscrittura del secondo periodo del comma 3, la locuzione “soggetti a carico”, già contenuta nel vecchio testo della disposizione, riferendola alla rinnovata, più ampia, platea dei beneficiari. Piuttosto, la nuova formulazione della norma, come è stato condivisibilmente già osservato dalla Sezione lavoro di questa Corte (Cass. n. 26842/2020), nel prevedere la persistente necessità del detto requisito, ne ha chiarito la portata, precisando che la situazione di non autosufficienza economica del congiunto superstite e la sua dipendenza dal reddito della persona deceduta può essere anche parziale, in quanto il predetto reddito non sia l’unica fonte di sostentamento della famiglia.
c) Non può dunque condividersi l’opinione della ricorrente circa la natura (non già assistenziale, bensì) risarcitoria delle provvidenze di cui al comma 3 dell’art. 2 della legge n. 210/1992 (in quanto asseritamente dirette a ristorare il danno da lesione del rapporto parentale), né appare men che infondato l’assunto circa l’assenza di riferimenti al requisito della “vivenza a carico” nell’ambito dell’attuale formulazione della norma; al contrario, è agevole rilevare che proprio l’art. 1, comma 3, della legge n.238/1997, nel ribadire la previsione (già introdotta nel nuovo comma 3 dell’art.2 della legge n.210/1992 dall’art.7 del decreto-legge n. 548/1996) secondo cui “i benefici di cui al presente comma spettano anche nel caso in cui il reddito della persona deceduta non rappresenti l’unico sostentamento della famiglia”, afferma con forza la necessità di una, pur parziale, dipendenza del familiare superstite dal reddito del congiunto deceduto, posto che, se, da un lato, la vivenza a carico non è esclusa dal fatto che il sostentamento della famiglia si basi anche su altre fonti di reddito, dall’altro lato resta però necessario che a tale sostentamento concorresse il reddito del de cuius.
d) Deve, in conseguenza, darsi continuità all’orientamento, peraltro consolidato, espresso dalla Sezione lavoro di questa Corte (Cass. n.11407/2018; Cass. n.26842/2020) secondo cui, “in materia di indennizzi ai soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie, il riconoscimento dell’assegno “una tantum” in favore dei superstiti, anche a seguito della modifica apportata all’art. 2, comma 3, della L. n. 210 del 1992 ad opera dell’art. 1, comma 3, della L. n. 238 del 1997, presuppone la sussistenza del requisito della “vivenza a carico” della vittima, giacché il diritto al ristoro poggia su una concezione di famiglia intesa quale comunità di reciproco sostentamento”.
e) Non può infine sottacersi che la precisazione del requisito della “vivenza a carico” in termini di dipendenza, anche solo parziale, del congiunto dal reddito della persona deceduta, esclude la possibilità di ritenere tale requisito insito nel mero fatto della convivenza, anche con riferimento alla peculiare posizione del coniuge superstite, giacché la sussistenza degli obblighi di assistenza, collaborazione nell’interesse della famiglia e coabitazione, che derivano dal rapporto di coniugio ai sensi dell’art.143 cod. civ., non è di per sé bastevole a certificare una situazione di non autosufficienza dei mezzi di sussistenza autonoma di ciascun coniuge rispetto all’altro.
3.1.c. Ne discende la manifesta infondatezza di tutte le censure articolate con il secondo e il terzo motivo di ricorso, che vanno quindi dichiarati inammissibili, ai sensi dell’art. 360-bis n. 1 cod. proc. civ..
4. Con il quarto motivo viene denunciata, sempre ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ.”.
La sentenza d’appello è censurata per avere escluso che potesse attribuirsi rilievo, ai fini della concreta allegazione e prova del requisito della “vivenza a carico” nella specifica fattispecie, al certificato di residenza e alla circostanza della “coabitazione” della ricorrente con il marito deceduto e per non aver dato alcun peso, al riguardo, alla circostanza che ella “da sola si è(ra) preoccupata di accompagnare il “de cuius” presso il Policlinico Tor Vergata qualche giorno prima del decesso (pag. 16 del ricorso).
4.1. Il motivo è inammissibile perché – al di là di quanto si è già evidenziato sull’impossibilità, de iure, di ritenere il requisito della “vivenza a carico”, nella specifica portata attribuitagli dal disposto legislativo, insito nel fatto stesso della convivenza – le doglianze formulate dalla ricorrente, ad onta della formale intestazione, criticano, nella sostanza, la valutazione delle risultanze istruttorie e la ricostruzione delle circostanze di fatto motivatamente operate dal giudice del merito nell’esercizio di un potere ad esso esclusivamente riservato ed insindacabile in sede di legittimità.
Nel rilevare l’inammissibilità di tali doglianze, è opportuno precisare che in maniera del tutto impropria è stata ipotizzata la violazione dell’art. 2697 cod. civ., la quale è configurabile unicamente quando si contesti che il giudice del merito abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risultava gravata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla distinzione tra fatti costitutivi ed eccezioni, non anche quando, come nel caso in esame, si critichi, inammissibilmente, l’apprezzamento che il giudice stesso ha compiuto delle risultanze probatorie (cfr., ex multis, Cass. n. 13395/2018 e Cass. n.26769/2018).
5. In definitiva, il ricorso proposto da Re.Fr. va dichiarato inammissibile.
6. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
7. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto (art. 13, commi 1-bis e 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002).
8. In caso di diffusione del presente provvedimento, vanno omesse le generalità e gli altri dati identificativi di Re.Fr. e del suo dante causa, in esso riportati (art. 52 del D.Lgs. n. 196 del 2003).
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna la ricorrente a rimborsare al Ministero della Salute le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre le spese prenotate a debito.
Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
Dispone che, in caso di diffusione del presente provvedimento, siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi di Re.Fr. e del suo dante causa, in esso riportati.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, in data 13 giugno 2025.
Depositato in cancelleria il 6 agosto 2025.
