1. La Fondazione ENPAM – Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza dei Medici e degli Odontoiatri (d’ora innanzi, “l’ENPAM”) nel 2020 stipulò con le società Cattolica ed Aviva, in regime di coassicurazione (60% la prima, 40% la seconda) un contratto di assicurazione contro il rischio di invalidità e di morte derivante da malattia o da infortunio.
La polizza era stipulata a beneficio dei medici di medicina generale, ai sensi dell’art. 1891 c.c.
2. Be.Lu., medico di medicina generale che svolgeva la propria attività professionale a Vercelli, il 18.11.2020 venne a mancare dopo essere stato contagiato dal virus Covid-19.
3. I suoi eredi (Ma.Ma., Be.Vi., Be.Ma., Be.Ma.) con atto di citazione datato 8.4.2021 convennero dinanzi al Tribunale di Vercelli la (sola) Società Cattolica di Assicurazioni Spa (che in seguitò si fonderà per incorporazione nella società Generali Spa; d’ora innanzi, in ogni caso, “la Generali”), chiedendone la condanna al pagamento dell’indennizzo previsto dalla suddetta polizza per il caso di infortunio mortale.
4. Si costituì la Generali, eccependo – per quanto ancora rileva in questa sede – che la morte causata da una malattia infettiva non rientrava tra i rischi coperti dal contratto.
5. Con sentenza 4 agosto 2022 n. 383 il Tribunale di Vercelli accolse la domanda condannando la Generali al pagamento integrale dell’indennizzo (nonostante la Generali avesse assunto solo il 60% del rischio in coassicurazione; tale statuizione, tuttavia, non risulta essere stata impugnata).
A fondamento della decisione il Tribunale sviluppò i seguenti argomenti:
a) l’art. 42, comma 2, D.L. 17 marzo 2020 n. 18 aveva equiparato ai fini dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro l’infezione da Coronavirus agli infortuni in senso stretto;
b) l’INAIL, con circolare n. 13 del 3 aprile 2020 aveva equiparato le malattie infettive agli infortuni sul lavoro;
c) l’infezione virale, secondo la giurisprudenza formatasi in tema di infortuni sul lavoro, doveva ritenersi una “causa violenta ed esterna” dell’invalidità o della morte, e quindi un “infortunio”;
d) i suddetti principi, validi per le assicurazioni sociali, erano applicabili anche al caso in esame in virtù di quanto previsto dalla clausola n. 22 della polizza (secondo cui il contratto in caso di dubbio andava interpretato in senso favorevole al beneficiario).
La sentenza fu appellata dalla Generali.
5. Con sentenza 29.6.2023 n. 653 la Corte d’Appello di Torino accolse il gravame e rigettò la domanda.
La Corte d’Appello ritenne che:
a) la domanda attorea scaturiva da una assicurazione privata contro gli infortuni, in quanto tale sottratta alle regole ed ai principi dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro;
b) il rischio di “morte causata da infezione” non era incluso tra quelli oggetto di copertura assicurativa;
c) l’art. 1370 c.c. non poteva applicarsi perché le condizioni di assicurazione non erano state predisposte unilateralmente da Generali, ma prefissate dall’ENPAM nel bando con cui promosse la gara per selezione l’assicuratore col quale stipulare la polizza;
d) il contratto copriva il rischio di morte solo se derivante da infortunio, definito come “causa fortuita, violenta ed esterna”;
e) il contagio causato un virus non costituisce una “causa violenta”;
f) l’art. 1, lettera (f), del contratto (che includeva tra gli. infortuni “le conseguenze delle infezioni nonché degli avvelenamenti causati da morsi di animali e punture di insetti, esclusa comunque la malaria”) andava interpretato nel senso che fosse coperto dalla polizza solo il rischio di infezione provocata da morso di animali o punture di insetti).
6. La sentenza d’appello è stata impugnata per Cassazione dagli originari attori con ricorso fondato su quattro motivi.
La Generali ha resistito con controricorso.
Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte, chiedendo che il ricorso sia rigettato.
1. Il primo motivo di ricorso.
Col primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione degli artt. “1362 e ss. c.c.”.
Nell’illustrazione del motivo sono prospettate due censure così riassumibili:
a) la Corte d’Appello ha trascurato di considerare che le condizioni Generali di contratto contenevano un’apposita clausola (numero 22) con la quale le parti avevano stabilito in che modo dovessero interpretarsi i patti dubbi, vale a dire nel modo “più favorevole all’assicurato”; a fronte di questa clausola era irrilevante la circostanza che il clausolario fosse stato predisposto dall’ENPAM o dalla Generali;
b) la Corte d’Appello ha errato nell’interpretare il contratto attribuendo al lemma “infortunio” il senso comune; le espressioni contenute in un contratto vanno infatti interpretate secondo il loro significato giuridico, che può divergere da quello comune; nel caso di specie, ad avviso dei ricorrenti l’espressione “infortunio” nel mondo del diritto includerebbe pacificamente il caso di invalidità o morte causati da una infezione.
1.1. La censura sub (a) è inammissibile.
La Corte d’Appello ha ritenuto che: (a) la clausola 22 delle condizioni Generali (interpretazione favorevole all’assicurato) si dovesse applicare solo “in caso di dubbio”; (b) nel caso di specie l’esclusione dalla copertura assicurativa del rischio di morte causata da infezione virale non poteva ritenersi dubbia, sicché di quella clausola mancava il presupposto applicativo.
Trattasi di una valutazione di fatto riservata al giudice di merito e non sindacabile nella presente sede.
Questa Corte infatti ha già stabilito che quando un criterio legale di ermeneutica, come ad es. gli artt. 1368 o 1370 c.c. (e dunque, a fortiori, un criterio pattizio di ermeneutica) ha per presupposto l’ambiguità d’una clausola contrattuale, l’accertamento di tale presupposto (ovvero lo stabilire se un certo patto contrattuale possa ritenersi “dubbio” o meno) non è una valutazione giuridica, ma un apprezzamento di fatto, come tale riservato al giudice di merito ed insindacabile in questa sede (così già Sez. 1, Sentenza n. 1613 del 24/06/1966, poi sempre conforme), quando scevro – come nella specie – dai soli gravissimi vizi logici e giuridici ormai rilevanti nel giudizio di legittimità, dopo l’ultima novella del n. 5 dell’art. 360 c.p.c.
1.2. La censura sub (b) è infondata.
Assumono i ricorrenti che in tema di assicurazione (privata) contro gli infortuni una infezione virale “rientri pacificamente tra le cause violente sin dagli anni Ottanta del secolo scorso”. Se dunque l’infezione è una “causa violenta” della morte o dell’invalidità, essa si sarebbe dovuta considerare un “infortunio” ai sensi di polizza.
Questa tesi non può essere condivisa per molteplici ragioni.
1.3. In primo luogo, il sindacato della Corte di legittimità sull’interpretazione dei contratti è limitato alle ipotesi di violazione dei criteri legali di ermeneutica di cui agli artt. 1362-1371 c.c., oppure al caso in cui l’interpretazione proposta dal ricorrente sia l’unica possibile.
Tuttavia, nel presente giudizio non ricorre né l’una, né l’altra di tali ipotesi.
L’interpretazione adottata dalla Corte d’Appello (secondo cui chi contrae una malattia infettiva “si ammala”, non “si infortuna”) non è implausibile e non contrasta col testo contrattuale.
1.4. L’interpretazione preferita dalla Corte d’Appello non è implausibile, perché la polizza definiva l'”infortunio” come “l’evento… dovuto a causa fortuita, violenta ed esterna, che produca lesioni fisiche obiettivamente constatabili, che abbiano per conseguenza” l’inabilità o la morte; definiva poi la “malattia” come “ogni alterazione patologica dello stato di salute… che causi l’impossibilità dell’Assicurato di prestare la propria opera”.
Poiché il contratto disciplinava in modo diverso i rischi derivanti dall’infortunio e quelli derivanti dalla malattia, una differenza tra le due ipotesi doveva pur esistere: altrimenti si sarebbe violato il criterio ermeneutico dell’interpretazione utile (art. 1367 c.c.).
Ma la differenza tra l’infortunio e la malattia non può risiedere nelle conseguenze. Anche un infortunio, infatti, può provocare una malattia (una ferita lacero-contusa può provocare il tetano); così come una malattia può provocare un infortunio (l’osteoporosi può provocare una caduta e una frattura).
Tanto la polizza infortuni, quanto la polizza malattia indennizzano un pregiudizio alla salute. Quel che cambia tra l’una e l’altra è la genesi di quel pregiudizio. Nell’assicurazione infortuni il pregiudizio, per patto contrattuale, deve derivare da una “lesione” violentemente provocata ab externo; nell’assicurazione malattia il pregiudizio deve derivare non da un atto violento, né da una “lesione” dell’integrità psicofisica, ma da una “alterazione patologica”.
La Corte d’Appello pertanto, escludendo che una malattia infettiva possa ritenersi una “causa violenta”, ha adottato un’interpretazione del contratto non implausibile; coerente col testo contrattuale; e soprattutto rispettosa dell’art. 1367 c.c.
1.5. In secondo luogo, la Corte d’Appello è pervenuta alle conclusioni qui censurate facendo leva anche sulla condotta delle parti successiva alla stipula del contratto, valutazione che in questa sede non viene censurata.
1.6. Le conclusioni appena esposte non sono scalfite dall’argomento sul quale così tanto insiste la difesa dei ricorrenti e, cioè, che, in materia di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, questa Corte ha equiparato, ai fini dell’indennizzabilità da parte dell’Inail, l’infezione virale agli infortuni.
La logica giuridica non si basa sulle assonanze; ed è dogmaticamente scorretto ritenere che princìpi giuridici affermati a determinati fini ed in determinate materie, oltretutto caratterizzate da principi informatori speciali e da discipline specifiche, siano liberamente esportabili in utroque iure.
Così come, ad es., sarebbe scorretto pretendere che la “buona fede” di cui all’art. 1147 c.c. equivalga alla buona fede di cui all’art. 1375 c.c., allo stesso modo è giuridicamente scorretto pretendere che l’assicuratore privato contro gli infortuni debba farsi carico del rischio di malattia infettiva sol perché nel settore delle assicurazioni sociali infezione ed infortunio siano stati equiparati (dalla giurisprudenza) quanto agli effetti.
Ma le differenze tra l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e l’assicurazione privata contro gli infortuni non sono assimilabili per i fini che qui vengono in rilievo, per le ragioni che seguono.
1.6.1. Innanzitutto va ricordato che l’affermazione della giurisprudenza lavoristica secondo cui, quando si tratti di stabilire se il lavoratore abbia subito un infortunio indennizzabile dall’Inail, “causa violenta di infortunio sul lavoro è anche l’azione di fattori microbici o virali”, risale ad un’epoca nella quale il lavoratore che avesse contratto una malattia professionale poteva pretendere l’indennizzo da parte dell’Inail solo se la malattia fosse compresa nell’elenco annesso al D.P.R. 30.6.1965 n. 1124.
Pertanto, per oltre vent’anni, dal 1965 al 1988, una malattia infettiva non contemplata dalla legge non poteva dar diritto ad alcun indennizzo da parte dell’assicuratore sociale.
Fu in quell’epoca che si affermò in via pretoria l’equiparazione tra infezione ed infortunio in ambito giuslavoristico, all’evidente scopo di apprestare tutela al lavoratore ed evitare sospetti di illegittimità costituzionale del sistema allora vigente.
Ma da quando la Corte costituzionale dichiarò illegittimo l’art. 38, comma 2, D.P.R. 1124/65, nella parte in cui non prevedeva che l’assicurazione contro le malattie professionali fosse obbligatoria anche per malattie diverse da quelle comprese nelle tabelle allegate al testo unico (Corte cost., 18-02-1988, n. 179), qualunque malattia infettiva contratta in occasione di lavoro è divenuta indennizzabile da parte dell’Inail; e ciò ha reso giuridicamente irrilevante la distinzione tra malattia ed infortunio nell’ambito dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro.
1.6.2. Errano dunque i ricorrenti allorché sostengono che, alla luce della giurisprudenza giuslavoristica in tema di assicurazioni sociali, anche un contratto di assicurazione privata contro gli infortuni debba interpretarsi nel senso che una infezione vada sussunta nel novero degli infortuni.
L’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e l’assicurazione privata contro gli infortuni hanno infatti ben poco in comune sotto il profilo che qui interessa.
1.6.3. Nell’assicurazione obbligatoria i rischi assicurati sono stabiliti dalla legge; nell’assicurazione privata sono stabiliti dalle parti. Nella prima, dunque, è la legge (ivi compresa la sentenza additiva della Corte costituzionale, che – come noto – è fonte di produzione della norma giuridica) a stabilire cosa debba intendersi per “infortunio”, nella seconda è la volontà delle parti. E, se la volontà delle parti è quella di escludere le malattie infettive dal rischio assicurato, è vano disquisire se sia o non sia “violenta” l’azione dell’agente patogeno sulle cellule dell’ammalato.
Nell’assicurazione privata non conta cosa sia una “infezione” dal punto di vista clinico, ma conta cosa le parti del contratto hanno voluto che fosse.
Ed infatti le parti d’un contratto sono liberissime di chiamare col nome che vogliono i fatti che meglio credono. Quando interpreta il contratto il compito del giudice è ricostruire una volontà, non definire un concetto.
Dunque, ai fini dell’insorgenza degli obblighi contrattuali, nulla vieta alle parti di definire una malattia come infortunio o un infortunio come malattia. Nulla vieta loro, cioè di considerare, ai fini degli obblighi contrattuali, un determinato fatto come infortunio o come malattia, a loro insindacabile giudizio e a prescindere dalla oggettiva natura di quel fatto.
Pertanto, una volta che la polizza infortuni abbia definito l’infortunio come “l’evento dovuto a causa fortuita, violenta ed esterna, che produca lesioni corporali”, ed una volta che il giudice di merito abbia interpretato tale clausola nel senso che essa escluda dal novero dai rischi indennizzabili la malattia infettiva non provocata da un evento traumatico, perché manca l’elemento della “violenza” e quello della “lesione”, tale giudizio – oltre ad essere intrinsecamente corretto – è comunque insindacabile in questa sede, in quanto apprezzamento riservato al giudice di merito, a nulla rilevando che il legislatore a tutt’altri fini abbia inscritto le conseguenze del contagio tra le garanzie apprestate dall’Inail.
1.6.4. Nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro la distinzione tra infortunio e malattia è divenuta dopo il 1988 – come s’è detto – giuridicamente irrilevante: e tanto non perché malattia ed infortunio siano fatti omogenei, ma per la ben diversa ragione che sono concetti equiparati quanto agli effetti per dictum del Giudice delle leggi. Nell’assicurazione privata, invece, quella distinzione è rilevantissima, perché segna il discrimine tra rischi coperti e rischi esclusi.
1.6.5. Nelle assicurazioni private l’assicurazione contro gli infortuni e l’assicurazione contro le malattie costituiscono rami diversi (art. 2, comma 2, nn. 1 e 2 cod. ass.).
I rami assicurativi, ai sensi dell’art. 1, lettera (tt) dello stesso codice, sono “un insieme omogeneo di rischi od operazioni che descrive l’attività che l’impresa può esercitare al rilascio dell’autorizzazione”: i rischi compresi in rami diversi pertanto per espressa previsione di legge non possono essere considerati omogenei, prova ne sia che l’autorizzazione all’esercizio, la vigilanza, la determinazione delle tariffe e il calcolo delle riserve dipendono dal ramo esercitato (cfr. art. 13, secondo comma; 15, primo comma; 20, 88, terzo comma, cod. ass.).
Conseguentemente, la fissazione del premio puro nell’assicurazione contro gli infortuni dipende dalla incidenza statistica di questi ultimi e non da quella delle malattie infettive, e viceversa. Sostenere, dunque, che le malattie infettive e gli infortuni costituiscano una identica categoria di rischio significherebbe incongruamente accorpare sotto la medesima disciplina d’impresa rischi che la legge ha inteso tenere distinti.
1.7. Non è dunque esatto quanto sostenuto dai ricorrenti, ovvero che esista una nozione giuridica universale secondo cui l’infezione virale sia sempre e comunque sinonimo di infortunio dovuto a causa violenta. È vero invece l’esatto contrario: l’irrilevanza giuridica della distinzione tra malattia ed infortunio stabilita dalla Corte costituzionale rileva solo nel campo dell’assicurazione sociale, e cessa col cessare del campo d’applicazione di quella.
2. Il secondo motivo di ricorso.
Col secondo motivo i ricorrenti tornano a censurare, sotto altri profili, l’interpretazione che il giudice di merito ha dato della polizza. Impugnano, in particolare, il giudizio con cui la Corte d’Appello: a) ha ritenuto che il contratto includesse espressamente nel rischio assicurato solo le infezioni causate da morsi o punture di animali; b) ha valorizzato tale circostanza per trarne la conclusione che le infezioni diverse da quelle causate da morsi di animali o da malattie tropicali fossero escluse dalla copertura.
Deducono che la Corte d’Appello non avrebbe spiegato tale conclusione; che comunque per “malattie tropicali” dovrebbero intendersi stricti iuris tutte le malattie a diffusione internazionale, con inclusione dunque anche dell’infezione da Coronavirus.
2.1. Questo motivo è inammissibile, perché censura una interpretazione non irragionevole, né quella prospettata dai ricorrenti può ritenersi l’unica interpretazione consentita dal testo della legge.
2.2. Insussistenti, poi, sono le denunciate violazioni degli artt. 1362,1364 e 1365 c.c.
Nell’individuazione dei rischi coperti dalla polizza la Corte d’Appello ha fatto puntuale applicazione della regola di esperienza inclusio unius, exclusio alterius; né ha pregio il richiamo dei ricorrenti agli artt. 253 e 254 del r.d. 27.7.1934 n. 1265. Tali norme, infatti, non si occupano di malattie tropicali, ma si limitano a delegare all’autorità di Governo l’adozione di misure innominate per la prevenzione delle malattie infettive.
È doveroso aggiungere che nessuna norma di legge definisce la nozione di “malattie tropicali”; che la grammatica e il buon senso e pochi indici normativi impongono di considerare tali le malattie endemiche nei Paesi della fascia tropicale (cfr. art. 77 D.P.R. 29.12.1973 n. 1092, in tema di indennizzi al personale statale distaccato in Somalia, che equipara alla causa di servizio “le malattie tipicamente tropicali ivi contratte”, così lasciando intendere che quella di “malattia tropicale” sia una definizione a base geografica); che, infine, la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità definisce le malattie tropicali come “tutte le malattie contagiose e non contagiose che si manifestano principalmente ai tropici (“desease that occur principally in the tropics”: cfr. WHO Report 2008, Geneva 2008).
Ed è di tutta evidenza che la pandemia da coronavirus non può ricondursi ad alcuno di questi concetti.
3. Il terzo motivo di ricorso.
Col terzo motivo è denunciata la violazione dell’art. 42 della L. n. 27 del 2020.
Sostengono i ricorrenti che la Corte d’Appello, ritenendo che il contratto non includesse tra i rischi la morte causata da malattia infettiva avrebbe violato il secondo comma della suddetta norma, il quale “con specifico riferimento alla definizione di infortunio, recepisce quanto ormai pacificamente accolto e riconosciuto dalla normativa antinfortunistica, ossia che la malattia virale è pacificamente riconosciuta come causa violenta”.
3.1. Il motivo è infondato.
L’art. 42, secondo comma, D.L. 17.3.2020 n. 18 (convertito nella L. 24.4.2020 n. 27) stabilisce che “nei casi accertati di infezione da coronavirus […] in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato […]. I predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti dell’allegato 2 al decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali del 27 febbraio 2019, recante “Modalità per l’applicazione delle tariffe 2019. La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati”.
Pretendere che, in virtù di questa legge, evidentemente emergenziale e volta a fronteggiare una situazione eccezionale e imprevedibile qual è stata la pandemia da coronavirus dal 2020, l’assicuratore che ha stipulato una polizza contro gli infortuni sia obbligato a pagare l’indennizzo ivi previsto a chi abbia contratto una malattia infettiva di qualunque tipo è affermazione giuridicamente insostenibile per molte ragioni, in quanto:
(a) l’art. 42 D.L. 18/20 non è una norma sui contratti, non conforma il contenuto dei contratti e non impone obblighi contenutistici o interpretativi alle parti del contratto;
(b) i contratti si interpretano secondo l’intenzione comune dei contraenti (art. 1362 c.c.): e tale principio impedisce di ritenere che un evento mai preso in considerazione dalle parti al momento della stipula (la malattia infettiva; e, tanto meno, la stessa infezione pandemica, del tutto priva di precedenti a memoria d’uomo) possa rientrare nel rischio assicurato a causa di una norma successiva alla stipula, che non si occupa delle polizze private contro gli infortuni;
(c) le norme si interpretano in base al loro scopo per come reso evidente dalla connessione delle parole (interpretazione finalistica): e l’art. 42 D.L. 18/20 ha lo scopo di estendere la tutela dei lavoratori al rischio di contagio, non quello di modificare l’oggetto delle polizze private contro gli infortuni (sempre ammesso che una modifica di tal fatta possa mai avere legittimamente luogo per factum principis, con unilaterale accollo ad una delle parti di una serie di rapporti negoziali delle conseguenze dannose dell’evento consistito nell’emergenza pandemica).
4. Il quarto motivo di ricorso.
Col quarto motivo i ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 1886 c.c., dell’art. 8 D.L. 502/1992 e dell’Accordo Collettivo Nazionale del 27 maggio 2009 riguardante i medici di medicina generale.
Deducono che erroneamente la Corte d’Appello ha qualificato “assicurazione privata” il rapporto contrattuale sorto dal contratto stipulato tra l’ENPAM ed i due coassicuratori Generali ed Aviva.
Sostengono che la distinzione tra assicuratore sociale e provata non dipende – al contrario di quanto ritenuto dalla Corte territoriale – dalla natura del rapporto di lavoro svolto dall’assicurato. L’assicurazione sociale secondo i ricorrenti va individuata in base a tre elementi: l’obbligatorietà, la predeterminazione normativa del premio e l’automaticità delle prestazioni, requisiti tutti e tre ricorrenti nel caso di specie.
Dalla invocata natura di “assicurazione sociale” della polizza oggetto del contendere i ricorrenti traggono la conclusione (implicita, ma evidente) dell’applicabilità al caso di specie dei princìpi giuslavoristici in tema di equiparazione e tra infezione ed infortunio.
4.1. Il motivo è infondato.
Il contratto stipulato dall’ENPAM con la Generali e la Aviva è infatti soggetto alle regole dell’assicurazione privata e non a quelle delle assicurazioni sociali perché costituisce una forma assicurativa integrativa di quelle minime obbligatorie stabilite dalla legge.
La previdenza e l’assistenza obbligatorie per i medici di medicina generale sono stabilite dallo Statuto dell’ENPAM (approvato con D.M. 17.4.2015), che vi provvede attraverso il Fondo di previdenza generale (art. 3, comma 5, lettera (a) dello Statuto).
Il Regolamento di tale fondo (delibera CdA ENPAM 21.2.2020 n. 20) accorda agli iscritti una pensione di inabilità nel caso di infortunio o malattia (art. 20 e ss. Regolamento del fondo di previdenza): e tali previsioni costituiscono la tutela minima obbligatoria inderogabile.
Lo Statuto dell’ENPAM accorda poi alla Fondazione la facoltà di prevedere in favore degli iscritti forme “di tutela sanitaria integrativa, anche mediante la stipulazione di polizze assicurative” (art. 5, comma 2, Statuto ENPAM).
Con la stipula della polizza oggetto del presente giudizio, pertanto, l’ENPAM ha accordato agli iscritti una forma di tutela integrativa, come tale sottratta alle regole di cui al D.P.R. 1124/65 ed a fortiori a quelle di cui all’art. 42 D.L. 18/20.
Questa Corte, infatti, ha ripetutamente affermato che le norme di legge sull’assistenza e sulla previdenza obbligatorie non s’applicano alle forme integrative di previdenza o assistenza adottate sulla base di previsioni della contrattazione collettiva (Sez. L, Sentenza n. 29418 del 15/11/2018; Sez. L, Sentenza n. 2506 del 31/01/2017).
5. L’infondatezza di tutti i motivi comporta il rigetto del ricorso.
Le spese del presente grado di giudizio vanno compensate integramente tra le parti, in considerazione della novità della questione.
Infine, per la natura della causa petendi, va di ufficio disposta l’omissione, in caso di diffusione del presente provvedimento, delle generalità e degli altri dati identificativi del dante causa degli odierni ricorrenti, ai sensi dell’art. 52 D.Lgs. 196 del 2003.
Per questi motivi la Corte di cassazione:
(▪) rigetta il ricorso;
(▪) compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità;
(▪) ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti ed al competente ufficio di merito, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto;
(▪) dispone che, ai sensi dell’art. 52 D.Lgs. 196 del 2003, in caso di diffusione del presente provvedimento siano omessi generalità ed altri dati identificativi del dante causa degli odierni ricorrenti.
Così deciso in Roma, il 9 dicembre 2024.
Depositato in Cancelleria il 6 febbraio 2025.
