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Cassazione civile sez. III, 04/06/2013, n.14038

Massima

L’esclusione della facoltà di recesso da un contratto non costituisce clausola vessatoria, ai sensi dell’art. 1341, secondo comma, cod. civ., e, pertanto, non è necessaria per la sua efficacia la specifica approvazione per iscritto, dal momento che l’elencazione contenuta nella norma suddetta non è soggetta ad interpretazione analogica, ma solo estensiva ed in essa non solo non è prevista l’ipotesi della rinuncia al recesso, ma neppure è contemplato alcun caso che a questa possa essere assimilato.

Supporto alla lettura

CLAUSOLA VESSATORIA

Con l’espressione clausola vessatoria si fa riferimento a clausole inserite all’interno di un regolamento contrattuale, che per il loro contenuto comportano uno squilibrio di diritti e obblighi a danno di una parte e a favore di un’altra.

Disciplinata dagli artt. 1341 e 1342 c.c., e, nel Codice del Consumo, dagli artt. 33 e ss. D. Lgs. 205/2006, la loro applicazione varia a seconda della natura dei contraenti:

  • si applica la normativa codicistica nel caso di contratti conclusi tra professionisti o imprenditori (business to business) o tra consumatori (consumer to consumer);
  • si applica la disciplina consumeristica quando uno dei due contraenti sia un consumatore e l’altro un professionista o imprenditore (business to consumer).

Ambito oggettivo di applicazione

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La controversia trae origine da un contratto di formazione professionale stipulato in data 08.08.1994 tra la S.E.M. – Scuola Estetica Moderna di Caterina Vetrano (di seguito, brevemente, S.E.M.) e B.A.M. che prevedeva il corrispettivo complessivo di L. 12.000.000 per un corso triennale finalizzato al conseguimento della qualifica di specializzata estetista e il divieto di recesso per l’iscritta al corso, con esclusione del diritto di ripetizione di quanto pagato anticipatamente e obbligo di pagamento del saldo del corso anche in caso di mancata frequenza.

Poichè B.A.M., nel corso del secondo anno, aveva interrotto la frequentazione, comunicando con lettere del maggio e giugno 1996 il proprio recesso, la S.E.M. adiva il Tribunale di Verbania per sentirne accertare l’inadempimento contrattuale, con conseguente risoluzione e pagamento del saldo del corrispettivo ancora dovuto in ragione di L. 6.480.000.

La sentenza del Tribunale in data 08.11.2000, pronunciata nella contumacia della B., di condanna della convenuta al pagamento della minor somma di L. 1.030.000 pari al residuo dovuto per il secondo anno di corso, veniva annullata per difetto di notifica;

quindi – riassunta la causa in primo grado ad iniziativa della S.E.M. – con sentenza in data 25.03.2005 il Tribunale dichiarava risolto il contratto per inadempimento della convenuta e la condannava al pagamento della somma di Euro 3.346,64 oltre interessi dal 30.06.1996 al saldo, oltre le spese.

La decisione, gravata da impugnazione da parte di B.A.M., era confermata dalla Corte di appello di Torino, la quale con sentenza in data 29.06.2009 condannava l’appellante al pagamento delle ulteriori spese.

Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione B.A. M., svolgendo tre motivi.

Ha resistito la S.E.M., depositando controricorso e memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso – avuto riguardo alla data della pronuncia della sentenza impugnata (successiva al 2 marzo 2006 e antecedente al 4 luglio 2009) – è soggetto, in forza del combinato disposto di cui al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 27, comma 2 e della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 58, alla disciplina di cui agli artt. 360 cod. proc. civ. e segg. come risultanti per effetto del cit. D.Lgs. n. 40 del 2006.

1.1. La Corte di appello – condividendo le valutazioni del primo giudice in punto di illegittimità del recesso esercitato dalla B. – ha ritenuto non frazionabile la prestazione avente ad oggetto un corso triennale finalizzato al conseguimento di un attestato professionale, con la conseguenza che anche il corrispettivo è stato considerato unitario.

In particolare – secondo i giudici di appello – le prestazioni che si contrappongono nel contratto inter partes sono costituite da un lato, dalla prestazione didattica facente carico alla Scuola e comportante l’obbligo di assicurare all’iscritta la partecipazione alle lezioni e, dall’altra, dal pagamento del corrispettivo gravante sull’iscritta a fronte della suddetta prestazione didattica; con la conseguenza che – risultando la frequentazione al corso solo una modalità di esecuzione – la unilaterale decisione da parte della B. di interrompere la frequenza al corso è inidonea a incidere sull’equilibrio contrattuale.

In tale prospettiva la Corte territoriale – negato il carattere vessatorio della clausola contrattuale che esclude il diritto di recesso, siccome coerente con la disciplina codicistica dell’art. 1373 cod. civ. – ha ritenuto che la B. non possa vantare alcun diritto restitutorio o di sospensione del pagamento, trattandosi di prestazione unitaria, sia pur rateizzata (solo differita) correlata ad una controprestazione altrettanto unitaria; nel contempo ha escluso che la domanda di pagamento possa essere paralizzata dall’eccezione di prescrizione presuntiva, in considerazione del riconoscimento dell’inadempimento, quale emergente dalle stesse allegazioni difensive dell’appellante.

2. Con il primo motivo di ricorso si denuncia omessa e contraddittoria motivazione circa i punti decisivi della controversia prospettati dalle parti e decisivi per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5. A corredo del motivo si chiede che questa Corte – in contrasto con l’affermazione contenuta nella decisione impugnata secondo cui si trattava di un contratto unitario e completo della durata di tre anni con corrispettivo non frazionabile per cui il pagamento era dovuto integralmente – enunci “il principio che nel contratto, della durata di tre anni, sussistono due corsi distinti, non cumulabili in modo unitario, siccome nella domanda di iscrizione si rileva che il corso è accessibile solo col superamento dell’esame base biennale, da sostenersi davanti alla Commissione della Regione Piemonte, facendo conseguire il rilascio di due distinti attestati (regionali): la qualifica di estetista e la specializzazione”;

siffatto principio andrebbe desunto dalle clausole contrattuali che impongono la frequenza obbligatoria, pena la non ammissione all’esame in caso di frequenza inferiore alle n. 900 ore annue e che, in caso di esito negativo dell’esame, non prevedono la ripetizione gratuito del corso; ne deriverebbe l’ammissibilità del recesso nel contratto di durata ex art. 1373 cod. civ. e, di conseguenza, si chiede di “volere dichiarare satisfattivo il corrispettivo già pagato”.

2.1. Il motivo non merita accoglimento.

Invero – secondo il consolidato orientamento di questa Corte – l’interpretazione del contratto, consistendo in un’operazione di accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in un’indagine di fatto riservata al Giudice di merito, le cui valutazioni soggiacciono, in sede di legittimità, a un sindacato che è limitato alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed al controllo di una motivazione coerente e logica.

Sia la denuncia delle regole di ermeneutica che la denuncia del vizio di motivazione esigono una specifica indicazione e cioè la precisazione del modo attraverso il quale si è realizzata la violazione anzidetta e delle ragioni dell’obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento del giudice, in modo da dimostrare l’erroneo risultato interpretativo, cui per effetto della predetta violazione, è giunta la decisione. Non è ammissibile, pertanto, in sede di legittimità, la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto già dallo stesso esaminati (ex multis, tra le più recenti: Cass. 14 gennaio 2013, n. 710; Cass. 2 maggio 2012, n. 6641; Cass. 12 maggio 2006, n. 11038).

Inoltre, questa Corte ha più volte precisato che la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal Giudice di merito, in quanto del tutto estranea all’ambito del vizio in considerazione la possibilità, per il Giudice di legittimità, di procedere ad una nuova valutazione di merito attraverso la disamina autonoma delle emergenze probatorie. Il vizio di motivazione, pertanto, sotto il profilo della omissione, insufficienza e contraddittorietà della medesima, può dirsi sussistente solo qualora, nel ragionamento del Giudice del merito, siano rinvenibili tracce evidenti del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero qualora esista un insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire la identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione (ex plurimis Cass. 6 luglio 2012, n. 11402).

2.2. Ciò premesso in via di principio, va innanzitutto osservato che il motivo incorre nella sanzione di inammissibilità di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6. Invero la norma – secondo l’interpretazione patrocinata dalle Sezioni Unite di questa Corte (cfr. sentenze 2 dicembre 2008, n. 28547 e 25 marzo 2010, n. 7161) – ponendo come requisito di ammissibilità “la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda” – richiede la specificazione dell’avvenuta produzione in sede di legittimità, accompagnata dalla doverosa puntualizzazione del luogo all’interno di tali fascicoli, in cui gli atti o documenti evocati sono rinvenibili.

Orbene parte ricorrente si limita a riportare in ricorso brevi stralci delle clausole contrattuali poste a fondamento del motivo, secondo una propria personale scelta, senza indicare se e dove la relativa documentazione sia rinvenibile in atti, all’uopo non essendo sufficiente la mera allegazione di deposito dei fascicoli dei gradi di merito.

2.3. In ogni caso la censura incorre anche nel rilievo di genericità, conducente all’inammissibilità del motivo, atteso che non evidenzia alcuna frattura nell’iter motivazionale della decisione impugnata, risolvendosi in argomentazioni meramente alternative, che, da un lato, sono superate dalla coerente interpretazione, ad opera della Corte di appello, dell’accordo tra le parti, come avente ad oggetto una prestazione unitaria, e, d’altro lato, implicano valutazioni di circostanze di fatto non adeguatamente illustrate nel ricorso nel loro preciso contenuto documentale e testuale.

Tutto ciò si riflette sul “quesito” conclusivo che – lungi dall’assolvere la funzione di “chiara indicazione” del fatto controverso e della sua “decisività” come richiesto dall’art. 366 bis cod. proc. civ. in relazione al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 qui denunciato – sollecita, in buona sostanza, un inammissibile intervento in sovrapposizione di questa Corte rispetto alìinterpretazione svolta dai Giudici del merito.

3. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione della norma sulle clausole vessatorie ex art. 360 c.p.c., n. 3. Con il quesito conclusivo si chiede – in contrasto con l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata in punto di validità della clausola che escludeva il recesso – di “rilevare” che le motivazioni del giudice di appello sono applicabili al contratto- tipo, pur avendo essa appellante rilevato che si trattava di contratto per adesione allo schema predisposto dalla controparte; di “dichiarare vessatoria” la clausola contestata e non specificamente approvata per iscritto, relativa al pagamento del corrispettivo, con esclusione della facoltà di recesso, “clausola non conosciuta dalla B., non risultando annotata l’avvenuta consegna di copia della domanda di iscrizione ai corsi”; di “enunciare che altre clausole” contrattuali “potrebbero ritenersi onerose”, siccome limitative della facoltà di proporre eccezioni e comportanti previsione di decadenza;

di “confermare” la giurisprudenza che, in assenza di trattativa individuale, ritiene inefficace la clausola derogatoria abusiva o vessatoria.

3.1. Il motivo è, per una parte, infondato e, per altra, inammissibile.

Sotto il primo profilo va, innanzitutto, evidenziato che trattasi di contratto stipulato nell’anno 1994, antecedente all’introduzione dell’art. 1469 bis cod. civ., avvenuta con la L. 6 febbraio 1996, n. 52, le cui disposizioni, prive di effetto retroattivo, non si applicano ai negozi conclusi in epoca antecedente (Cass. 17 giugno 2002, n. 8697). Per le medesime ragioni è inapplicabile la disciplina delle clausole vessatorie di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, artt. 33 e 34 (Codice del Consumo).

Ciò posto e considerato che la normativa di riferimento va individuata negli artt. 1341 e 1342 cod. civ., è assorbente rispetto ad ogni altra considerazione il rilievo che la clausola contrattuale che stabilisca l’esclusione della facoltà di recesso da un contratto non costituisce clausola vessatoria e pertanto non è necessaria per la sua efficacia la specifica approvazione per iscritto (Cass. civ., Sez. Unite, 14 giugno 1990, n. 5777). Invero – come evidenziato dal Supremo Collegio – l’art. 1341 c.c., comma 2, che elenca i casi in cui le clausole contrattuali non hanno effetto se non sono specificamente approvate per iscritto dalla parte che ad esse manifesta adesione, non è soggetto ad interpretazione analogica, ma solo ad interpretazione estensiva. Senonchè la norma non solo non prevede, ai fini della necessità di una specifica approvazione per iscritto, l’ipotesi della rinuncia al recesso, ma neppure contempla alcun caso che a questa possa essere assimilato.

3.2. Sotto l’altro profilo sopra evidenziato il motivo incorre nella sanzione di inammissibilità per la genericità, oltre che per la novità delle allegazioni, giacchè denuncia non meglio precisate “altre clausole inserite nel contratto”.

4. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia falsa applicazione dell’art. 2956 c.c., n. 4 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Al riguardo parte ricorrente si duole che la Corte di appello abbia escluso l’applicazione della prescrizione presuntiva, muovendo dalla considerazione che essa appellante aveva riconosciuto di non avere versato null’altro dal maggio 1996 con l’interruzione della frequenza al corso e richiesto, in subordine, la condanna alla minor somma;

deduce, in contrario senso, che l’aver contestato l’esistenza dell’obbligazione non significa ammettere che l’obbligazione non si è estinta, anche perchè potrebbe avere ammesso solo che non era stata estinta l’obbligazione di Euro 531,95 (quale era stata accertata dalla sentenza del Tribunale, poi dichiarata nulla per difetto di contraddittorio).

4.1. Il motivo è corredato da un quesito conclusivo (“l’obbligazione non è mai esistita giuridicamente perchè nel primo giudizio con sentenza 08/11/2000 era stata determinata in Euro 531,95, mentre nella riassunzione in data 13/03/2003, viene avanzata la pretesa di Euro 3.532,51, per cui la B. non può sapere in determinata, per circa sette anni, nel l’importo di Euro 531,95”) pressochè incomprensibile ad una lettura autonoma dal motivo e, comunque, incongruo per il rilievo dato ai contenuti della sentenza annullata per difetto di contraddittorio.

Anche a prescindere da quanto sopra, il motivo non merita accoglimento perchè manifestamente infondato. Invero l’eccezione di prescrizione presuntiva non può essere utilmente sollevata dal debitore che abbia ammesso in giudizio che l’obbligazione non è stata estinta, dovendosi ritenere che tale situazione ricorra allorchè il debitore neghi l’esistenza, in tutto o in parte, del credito oggetto della domanda, ovvero eccepisca che il vero creditore sia persona diversa da quella che agisce in giudizio oppure sostenga di avere soddisfatto il creditore in riferimento ad un rapporto di contenuto ridotto rispetto a quello oggetto della controversia (Cass. 2 ottobre 2009, n. 21107).

Valga considerare che la prescrizione presuntiva è fondata sulla presunzione di adempimento dell’obbligazione e implica, quindi, il riconoscimento dell’esistenza del credito nella stessa misura richiesta dal creditore; di conseguenza l’eccezione di prescrizione presuntiva è incompatibile con l’ammissione del debitore che il credito (anche solo in parte) non si sia estinto.

In conclusione il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo alla stregua dei parametri di cui al D.M. n. 140 del 2012, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 1.500,00 (di cui Euro 1.200,00 per compensi) oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 25 marzo 2013.

Allegati

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