Massima

In materia di risarcimento del danno, il danno da perdita della vita non è risarcibile iure hereditatis quando il decesso si verifica immediatamente o dopo un brevissimo lasso di tempo dalle lesioni, poiché il bene giuridico “vita” è fruibile solo in natura e non è reintegrabile per equivalente in assenza di un soggetto al quale possa essere collegata la perdita o di uno spazio di vita utile e apprezzabile. Conseguentemente, in assenza di un apprezzabile lasso di tempo tra la lesione e la morte e di uno stato di incoscienza profonda del paziente, deve escludersi sia la “lucida agonia” che la risarcibilità del danno biologico iure hereditatis.

Supporto alla lettura

DANNO BIOLOGICO

Quando una persona fisica subisce una lesione nella psiche o nel fisico, si realizza il c.d. danno biologico, ed essendo l’integrità fisica un bene costituzionalmente garantito, il danno biologico deve essere risarcito.

Si tratta di un danno non patrimoniale che consegue ad una lesione fisica o psichica, che può compromettere – in modo temporaneo o permanente – quelle che sono le attività vitali di una persona.

La forma più grave di danno biologico è il danno tanatologico, che si verifica a seguito della morte di un soggetto a causa di un’azione illecita da parte di terzi (questa tipologia di danno non è universalmente accettata e per questo motivo rappresenta un tipo di danno biologico che riconosce meno diritto a indennizzi).

I casi più comuni nei quali si riconosce l’esistenza di un danno biologico sono:

  • la modifica dell’aspetto estetico di un individuo;
  • la riduzione delle capacità psico-fisiche (es. la perdita della capacità sessuale, della capacità di relazionarsi con gli altri individui, il danno psichico, ecc);
  • la perdita di chance lavorative o la riduzione della capacità lavorativa.

Gli elementi costitutivi della fattispecie del danno biologico, che devono essere provati al fine della sussistenza del danno, sono:

  • lesione psichica o fisica;
  • compromissione delle attività vitali;
  • nesso causale tra compromissione delle attività vitali e lesione.

Il danno biologico deve essere liquidato calcolandolo sulla base di alcune tabelle di riferimento che mettono a confronto quattro fondamentali parametri: i primi due si riferiscono al reddito percepito dal danneggiato e all’età, che devono poi essere confrontati con lapercentuale di invalidità che è stata riportata in seguito alla lesione e con la sua entità. Ciascuno di questi parametri incide sulla liquidazione complessiva del danno.

Il danno biologico viene liquidato prendendo come punto di riferimento due voci:

  • invalidità temporanea: consiste nel numero di giorni che sono necessari alla persona per guarire e per ritornare alle sue normali attività;
  • invalidità permanente: da determinarsi con riferimento a requisiti che consistono nell’età del danneggiato e nel grado di invalidità permanente.

Per quanto riguarda l’entità della lesione, occorre distinguere:

  • micropermanente: l’entità è considerata lieve e compresa tra lo 0 e il 9%;
  • macropermanente: l’entità supera il 9%.

Le tipologie di casi in cui può verificarsi danno biologico sono:

  • danno biologico da incidente stradale;
  • danno biologico derivante da responsabilità medica;
  • danno biologico INAIL o di origine lavorativa.

Il diritto del danneggiato ad ottenere il risarcimento del danno biologico è trasmissibile agli eredi. In particolare i familiari possono agire al fine di ottenere il risarcimento per i danni che hanno personalmente percepito a causa del decesso del congiunto o dell’insorgenza della sua infermità (iure proprio), e anche il diritto a vedersi erogate tutte le somme che sono state maturate e non riscosse dal loro congiunto, sia a titolo di danni non patrimoniali che di danni patrimoniali (iure hereditario).

Il danno alla salute deve necessariamente essere provato tramite un’idonea certificazione medica.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

1.- (omissis) si è recato in ospedale per un programmato intervento di Bypass. Tuttavia, i medici, invertendo la cannula della vena con quella dell’arteria, hanno indotto ipossia nel paziente, cagionandone la morte prima ancora di poter effettuare l’intervento.

2.- Ne è derivato un procedimento penale, nel quale i medici sono stati condannati ed è stata accordata una provvisionale alla vedova ed alle due figlie di 500 mila euro.

Inoltre, queste ultime hanno agito davanti al Tribunale di Trieste per ottenere il risarcimento dei danni da parte della Azienda Universitaria Integrata (omissis).

Il Tribunale ha liquidato una somma inferiore a quella richiesta, riconoscendo alcune voci di danno, ed escludendone altre.

Questa decisione è stata integralmente confermata dalla Corte di Appello di Trieste.

3.-Ricorre qui (omissis), vedova del (omissis), con quattro motivi di censura, di cui chiede il rigetto l’Azienda sanitaria, che ha notificato controricorso.

Motivi della decisione

1.- Con il primo motivo si prospetta violazione dell’articolo 2059 c.c.

Esso attiene al mancato riconoscimento del danno da perdita della vita e del danno da consapevolezza delle morte imminente.

I giudici di merito hanno escluso sia l’uno che l’altro sul presupposto “sia del breve arco temporale intercorso tra la lesione e il decesso (dalla cartella clinica, trascritta a pag. 8 della relazione medico legale, risulta: …dopo pochi minuti dall’entrata in circolazione extracorporea – entrata ore 17:07 – il tecnico perfusionista comunica un deficitario ritorno venoso … si constata il decesso alle ore 17:47), sia dello stato di incoscienza indotta in cui si trovava il paziente, sottoposto a sedazione profonda in corso di intervento cardiaco.

Deve dunque escludersi tanto la sussistenza di una condizione di “lucidità agonica”, dal momento che la vittima non era in grado di percepire la sua situazione e in particolare l’imminenza della morte, quanto la sussistenza del diritto al risarcimento del danno biologico iure hereditatis, non essendo intercorso un apprezzabile lasso di tempo tra la lesione iatrogena e la morte” (p. 8).

Questa ratio è contestata dalla ricorrente sia sostenendo che “è emerso chiaramente che il trapasso del paziente è intervenuto (purtroppo) in modo graduale e non istantaneo” (p. 6), sia sul presupposto che “risulta ampiamente documento come il patimento del paziente si sia protratto per ben 40 minuti, tempo in cui il de cuius ha subito un progressivo e inevitabile aggravamento delle condizioni di salute che lo hanno poi portato al trapasso” (p. 7).

In questi termini il motivo è inammissibile.

Non contesta i criteri giuridici di apprezzamento del danno da morte o da lucida agonia, bensì i presupposti di fatto, ossia l’accertamento in fatto compiuto dai giudici di merito. A cui oppone un fatto diverso: che vi sia stata lucida agonia e che sia trascorso un lasso di tempo lungo. Ma sono circostanze di fatto contrarie a quelle accertate dai giudici di merito, e la questione dunque esula dal giudizio di legittimità.

2.- Il secondo motivo prospetta violazione dell’articolo 2059 c.c.

Attiene alla valutazione del danno da perdita del rapporto parentale.

La ricorrente si duole del fatto che, nel liquidare il danno per la perdita del congiunto, non sia stato riconosciuto il danno biologico, non sia stata riconosciuta alcuna personalizzazione né sia stato riconosciuto il danno esistenziale.

Quanto alla prima doglianza, la ricorrente sostiene di avere chiesto in primo grado una CTU, e dunque contesta la ratio decidendi che ha rigettato la richiesta di risarcimento ritenendola non sufficientemente allegata e provata.

Questa doglianza è infondata in quanto la ratio decidendi non è infirmata dalle ragioni della ricorrente, che si limita a sostenere di aver chiesto in primo grado una consulenza tecnica, ma non dimostra di averla riproposta in appello, reagendo ossia al rigetto o all’eventuale omessa pronuncia di primo grado; né infine argomenta il perché la mera richiesta di CTU avrebbe dovuto essere presa in considerazione in assenza di alcun elemento utile ad indicare l’esistenza di un danno biologico.

La seconda censura attiene alla personalizzazione del danno, ma è anche essa infondata in quanto non si allega alcun argomento a sostegno del fatto che la perdita del congiunto ha cagionato un pregiudizio più grave di quello normalmente riconducibile ad un evento simile, che è il presupposto perché la liquidazione prevista dalle tabelle possa essere personalizzata con il riconoscimento di una somma maggiore.

Quanto infine al danno esistenziale, è corretta la decisione della corte di merito di non liquidarlo, in quanto già compreso nel danno da perdita del rapporto parentale, come più volte ritenuto da questa Corte: ” In virtù del principio di unitarietà e onnicomprensività del risarcimento del danno non patrimoniale, deve escludersi che al prossimo congiunto di persona deceduta in conseguenza del fatto illecito di un terzo possano essere liquidati sia il danno da perdita del rapporto parentale che il danno esistenziale, poiché il primo già comprende lo sconvolgimento dell’esistenza, che ne costituisce una componente intrinseca.”(da ultimo Cass. 30997/ 2018).

3.- Il terzo motivo prospetta violazione degli articoli 2043 e 1218 c.c.

La ricorrente si duole del mancato riconoscimento del danno da perdita della vita.

Prende atto del fatto che l’orientamento di questa Corte è per la non risarcibilità di tale danno, ma ne chiede il superamento, con una serie di argomenti già valutati da questa Corte nelle sue precedenti decisioni.

L’orientamento è stabilito dalle Sezioni Unite secondo cui “in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicché, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità “iure hereditatis” di tale pregiudizio, in ragione – nel primo caso – dell’assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero – nel secondo – della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo” (Cass. sez. Un, 15350/ 2015).

4.- Il quarto motivo prospetta omesso esame di un fatto decisivo.

Attiene al lucro cessante.

La ricorrente aveva fatto presente come l’anno prima aveva avviato un’attività di vendita ambulante insieme al marito, attività che nell’anno successivo aveva avuto dei ricavi, e che però, dopo la morte del marito, era stata interrotta.

I giudici di merito hanno rigettato la domanda con l’argomento che, da un lato, la prova della reddittività di tale attività era fornita per solo un anno, tanta era stata la durata di essa, poi cessata per la morte del marito, per altro verso che “l’attività in questione – quella di commercio ambulante, appunto – si caratterizza per una certa aleatorietà nell’andamento dei ricavi che non consente di stabilire con sufficiente certezza se nel futuro vi sarebbero stati incrementi di guadagno ed in quale misura, né che negli anni successivi la vittima avrebbe davvero continuato a svolgere quel tipo di lavoro” (p.13).

Sostiene la ricorrente che quanto allegato era già di per sé sufficiente, e che la corte ha omesso di tenere in considerazione il dato della chiusura dell’attività dovuto proprio alla morte del marito, dato rilevante e controverso.

Il motivo è fondato nei seguenti termini.

La Corte di appello nega il lucro cessante sulla base di un ragionamento controfattuale errato: che non era escluso che i ricavi avrebbero potuto comunque diminuire da sé, o che l’attività avrebbe potuto cessare per altre ragioni. Così facendo, sostituisce all’evento concreto di cui il danneggiato si duole (aver dovuto cessare l’attività per la morte del congiunto) un evento ipotetico (l’attività poteva cessare comunque per altre cause). Se non che il danneggiato si duole di quel concreto ed effettivo evento, non di uno ipotetico.

E dunque la Corte di Appello avrebbe dovuto valutare se la morte del marito ha causato la cessazione dell’attività senza ovviamente porsi il problema se tale attività in futuro avrebbe potuto cessare comunque: come dire che se uccido taluno non è evento rilevante considerato il fatto che avrebbe potuto morire per altro. Ovviamente l’efficacia causale di una condotta (quella dei medici, nella fattispecie) si valuta rispetto al concreto evento verificatosi (se abbiano causato anche la fine dell’attività commerciale) e non rispetto ad un evento ipotetico e futuro: che l’attività avrebbe potuto andare male di suo negli anni seguenti non toglie che potrebbe essere andata di fatto male per via della perdita del marito e socio.

Va dunque accolto il quarto motivo e la decisione cassata con rinvio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il quarto motivo, rigetta gli altri. Cassa la decisione impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Trieste, in diversa composizione anche per le spese.

Così deciso in Roma, il 24 marzo 2025.

Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2025.

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