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Cassazione civile sez. II, 30/11/2022, n.35280

Massima

L’efficacia retroattiva della risoluzione, per inadempimento, di un contratto preliminare comporta l’insorgenza, a carico di ciascun contraente, dell’obbligo di restituire le prestazioni ricevute, rimaste prive di causa, secondo i principi della ripetizione dell’indebito ex art. 2033 c.c., e, pertanto, implica che il promissario acquirente che abbia ottenuto la consegna e la detenzione anticipate del bene promesso in vendita debba non solo restituirlo al promittente alienante, ma altresì corrispondere a quest’ultimo i frutti per l’anticipato godimento dello stesso. Ne consegue che nel caso di occupazione di un immobile fondata su di un titolo contrattuale venuto meno per effetto della risoluzione giudiziale del contratto va esclusa la funzione risarcitoria degli obblighi restitutori.

Supporto alla lettura

Contratto preliminare

Il contratto preliminare (anche detto compromesso) è un vero e proprio contratto che obbliga entrambe le parti alla stipula del contratto definitivo. Il preliminare deve indicare gli elementi principali della vendita quali il prezzo e la casa da acquistare, l’indirizzo e una precisa descrizione (piani, stanze etc.) con i dati aggiornati del Catasto e la data del contratto definitivo. È opportuno, inoltre, definire tutti gli obblighi reciproci da adempiere prima della consegna dell’immobile. In caso di vendita di immobili in corso di costruzione sono previste dalla legge regole particolari per la redazione del contratto preliminare. È obbligatorio che il contratto preliminare sia stipulato da un notaio nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata. Per garantire la massima tutela al futuro acquirente è molto opportuno che il contratto preliminare sia stipulato dal notaio, mediante scrittura privata autenticata o atto pubblico, in modo che venga trascritto nei Registri Immobiliari. Nelle altre ipotesi, l’opportunità della trascrizione può essere valutata con l’assistenza del notaio.

La trascrizione vale come una vera e propria prenotazione dell’acquisto dell’immobile. Non è più soltanto un accordo privato tra acquirente e venditore, viene reso legalmente valido verso chiunque (tecnicamente è “opponibile nei confronti dei terzi”) e il venditore, di conseguenza, non potrà vendere l’immobile a qualcun altro, né concedere un’ipoteca sull’immobile, né costituire una servitù passiva o qualsiasi altro diritto pregiudizievole. Gli eventuali creditori del venditore non potranno iscrivere un’ipoteca sull’immobile promesso in vendita, né pignorarlo. Dal momento della trascrizione del contratto preliminare, l’immobile è “riservato” al futuro acquirente, e qualsiasi trascrizione o iscrizione non avrebbe effetto nei suoi confronti.
Con la sentenza n. 4628 del 2015 la Corte di Cassazione a Sezioni unite ha riconosciuto validità al cosiddetto preliminare di preliminare. Si tratta di quell’accordo con cui le parti formalizzano il contenuto di una prima fase della trattativa contrattuale e con cui si obbligano a proseguire nella stessa. In questo modo danno spazio alla formazione progressiva del contratto e puntualizzano con un successivo accordo il contenuto giuridico dell’affare.

Ambito oggettivo di applicazione

OSSERVATO IN FATTO E IN DIRITTO

Ritenuto che:

E.E.7 in qualità di promissario acquirente, evocava dinanzi al Tribunale di Sanremo – Sezione distaccata Ventimiglia, L.C. e P.C., in qualità di eredi del promittente venditore L.S., al fine di ottenere la risoluzione del preliminare di vendita di bene immobile per – inadempimento delepromittente venditore;

istaurato il contraddittorio, spiegata domanda riconvenzionale da parte delle eredi per l’indennità di occupazione, il giudice adito, espletata CTU, con sentenza n. 22/2010, accoglieva la domanda principale, rilevando l’assenza del certificato di abitabilità dell’immobile promesso in vendita con condanna delle convenute alla restituzione di quando versato dal promissario acquirente, rigettata la domanda di risarcimento del maggior danno; in accoglimento parziale della riconvenzionale, condannava l’attore alla restituzione dell’immobile e al pagamento di una somma a titolo di equo indennizzo per l’occupazione dell’immobile stimata in complessivi venti giorni, oltre alla rimozione delle innovazioni operate nell’immobile o – in mancanza – al pagamento della somma di Euro 17.930,03, rigettata l’istanza di condanna dell’attore al pagamento delle spese condominiale e di utenza sostenute dal L.;

sul gravame interposto da L.C. e P.C., la Corte di appello di Genova, con sentenza n. 1244/2016, accoglieva il gravame e per l’effetto riformava integralmente il provvedimento impugnato.

In particolare, quinto alla censura relativa all’ammontare della indennità di occupazione liquidata dal giudice di prime cure, la Corte distrettuale – premesso che l’immissione in possesso dell’immobile dichiarato non abitabile costituiva titolo per richiedere un’indennità per occupazione e che l’obbligo del promissario acquirente di corrisponderla rientrava tra gli effetti restitutori derivanti dalla risoluzione per inadempimento del promittente venditore – riconosceva un’ indennità in favore di quest’ultimo pari all’equivalente pecuniario dell’uso e del godimento del bene nell’intervallo compreso tra la data di consegna dell’immobile e quella di restituzione, ritenendo rilevante ai fini dell’indennizzo la sola disponibilità del bene (nella specie provata per tabulas sino al 15 giugno 2010), in cui andava ricompreso anche l’uso indiretto del bene da parte del promissario acquirente. Aggiungeva – peraltro – che già dalle deposizioni dei testi erano emersi elementi di prova di utilizzo (diretto o mediato) dell’immobile per un periodo ben maggiore a venti giorni.

Ancora, la Corte distrettuale rilevava che “quanto al presunto accordo tra promittente venditore e promissario acquirente in ordine al mancato pagamento delle spese per utenze condominiali, esso è contraddetto da previsione espressa, in senso contrario, dedotta in contratto preliminare, laddove testualmente prevede: (CITARE)”.

Sul secondo motivo di appello, la Corte territoriale negava la pretesa rivalutazione monetaria su un importo riconosciuto a titolo restitutorio trattandosi di un debito di valuta e non di valore e riteneva non provato il maggior danno da svalutazione monetaria.

per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Genova E.E. propone ricorso fondato su quattro motivi, cui resistono con controricorso L.- P.;

in prossimità dell’adunanza camerale parte controricorrente ha curato il deposito di memoria illustrativa.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che:

con il primo motivo il ricorrente lamenta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti, con conseguente violazione dei principi generali in materia di occupazione sine titulo di cui alla L. n. 392 del 1978 nonché dell’art. 2697 c.c. in tema di onere della prova, per aver il giudice del gravame ritenuto, in caso di occupazione illegittima sine titulo di un immobile altrui, il danno in re ipsa pur avendo aderito al diverso orientamento giurisprudenziale che impone al richiedente l’indennità di fornire la prova di aver subito un’effettiva lesione.

Peraltro, il ricorrente sostiene che, in ogni caso, non sarebbe configurabile un danno in re ipsa, non essendo la P. e la L. proprietarie del bene occupato – come confermato dagli atti di causa secondo cui la proprietà – quale presupposto di operatività del danno in re ipsa – sarebbe della società La Vela s.a.s. (estranea al giudizio) di cui L.S. sarebbe stato socio accomandatario, con conseguente violazione degli artt. 832 e soprattutto 2313 e ss., nonché art. 2304 c.c. per aver la società in accomandita semplice personalità giuridica autonoma e distinta rispetto al socio accomandatario, diversamente da quanto ritenuto dal giudice di appello.

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione della L. n. 392 del 1978 e del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 24, nonché la violazione dell’art. 1220 c.c., per aver il giudice di appello liquidato l’indennità di occupazione in base al canone di locazione per gli alloggi determinato dal CTU, in applicazione dei criteri della legge evocata.

Nel dettaglio, il ricorrente deduce l’erroneità della sentenza, non solo per aver il giudice quantificato e liquidato il danno ad un soggetto non proprietario del bene occupato, ma anche per aver calcolato detta indennità sulla base del canone previsto per immobili ad uso abitativo, pur essendo l’immobile de quo privo di abitabilità.

Inoltre, il ricorrente sostiene che il giudice di appello non avrebbe dovuto riconoscere alcun indennizzo nella pendenza del giudizio di primo grado, ossia nel periodo compreso tra il 1 aprile 2004 e il 15 giugno 2010. Difatti, le eredi, nell’opporsi all’accoglimento della domanda di risoluzione del contratto spiegata dal promissario acquirente, avrebbero rifiutato la riconsegna dell’immobile offerta dall’attore, con conseguente costituzione in mora delle resistenti ex art. 1220 c.c..

Il primo e il secondo motivo, da trattare congiuntamente per la loro intrinseca connessione argomentativa, non possono trovare ingresso in quanto non si confrontano con la ratio decidendi della sentenza impugnata.

Nella specie, la Corte distrettuale ha rilevato che l’obbligo del promissario acquirente di corrispondere l’indennità di occupazione divenuta senza titolo dell’immobile promesso in vendita rientrava tra gli effetti restitutori derivanti dalla risoluzione per inadempimento del promittente venditore, facendo così buon governo del principio costantemente ribadito da questa Corte, secondo cui l’efficacia retroattiva della risoluzione del contratto preliminare per inadempimento di un contratto preliminare comporta l’insorgenza a carico di ciascun contraente dell’obbligo di restituire le prestazioni ricevute rimaste prive di causa secondo i principi sulla ripetizione dell’indebito di cui all’art. 2033 c.c.. Ne consegue che il promissario acquirente che abbia ottenuto la consegna e la detenzione anticipata del bene promesso in vendita deve non solo restituirlo al promittente alienante, ma anche corrispondere a quest’ultimo i frutti per l’anticipato godimento dello stesso (Cass. n. 6575 del 2017; Cass. n. 28381 del 2017).

In altri termini, il venir meno del contratto preliminare per effetto della risoluzione giudiziale per inadempimento comporta per il promissario acquirente che abbia ottenuto dal promittente venditore la consegna e la detenzione anticipate della cosa, l’obbligo di restituzione della cosa stessa e degli eventuali frutti (“condictio indebiti ob causam finitam”) a norma dell’art. 2033 c.c. e non determina il sorgere di un’obbligazione risarcitoria in capo al promissario acquirente per il mancato godimento del bene (in tal senso Cass. n. 16629 del 2013).

Per tali ragioni, la Corte territoriale ha condannato il contraente adempiente non già al risarcimento del danno subito dal proprietario dell’immobile per la sua occupazione, ma alla restituzione in favore della controparte della prestazione anticipatamente eseguita e i frutti del bene, per effetto di un titolo contrattuale venuto meno con la pronuncia di risoluzione.

Non possono, quindi, trovare ingresso le censure prospettate da parte ricorrente che, senza cogliere la ratio della pronuncia impugnata, si concentrano sulla funzione risarcitoria dell’indennità di occupazione illegittima, pur verificandosi nella specie una figura del tutto simile a quella di cui all’art. 2033 c.c., essendo l’occupazione dell’immobile fondata su un titolo contrattuale venuto meno per effetto della risoluzione giudiziale.

Ebbene, quanto all’ammontare dei frutti derivanti dall’uso e dal godimento del bene immobile, la Corte distrettuale, in applicazione dei principi di diritto suesposti e in virtù delle risultanze processuali, ha determinato l’indennità tenendo conto dell’intervallo compreso tra la data della consegna dell’immobile e quella della restituzione.

Quando alla presunta messa in mora delle odierne resistenti, trattasi questa di una circostanza nuova non prospettabile in questa sede. Ne’ parte ricorrente chiarisce quando l’avrebbe fatta valere nelle precedenti fasi di merito.

Stesso discorso deve farsi per la censura relativa alla presunta titolarità del bene immobile oggetto del preliminare in capo alla società La Vela, circostanza anch’essa introdotta per la prima volta in questa sede, come tale inammissibile per novità del fatto dedotto;

con il terzo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti, nonché la violazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della L. n. 392 del 1978, del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 24 e dell’art. 1220 c.c. per aver il giudice del gravame condannato il promissario acquirente al pagamento della somma di Euro 3.896,78 a titolo di spese condominiali ed utenze, sul presupposto di un presunto accordo tra l’ E. e il L. non richiamato. Il motivo è privo di pregio.

Dal tenore della sentenza impugnata si evince chiaramente che il giudice di appello, nel condannare il promissario acquirente al pagamento delle spese condominiali e delle utenze, ha tenuto conto della previsione contenuta nel contratto preliminare che smentiva l’esistenza di un accordo tra promittente venditore e promissario acquirente in senso contrario.

Pertanto, con la doglianza prospettata parte ricorrente, laddove fa leva sul mancato inserimento da parte del giudice del gravame della previsione contrattuale, si duole in realtà di un apprezzamento di merito non censurabile in questa sede nemmeno nel caso di specie, non integrando l’incompletezza del testo della sentenza un’ipotesi di omessa pronuncia, ricavandosi manifestamente la ragione della decisione, pur senza l’espressa citazione della condizione prevista nel contratto preliminare;

con il quarto motivo il ricorrente lamenta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3., la violazione dell’art. 1224 c.c. per aver la Corte distrettuale negato la rivalutazione monetaria delle somme versate in conto prezzo nel 1996.

In particolare, il ricorrente sostiene che il giudice di prime cure avrebbe riconosciuto la rivalutazione monetaria sugli acconti versati proprio per riequilibrare il pregiudizio economico che avrebbe subito, considerata la difficoltà di fornire la prova del risarcimento del danno, richiesto in primo grado dal promissario acquirente, parametrato all’incremento del valore degli immobili tra il 1996 e il 2010.

Il motivo va respinto.

Va ribadito il principio enunciato da questa Corte e applicato dalla sentenza impugnata secondo cui la risoluzione del contratto per inadempimento a seguito della pronuncia costitutiva del giudice priva di causa giustificativa le reciproche obbligazioni dei contraenti. Ne consegue che l’obbligo restitutorio relativo all’originaria prestazione pecuniaria, anche in favore della parte non inadempiente, ha natura di debito di valuta, come tale non soggetto a rivalutazione monetaria, se non nei termini del maggior danno – da provarsi dal creditore – rispetto a quello soddisfatto dagli interessi legali, ai sensi dell’art. 1224 c.c. (Cass. n. 5639 del 2013; Cass. n. 14289 del 2018).

Nella specie, il giudice del gravame, facendo buon governo del principio esposto, ha ritenuto non provato il maggior danno da svalutazione monetaria.

Per le esposte considerazioni debbono essere respinte tutte le censure e con esse il ricorso.

Le spese processuali, liquidate come in dispositivo, si devono regolare in base al principio della soccombenza.

Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso;

condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio in cassazione, liquidate in favore delle controricorrenti in complessivi Euro 5.200,00, di cuì Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda Sezione civile, il 6 maggio 2022.

Depositato in Cancelleria il 30 novembre 2022

Allegati

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