Massima

Il contratto di appalto e il contratto d’opera si distinguono in relazione alla struttura organizzativa impiegata per l’esecuzione della prestazione. Nel contratto di appalto, la realizzazione dell’opera avviene attraverso un’organizzazione imprenditoriale di media o grande dimensione, all’interno della quale l’appaltatore assume il ruolo di preposto e si avvale di una complessa struttura aziendale. Nel contratto d’opera, invece, l’esecuzione della prestazione è caratterizzata dal lavoro personale e prevalente del prestatore d’opera, il quale può eventualmente essere coadiuvato da membri della propria famiglia o da collaboratori, nel rispetto del modello organizzativo tipico della piccola impresa delineato dall’art. 2083 del Codice Civile. Tale distinzione risulta fondamentale ai fini della qualificazione giuridica del rapporto contrattuale e delle relative implicazioni normative.

 

(Rocchina Staiano)

Supporto alla lettura

CONTRATTO DI APPALTO

Si tratta dunque di un contratto di risultato e non di attività. Inoltre, si distingue dal contratto d’opera in quanto l’appaltatore non deve personalmente occuparsi del compimento delle opere commissionate, ma servirsi della propria organizzazione e gestirla a tal fine.

Tale contratto può avere ad oggetto tanto il compimento di un’opera quanto essere un appalto di servizi. Il contratto d’appalto ha forma libera. Può quindi essere concluso anche oralmente, salvo nella circostanza in cui abbia ad oggetto la realizzazione di navi od aeromobili o in cui si tratti di un appalto pubblico.

Il corrispettivo dell’appaltatore, salvo patto contrario, si matura soltanto al compimento ed al collaudo dell’opera.

Il contratto di appalto consente al committente l’utilizzo dei rimedi risolutori generali, così come previsti dagli articoli 1453 e seguenti del codice civile, non senza qualche particolarità. La natura indivisibile della prestazione dell’appaltatore determina infatti che anche un inadempimento parziale dell’appaltatore corrisponda di fatto ad un inadempimento totale. Anche al di fuori dei casi di inadempimento, i rimedi risolutori specificamente previsti dal legislatore nell’ambito del contratto di appalto presentano delle peculiarità. L’articolo 1668 del codice civile prevede infatti un rimedio per il caso di difformità o vizi dell’opera. Nel caso questi non siano tali da rendere l’opera del tutto inadatta alla sua destinazione, l’appaltatore dovrà, alternativamente, eliminarli a proprie spese o ridurre il proprio corrispettivo. Nel caso invece le difformità o i vizi siano tali da renderla inadatta alla propria funzione, il committente potrà legittimamente domandare la risoluzione dell’appalto. Per ciò che invece riguarda il recesso unilaterale “ad nutum”, del committente, lo stesso, non è tuttavia privo di conseguenze giuridiche. L’esercizio di tale diritto potestativo non lo dispensa infatti dal dover tenere indenne l’appaltatore dalle spese sostenute, dalla parte dell’opera eseguita ed anche dal mancato guadagno. In sintesi la possibilità di recedere del committente è controbilanciata dal legislatore che, di fatto, prende in considerazione questo recesso alla stregua di un inadempimento. Le conseguenze pratiche non sono infatti dissimili.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

Con atto notificato il 27 ottobre 1995 (omissis) convenne innanzi al Pretore di Sant’Elpidio a Mare (omissis), e chiese la risoluzione del contratto d’appalto con il quale lo aveva incaricato della costruzione di un lucernaio, e la sua condanna alla restituzione di quanto gli aveva già pagato, sostenendo che l’opera realizzata era difettosa, e priva delle qualità promesse; in via subordinata chiese la riduzione del prezzo; ed in ogni caso il risarcimento dei danni subiti.

Il convenuto si costituì ed eccepì preliminarmente la prescrizione biennale di cui all’art. 1667 comma 3 cod. proc. civ.; sostenne poi che i vizi del manufatto erano conseguenza degli errori di altri, che, fuori del suo controllo, avevano contribuito alla sua realizzazione; e chiese quindi il rigetto della domanda.

Il Pretore, istruita la causa, ed acquisita una consulenza tecnica, con sentenza del 23 dicembre 1997 accolse la domanda, provvedendo di conseguenza.

Il soccombente propose appello; con il quale eccepì nuovamente la prescrizione, ma questa volta quella annuale, di cui all’art. 2226 cod. civ., e ribadì di non aver dato causa ai vizi dell’opera.

Con la sentenza indicata in epigrafe il Tribunale di Fermo ha rigettato il gravame.

Ha in particolare dichiarato inammissibile, perché “nuova”, l’eccezione di prescrizione proposta in appello da (omissis), evidenziandone la diversità rispetto a quella proposta in primo grado, e rilevando che si contravviene al “divieto di proporre in appello nuove domande e nuove eccezioni non soltanto ogni qual volta si amplia il petitum, ma anche quando si introduce nel giudizio una domanda avente presupposti distinti da quelli di fatto della domanda originaria”.

Il Tribunale ha poi ribadito, sulla scorta di quanto riferito dal consulente tecnico di ufficio, che l’opera commissionata non era stata realizzata a regola d’arte, ed in conformità di quanto convenuto tra le parti.

(omissis) ha chiesto la cassazione di tale sentenza per due motivi.

(omissis) ha resistito con controricorso.

 

Motivi della decisione

Con il primo motivo del suo ricorso (omissis) sostiene che l’eccezione di prescrizione da lui proposta in appello non è nuova, rispetto a quella proposta in primo grado, perché pur sempre di prescrizione si tratta, e perché essa non “introduce una ragione di indagine diversa”, dal momento che suppone solo una diversa qualificazione giuridica del rapporto, che il giudice può anche effettuare di ufficio, prescindendo dalle indicazioni delle parti.

Denunzia pertanto violazione dell’art. 345 cod. proc. civ. (novellato), e dell’art. 2226 cod. civ..

La censura è infondata.

Il contratto d’appalto e il contratto d’opera si differenziano per il fatto che nel primo l’esecuzione dell’opera commissionata avviene mediante un’organizzazione di media o grande impresa cui l’obbligato è preposto, e nel secondo con il prevalente lavoro di quest’ultimo, pur se adiuvato da componenti della sua famiglia o da qualche collaboratore, secondo il modulo organizzativo della piccola impresa, desumibile dall’art. 2083 cod. civ. (vedi le sentenze di questa Corte e di questa sezione, 17 settembre 1997 n. 9237, 4 giugno 1999 n. 5451, 17 luglio 1999 n. 7606).

Ne deriva che, non essendo stata ragione di contesa tra parti in primo grado la qualificazione giuridica del contratto che avevano stipulato, il giudice d’appello, per poterlo qualificare diversamente, avrebbe dovuto affrontare e risolvere questioni non solo di diritto, ma anche di fatto del tutto nuove, con conseguente ampliamento della materia del contendere, che l’art. 345 cod. proc. civ. non consente.

Con il secondo motivo del suo ricorso (omissis) allega l’inadeguatezza della motivazione della sentenza impugnata, laddove ha affermato che il lucernaio da lui realizzato ha caratteristiche diverse da quelle specificate nel contratto, e presenta vizi, per l’inidoneità dei materiali impiegati e per la inadeguatezza della tecnica costruttiva impiegata. Il ricorrente lamenta in particolare che il giudice d’appello non ha preso in considerazione le sue argomentazioni con le quali aveva sostenuto che gli inconvenienti lamentati dal committente non erano a lui imputabili, e le sue richiesta di rinnovazione della consulenza tecnica espletata.

La censura è inammissibile.

Quel che viene censurato è l’accertamento di un fatto, che il giudice del merito ha effettuato dandone conto con motivazione adeguata (giusta quanto risulta da quel che si è riferito in narrativa) e priva di errori logici o giuridici, peraltro neppure specificamente denunziati.

Le spese seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, e condanna (omissis) a rifondere a (omissis) le spese del giudizio di legittimità, che liquida in lire 267.400, oltre lire 2.000.000 per onorari.

Roma, 6 aprile 2001

Allegati

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