…omissis…
Fatti di causa
1. La società AA Spa ricorre, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 3079/21, del 26 ottobre 2021, della Corte d’appello di Milano, che – in accoglimento del gravame esperito da ZZ (d’ora in poi, “ZZ”) avverso la sentenza n. 1773/20, del 25 febbraio 2020, del Tribunale di Milano – ha così provveduto.
Essa ha accolto l’azione di rivalsa esercitata da ZZ nei confronti di XX1 e di Paolo e XX2, per il rimborso di quanto dalla prima corrisposto agli eredi di YY, in ragione dell’avvenuto decesso dello stesso a seguito di sinistro stradale cagionato il 28 febbraio 2015, in Lecco, da XX2, su veicolo di proprietà di XX1, assicurato per la “RCA” con AA.
2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierna ricorrente che la società ZZ radicava un giudizio nei confronti dei XX e di essa AA, per ottenere, in via di rivalsa, il rimborso della somma di 1.445.769,00 di franchi svizzeri erogati a omissis, quali eredi di YY, deceduto nell’incidente verificatosi nelle circostanze di tempo e di luogo sopra meglio descritte.
In particolare, l’allora attrice esponeva come il YY beneficiasse di tre polizze assicurative, stipulate dal suo datore di lavoro in base alla legge federale elvetica contro gli infortuni e le malattie dei dipendenti.
Nella contumacia dei XX, l’adito Tribunale respingeva la domanda, in particolare ravvisando – dopo aver, peraltro, ritenuto una concorrente responsabilità della vittima nella causazione del sinistro in cui il medesimo perse la vita – la carenza di prova, da parte di ZZ, di aver eseguito i pagamenti per i quali agiva in rivalsa, in particolare ritenendo inammissibile, giacché tardiva, la produzione di una comunicazione del 30 novembre 2018 dell’istituto di credito UBS, attestante, invece, la loro effettuazione.
Esperito gravame da ZZ, il giudice di appello – sempre nella contumacia dei XX – lo accoglieva, condannando in solido i già convenuti al pagamento, in favore dell’appellante, di 1.445.769,00 di franchi svizzeri “al cambio in Euro corrente al momento dell’effettivo pagamento, oltre interessi”.
A tale esito il giudice di seconde cure perveniva sul rilievo che la produzione documentale attestante l’avvenuto pagamento degli indennizzi non potesse ritenersi tardiva (trattandosi di documento formato dopo il maturare delle preclusioni istruttorie), nonché ritenendo che la surrogazione di ZZ, nei diritti spettanti agli aventi causa dalla vittima del sinistro, dovesse essere disciplinata dalla legislazione elvetica, in virtù degli accordi raggiunti tra l’Unione europea e la Svizzera in data 21 giugno 1999. Essi, infatti, hanno reso applicabili a quest’ultima, in materia di assicurazione sociale, il regolamento CEE n. 1408/1971, poi sostituito dal regolamento CEE n. 883/2004. Invero, in base all’art. 93 del regolamento “de quo”, nell’interpretazione datane dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea (nella sentenza 21 settembre 1999, in C-397/1996), la surrogazione di un ente di previdenza sociale, appartenente ad uno Stato membro dell’Unione, nei diritti spettanti alla vittima dell’illecito – o ai suoi aventi diritto – nei confronti dell’autore del danno verificatosi nel territorio di altro Stato membro, risulta disciplinata “conformemente al diritto dello Stato membro cui appartiene detto ente”. La surrogazione è, tuttavia, subordinata alla condizione che il suo esercizio non ecceda i diritti che la vittima, o i suoi aventi diritto, hanno nei confronti dell’autore del danno “in forza del diritto dello Stato membro sul cui territorio il danno si è verificato”. Nella specie, ha concluso sul punto il giudice di appello, non risulta che AA abbia dedotto “in modo sufficientemente specifico, che l’indennizzo erogato eccederebbe i diritti risarcitori spettanti alle vittime” (ovvero, le eredi del YY), “secondo la nostra normativa nazionale”.
Infine, la pronuncia oggi impugnata – riformando anche sul punto la precedente decisione – ravvisava in capo a XX2 l’esclusiva responsabilità nella causazione del sinistro.
3. Avverso la sentenza della Corte ambrosiana ha proposto ricorso per cassazione AA, sulla base – come detto – di tre motivi.
3.1. Il primo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2909 cod. civ. e degli artt. 153,183 e 345 cod. proc. civ..
Si censura la sentenza impugnata là dove ha ritenuto errata la decisione del primo giudice in ordine alla tardività della produzione documentale avente oggetto la comunicazione di UBS del 30 novembre 2018, giacché, secondo la Corte territoriale, “il documento si era formato successivamente alla scadenza dei termini istruttori e quindi la richiesta di rimessione in termini, implicita nell’istanza di ZZ di ammettere la produzione in quanto successiva al maturare delle preclusioni istruttorie”, non poteva che “trovare accoglimento”.
Tale statuizione, secondo la ricorrente, “viola innanzitutto l’art. 2909 cod. cv.”, e ciò perché la ZZ, al fine di dimostrare l’effettuazione dei pagamenti in favore degli eredi YY, si sarebbe limitata a riproporre, in appello, la richiesta di assunzione della prova testimoniale non ammessa in primo grado, senza invece contestare “al giudice di prime cure di aver errato nel rigettare la richiesta di produzione documentale”.
In secondo luogo, la ricorrente censura la sentenza impugnata, in quanto “la motivazione a fondamento della tardiva produzione si basa solo sulla sopravvenienza del documento” rispetto alle preclusioni istruttorie, senza considerare “che “il fatto oggetto del documento” sopravvenuto non lo era affatto”. Invero, la comunicazione in questione costituiva – come pure evidenziato dal “tenore letterale dell’incipit” (e cioè, “Dear Sirs, We hereby confirm that …”, vale a dire “Egregi Signori, con la presente confermiamo che …”) – “un mero documento ricognitivo/confermativo di pagamenti che, stando al tenore dello stesso, avevano avuto luogo già a partire dal 2016 e annotati fino al 1 ottobre 2018, laddove il termine per il deposito della seconda memoria ex art. 183, comma 6, cod. proc. civ., scadeva il 3 ottobre 2018”.
Infine, non rileverebbe il principio – valorizzato, invece, dalla Corte territoriale – secondo cui “il solo fatto di allegare il documento costituisce di per sé implicita richiesta di rimessione in termini”, giacché esso opera alla sola condizione che l’intervenuta decadenza non sia imputabile alla parte che sia incorsa in essa. Tale, però, non sarebbe il caso di specie, visto che ZZ avrebbe potuto dimostrare, se non i pagamenti di ottobre 2018 (effettuati solo due giorni prima dello spirare del termine istruttorio del 3 ottobre 2018), tutti gli altri effettuati anteriormente, e ciò depositando “la copia dei bonifici in precedenza eseguiti”.
3.2. Il secondo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 4), cod. proc. civ. – violazione e/o falsa applicazione dell’art. 132, comma 2, n. 4) cod. proc. civ., nonché degli artt. 2697 e 1916 cod. civ. e dell’art. 142 cod. assicurazioni, oltre che dell’art. 115 cod. proc. civ. e, infine, omesso esame di un fatto decisivo della controversia che è stato oggetto di discussione tra le parti.
Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui afferma che i conteggi effettuati da ZZ, applicando la legge elvetica, “non sono stati contestati in modo specifico e analitico dalla AA, come si ricava dalla comparsa di primo grado”, dal momento che la sua contestazione investiva solo l’applicabilità “della legislazione svizzera sui criteri di calcolo degli indennizzi”, non mettendo, invece, “in dubbio che questi criteri siano quelli applicati dalla ZZ”.
Assume, al riguardo, la ricorrente che la Corte territoriale avrebbe “erroneamente ritenuto” che, all’azione esplicitamente esperita dalla ZZ ex artt. 1916 cod. civ. e 142cod. ass., fosse “applicabile la legislazione elvetica per ciò che attiene alla portata dei diritti nei quali la ZZ si sarebbe surrogata a condizione che l’esercizio della surrogazione non ecceda i diritti che la vittima o i suoi aventi diritto hanno nei confronti dell’autore del danno in forza del diritto italiano”.
Sono, al riguardo, prospettate le seguenti censure.
In primo luogo, si assume che la statuizione della Corte milanese difetti “di motivazione in relazione alle ragioni che hanno indotto a ritenere che, in virtù della legge straniera applicabile alla surrogazione, sussistessero le condizioni di ammissibilità dell’azione proposta, attese anche le contestazioni formulate dalla AA sin dal primo grado di giudizio”. Essa, infatti, aveva dedotto il difetto dei “tre presupposti dell’azione esperita dalla ZZ e cioè: a) che la vittima del fatto illecito (cioè l’assicurato)
fosse titolare di un credito risarcitorio nei confronti del responsabile; b) che l’assicuratore avesse indennizzato il medesimo pregiudizio patito dalla vittima e non pregiudizi diversi; c) che l’assicuratore fosse subentrato nei diritti dell’assicurato nei confronti del responsabile”. Si evidenzia, altresì, come essa AA avesse pure eccepito che, “in ragione del principio della impossibilità di cumulare quanto ricevuto a titolo di indennizzo con quanto eventualmente dovuto a titolo di risarcimento, la stessa rischiava di essere dapprima condannata a “rimborsare” ZZ” e “contemporaneamente di subire l’azione ex art. 2054 cod. civ. da parte degli eredi del YY”. A tal riguardo, peraltro, AA rilevava di “aver già adempiuto ai propri obblighi risarcitori” nei confronti di costoro (oltre ad aver soddisfatto altra pretesa, sempre fatta valere in via di rivalsa, dalla Cassa di Compensazione Svizzera), assumendo, pertanto, che nella denegata ipotesi di accoglimento della domanda di ZZ, l’importo ad essa spettante si sarebbe dovuto determinare “in via differenziale”, ovvero al netto degli importi già liquidati, con l’ulteriore decurtazione derivante dall’applicazione dell’art. 1227 cod. civ., in virtù del riconoscimento della corresponsabilità del YY nella causazione del sinistro mortale di cui fu vittima.
In secondo luogo, AA assume di aver “specificamente contestato i conteggi effettuati dalla ZZ”, donde la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. da parte della Corte territoriale, avendo essa ritenuto, infondatamente, l’assenza di specifica contestazione. Riproduce, al riguardo, la ricorrente il contenuto della propria comparsa di costituzione e risposta in primo grado, dalla quale si evince, innanzitutto, che l’odierna ricorrente ebbe a sostenere non essere “affatto chiaro” il motivo per il quale la propria eventuale condanna a pagare avrebbe dovuto riguardare “somme calcolate utilizzando la (…) “tabella Stauffer/Sheatzle””, giacché, sebbene questo sia un “metodo di calcolazione riconosciuto in Svizzera”, si tratta, pur sempre, “di criterio di computo del tutto sconosciuto e dunque inapplicato ed inapplicabile in Italia”. Del pari, la riproduzione del contenuto del citato scritto defensionale attesterebbe come AA ebbe pure a contestare la circostanza che il riconoscimento dell’indennizzo, in favore degli eredi del YY, avvenne “sulla base di una “decisione” assunta dalla Cassa Svizzera di Compensazione”, la quale, se non opposta nel termine di trenta giorni dall’autore dell’illecito, assumerebbe “il valore di cosa giudicata”; al riguardo, infatti, l’odierna ricorrente deduce di aver contestato che siffatta “decisione” potesse esserle opposta. Inoltre, la ricorrente assume di aver contestato l’esistenza di prova documentale attestante l’avvenuta liquidazione, da parte di ZZ, delle spese funerarie sostenute dai congiunti del YY, sostenendo, altresì, come l’allora attrice neppure avesse individuato in base a quale clausola delle polizze assicurative fosse previsto il pagamento di tali spese. Infine, AA rammenta di aver sostenuto come ZZ si fosse limitata a indicare “in Euro 525.600,00 il capitale per invalidità, senza però specificare in alcun modo il percorso giuridico matematico osservato per addivenire al predetto risultato”.
In terzo luogo, viene dedotta la violazione dell’art. 2967 cod. civ., essendosi posto “in capo alla convenuta l’onere di dimostrare la congruità della pretesa attorea”, mentre spettava a ZZ “fornire la prova delle proprie pretese sia nell’an che nel quantum”.
3.3. Il terzo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, nn. 3) e 5), cod. proc. civ. – violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 cod. civ., nonché degli artt. 1227, comma 1, e 2054 cod. civ., oltre a omesso esame di un fatto decisivo della controversia che è stato oggetto di discussione tra le parti e, infine, a violazione degli artt. 141 e 142 cod. strada.
Si censura la sentenza impugnata per aver riconosciuto in capo a XX2 l’esclusiva responsabilità per il sinistro in cui perse la vita il YY, ribaltando la decisione del primo giudice che aveva ravvisato, invece, un concorso di colpa. Esito al quale esso era pervenuto sul rilievo che l’autovettura condotta dalla XX risultava essersi “immessa nel flusso della circolazione provenendo da un parcheggio” e “quindi senza concedere la dovuta precedenza al motociclista”, la cui velocità, però, “era di circa 65/70 Km orari” e, pertanto, “superiore al limite vigente (50 Km/h)”, oltre che “neppure consona allo stato dei luoghi”.
Si assume, in primo luogo, che la Corte ambrosiana, nel compiere il ragionamento presuntivo che l’ha condotta ad affermare l’esclusiva responsabilità della XX, non avrebbe “esplicitato il criterio logico posto alla base della selezione degli indizi”, né “le ragioni del suo convincimento”. Essa, infatti, “ha ritenuto di inferire dalla dichiarazione rilasciata dalla XX agli agenti di P.S.”, intervenuti sul luogo del sinistro (dichiarazione con cui ella riferiva di non essersi “resa conto del sopraggiungere della moto”), nonché “dall’assenza di tracce di frenata da parte del motociclo”, che l’eccessiva velocità di quest’ultimo non avesse “avuto alcuna incidenza nella causazione del sinistro”. Così argomentando, tuttavia, la sentenza impugnata avrebbe sussunto “erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione” (cioè, gravità, precisione e concordanza) “fatti concreti accertati che non sono invece rispondenti a quei caratteri”.
Invero, in relazione al carattere della “gravità”, la ricorrente osserva che dalla circostanza riferita dalla XX di non aver visto la moto “non è desumibile univocamente” che ella “fosse distratta, come sembrerebbe voler intendere la Corte distrettuale”, ma semmai che la moto non fosse stata avvistata per la sua velocità sostenuta. Del pari, l’assenza delle tracce di frenata da parte del motociclo “non è indice univoco” – secondo la ricorrente – “della repentinità della manovra di immissione della XX, quanto piuttosto della velocità eccessiva del centauro”. Del tutto “neutro”, poi, sarebbe il dato del brevissimo tempo intercorso tra la manovra dell’auto e l’arrivo del motociclista, che è peraltro, nuovamente, “compatibile con l’elevata velocità” del secondo.
Quanto, poi, ai requisiti della “precisione” e “concordanza”, si evidenzia come non sia dato minimamente comprendere, dalla sentenza impugnata, né come l’assenza di tracce di frenata del veicolo a due ruote e la repentinità dell’accaduto possano far presumere, indirizzando il ragionamento probabilistico solo verso tale esito, l’assenza di incidenza causale della velocità del motoveicolo, né quali siano stati “gli altri elementi probatori” di riscontro del ragionamento presuntivo.
In secondo luogo, si assume che la Corte territoriale sarebbe incorsa nell’omessa valutazione di una serie di fatti, che deponevano per l’eccesiva velocità del motociclo e dunque per l’efficienza causale della condotta del suo conducente, quali, in particolare:
– la totale distruzione della parte anteriore laterale della vettura;
– la rottura del mozzo anteriore sinistro sempre dell’autoveicolo;
– l’incapacità della XX di riferire da quale direzione provenisse il motociclo;
– la perdita del casco da parte del YY e il ritrovamento dello stesso a 26,20 metri dal suo corpo;
– la posizione di sostanziale fermo della vettura della XX al momento dell’impatto;
– l’ordine di grandezza minimo della velocità della moto, pari a 66 Kmh;
– l’essere il punto d’urto preceduto da un rettilineo di 250 metri, tale da consentire al motociclista di avvedersi della presenza dell’auto.
In terzo luogo, in base alle considerazioni che precedono risulterebbe pure evidente la violazione degli artt. 1227 e 2054 cod. civ., come interpretati da questa Corte, secondo cui “l’accertamento in concreto della responsabilità di uno dei due conducenti non comporta il superamento della presunzione di colpa concorrente sancito dall’art. 2054 cod. civ. essendo a tal fine necessario accertare in pari tempo che l’altro conducente si sia pienamente uniformato alle norme della circolazione e a quelle di comune prudenza ed abbia fatto tutto il possibile per evitare l’incidente”.
In quarto luogo, infine, la Corte milanese avrebbe pure violato gli artt. 141 e 142 cod. strada (sull’osservanza dei limiti di velocità), “omettendo di applicarli”, ciò che l’avrebbe portata a riconoscere il concorso di colpa del YY.
4. Ha resistito all’avversaria impugnazione, con controricorso, ZZ, chiedendo che la stessa sia dichiarata inammissibile o, comunque, rigettata.
5. Sono rimasti solo intimati XX.
6. La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.
7. Sia la ricorrente che la controricorrente hanno depositato memoria.
8. Non consta, invece, la presentazione di memoria scritta da parte del Procuratore Generale presso questa Corte.
Ragioni della decisione
9. Il ricorso – da ritenersi, nel suo complesso ammissibile recando censure sufficiente specifiche, diversamente da quanto eccepito, in via preliminare, dalla controricorrente – va rigettato.
9.1. Il primo motivo – che si articola in due censure, con le quali AA si duole, sotto due diversi angoli visuali, dell’avvenuta rimessione in termini di ZZ, quanto alla produzione della comunicazione bancaria attestante l’avvenuto pagamento in favore degli eredi del YY – non è fondato.
9.1.1. La prima censura – che prospetta la violazione di un supposto giudicato, perché l’allora appellante non avrebbe contestato la decisione del Tribunale di ritenere tardiva quella produzione documentale – risulta, “ictu oculi”, infondata.
Invero, ZZ, innanzi alla Corte milanese non si limitò a richiedere nuovamente l’escussione di alcuni testi per provare la circostanza dell’avvenuto pagamento degli indennizzi, ma censurò anche la statuizione con cui il primo giudice aveva ritenuto tardiva la produzione del documento, ciò che esclude, per definizione, che possa essersi formato un giudicato sul punto.
9.1.2. La seconda censura – con cui, invece, si contesta la sussistenza dei presupposti per la rimessione in termini, deducendo l’imputabilità a ZZ nella ritardata produzione del documento – è anch’essa non fondata.
Invero, come sottolineato da questa Corte anche nella sua massima sede nomofilattica, l’istituto della rimessione in termini ex art. 153, comma 2, cod. proc. civ., “richiede pur sempre che vi sia una causa non imputabile, riferibile ad un evento che presenti il carattere della assolutezza – e non già una impossibilità relativa, né tantomeno una mera difficoltà – e che sia in rapporto causale determinante con il verificarsi della decadenza in questione” (così, tra le altre, Cass. Sez. Un., sent. 4 dicembre 2020, n. 27773, Rv. 659663-02; che richiama Cass. Sez. 1, sent. 23 novembre 2018, n. 30512, Rv. 651875-01 e Cass. Sez. Lav., sent. 6 febbraio 2019, n. 3482, non massimata).
Deve, dunque, trattarsi di “un fatto ostativo che risulti oggettivamente estraneo alla volontà della parte (che l’applicazione della rimessione chiede) e che dalla stessa non risulti governabile, neppure con “difficoltà”” (cfr., da ultimo, Cass. Sez. 6-1, ord. 5 agosto 2021, n. 22342, Rv. 661991-01).
La non imputabilità della decadenza, allorché essa riguardi una prova documentale, tuttavia, va valutata – come anche osserva ZZ nel proprio controricorso – dando rilievo a circostanze che siano ostative alla produzione del documento, e non alla dimostrazione del fatto che attraverso di esso si intende provare, come, invece, assume la ricorrente, evidenziando che la prova dell’avvenuto pagamento degli indennizzi assicurativi si sarebbe potuta fornire “aliunde”. In altri termini, in caso di decadenza da richieste di prova, è con riferimento all’impossibilità di offrire il “mezzo” di prova, e non certo di attingere il “risulto” probatorio, che va valutata l’imputabilità, o meno, della decadenza.
Orbene, alla luce delle premesse di cui sopra, non può dubitarsi del fatto che, risultando la formazione del documento suddetto successiva alla scadenza dei termini istruttori, sia proprio la circostanza della sopravvenienza del documento – a prescindere dall’anteriorità del fatto da provare – a porsi “in rapporto causale determinante con il verificarsi della decadenza in questione”.
9.2. Il secondo motivo – che egualmente si articola in più censure – è in parte infondato e in parte inammissibile.
9.2.1. Logicamente pregiudiziale è la censura di violazione dell’art. 2697 cod. civ., dedotta sul presupposto spettava a ZZ “fornire la prova delle proprie pretese sia nell’an che nel quantum”.
Sul punto, corretta è la premessa assunta dalla ricorrente, secondo cui – come chiarito da tempo da questa Corte – “l’art 1916 cod. civ., che consente all’assicuratore che abbia pagato l’indennità di surrogarsi, fino alla concorrenza dell’ammontare di questa, nei diritti dell’assicurato verso i terzi responsabili del danno, attua una forma di successione a titolo particolare nel diritto dell’assicurato, nella cui identica posizione l’assicuratore -in conseguenza del pagamento dell’indennità – viene a subentrare, acquistando il diritto nel medesimo stato in cui esso si trova al momento della surrogazione, con lo stesso contenuto e gli stessi limiti, come se, cioè, ad agire, verso il terzo fosse lo stesso assicurato”; sicché “l’assicuratore che agisca contro il terzo a norma dell’art 1916 cod. civ. deve provare non solo il titolo della surrogazione, vale a dire il pagamento dell’indennità, ma anche i fatti costitutivi del diritto fatto valere in surrogazione, soggiacendo, quindi, allo stesso onere che avrebbe fatto carico all’originario titolare del diritto” (così Cass. Sez. 1, sent. 27 luglio 1981, n. 4834, Rv. 415540-01; in senso conforme Cass. Sez. 3, sent. 1° febbraio 1988, n. 909, Rv. 457282-01), dimostrando, dunque, “l’esistenza e l’entità del danno” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2022, n. 21218, Rv. 665210-01).
Tuttavia, le ragioni di censura proposte contro la sentenza impugnata – sostanziatesi nella denuncia sia di un difetto di motivazione sui presupposti della surroga, sia di una violazione dell’art. 115 cod. proc. civ., in relazione, in particolare, alla misura della stessa, giacché la ricorrente assume di aver contestato i conteggi effettuati da ZZ, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale – non trovano riscontro nella sentenza impugnata, stante l’insussistenza della violazione dei principi sopra richiamati e degli altri vizi di legittimità come testé prospettati.
Difatti, non sussiste né violazione dell’art. 2697 cod. civ., né difetto di motivazione, circa “i tre presupposti dell’azione esperita dalla ZZ”, donde l’infondatezza di tali censure. Invero, le circostanze, rispettivamente, che “la vittima del fatto illecito” fosse “titolare di un credito risarcitorio nei confronti del responsabile”, e che “l’assicuratore sia subentrato nei diritti dell’assicurato nei confronti del responsabile”, sono state ritenute provate, l’una, in base ad una ricostruzione della dinamica del sinistro che ha posto la responsabilità dello stesso interamente a carico della XX (tanto che l’odierna ricorrente si è fatta carico di censurare, con il terzo motivo della sua impugnazione, pure tale “ratio decidendi”), l’altra, invece, attraverso la documentazione – dalla cui produzione si è ritenuto che ZZ non fosse decaduta, stante l’operatività dell’art. 153, comma 3, cod. civ. – attestante l’avvenuto pagamento degli indennizzi. Quanto, infine, al (preteso) ulteriore presupposto della surroga, ovvero “che l’assicuratore abbia indennizzato il medesimo pregiudizio patito dalla vittima e non pregiudizi diversi”, deve rilevarsi che, in realtà, l’esistenza di una discrasia tra quanto percepito dagli “aventi diritto” dalla vittima del sinistro e quanto sarebbe ad essi spettato secondo la legislazione italiana, doveva costituire oggetto di prova da parte di AA, trattandosi di fatto (quantomeno) “modificativo” della pretesa azionata. Ciò che, a maggior ragione, deve dirsi quanto la censura con cui si addebita alla Corte territoriale di non aver determinato l’importo dovuto a ZZ “in via differenziale”, ovvero al netto delle somme già liquidati da AA alle eredi del YY, essendo onere dell’odierna ricorrente, nuovamente, provare tale circostanza.
In relazione, invece, alla censura con cui si contesta alla sentenza impugnata di non aver provveduto all’ulteriore decurtazione che sarebbe derivata dall’applicazione dell’art. 1227 cod. civ., in virtù del riconoscimento della corresponsabilità del YY nella causazione del sinistro mortale di cui fu vittima, essa risulta inammissibile, considerato che la Corte milanese ha attribuito alla XX – con valutazione esente da vizi, come si dirà nello scrutinare il terzo motivo di ricorso – la responsabilità esclusiva dell’evento dannoso.
9.2.2. Inammissibile è, invece, la censura di violazione dell’art. 115 cod. proc. civ., formulata dalla ricorrente sul presupposto di aver essa contestato – diversamente da quanto si afferma in sentenza – i conteggi effettuati da ZZ.
In disparte, infatti, il rilievo che alcune delle doglianze proposte – in particolare, quelle relative all’uso della “tabella Stauffer/Sheatzle” e al rilievo attribuito alla “decisione” assunta dalla Cassa Svizzera di Compensazione – si risolvono, a ben guardare, in una contestazione che investe non le modalità di conteggio, ma la stessa possibilità di determinare le condizioni della surroga – come invece è prescritto dall’art. 93 del regolamento CEE n. 1408/1971 – secondo la legge svizzera, l’inammissibilità della censura discende da quanto segue.
La Corte milanese, infatti, ha addebitato ad AA non un difetto di contestazione dei conteggi, bensì di non aver compiuto una contestazione “specifica” degli stessi. L’apprezzamento della specificità della contestazione – diversamente dall’assenza della stessa – è oggetto di una valutazione discrezionale non sindacabile in sede di legittimità, alla stregua del principio secondo cui costituisce “elemento valutativo riservato al giudice del merito” apprezzare, “nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte” (così Cass. Sez. 6-1, ord. 7 febbraio 2019, n. 3680, Rv. 653130-01), sicché tale “apprezzamento è censurabile in sede di legittimità esclusivamente per incongruenza o illogicità della motivazione, non spettando a questa Corte il potere di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni poste a fondamento della decisione” (Cass. Sez. 1, sent. 11 giugno 2014, n. 13217, Rv. 631806-01).
Ma di una censura di tal fatta non v’è traccia nel presente ricorso.
9.3. Il terzo motivo – che censura la sentenza impugnata per aver riconosciuto in capo a XX2 l’esclusiva responsabilità del sinistro in cui perse la vita il YY, escludendo l’esistenza di un concorso di colpa della vittima – è in parte non fondato e in parte inammissibile.
9.3.1. In linea generale, deve osservarsi che “in tema di sinistri derivanti dalla circolazione stradale, l’apprezzamento del giudice di merito relativo alla ricostruzione della dinamica dell’incidente, all’accertamento della condotta dei conducenti dei veicoli, alla sussistenza o meno della colpa dei soggetti coinvolti e alla loro eventuale graduazione, al pari dell’accertamento dell’esistenza o dell’esclusione del rapporto di causalità tra i comportamenti dei singoli soggetti e l’evento dannoso, si concreta in un giudizio di mero fatto, che resta sottratto al sindacato di legittimità, qualora il ragionamento posto a base delle conclusioni sia caratterizzato da completezza, correttezza e coerenza dal punto di vista logico-giuridico” (tra le altre, Cass. Sez. 6-3, ord. 5 giugno 2018, n. 14358, Rv. 649340-01, analogamente già Cass. Sez. 3, sent. 25 gennaio 2012, n. 1028, Rv. 621316-01).
La Corte milanese, vagliate le risultanze istruttorie, ha reso un giudizio che – nel negare rilievo causale alla velocità, pur non a norma, tenuta della stessa vittima del sinistro – non può ritenersi privo di correttezza e coerenza dal punto di vista logico-giuridico. Si consideri, infatti, che “la presunzione di colpa concorrente dettata dall’art. 2054, comma 2, cod. civ., opera pur sempre sul piano causale; la presunzione di colpa deve, cioè, pur sempre potersi collocare sul piano della relazione causale tra la violazione delle regole di condotta, specifiche o generiche (c.d. causalità della colpa), e l’evento di danno”, sicché, “ove risulti che quella violazione, pur sussistente o non escludibile, non abbia avuto incidenza causale” – accertamento, questo, che può compiersi anche indirettamente, come avvenuto nel caso di specie, e cioè tramite riscontro “del collegamento eziologico esclusivo o assorbente dell’evento dannoso col comportamento dell’altro conducente” (così, tra le molte, Cass. Sez. 3, ord. n11 marzo 2021, n. 6941, Rv. 660910-01, nonché, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 9 marzo 2020, n. 6655, Rv. 657166-01 ed anche Cass. Sez. 6-3, ord. 21 maggio 2019, n. 13672, Rv. 654218-01; Cass. Sez. 3, sent. 22 aprile 2009, n. 9550, Rv. 608197-01; Cass. Sez. 3, sent. 10 marzo 2006, n. 5226, Rv. 588251-01; Cass. Sez. 3, sent. 16 luglio 2003, n. 11143, Rv. 565147-01; Cass. Sez. 3, sent. 19 aprile 1996, n. 3723, Rv. 497161-01) – “non v’è ragione di ritenere non superata quella presunzione, una diversa interpretazione finendo con l’attribuire alla norma un significato e una valenza puramente sanzionatoria che non ha” (così Cass. Sez. 6-3, ord. 15 settembre 2020, n. 19115, non massimata; in senso conforme Cass. Sez. 3, ord. 23 marzo 2023, n. 8311, Rv. 667363-01).
9.3.2. Né, d’altra parte, il motivo può trovare accoglimento nella parte in cui prospetta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 cod. civ. e omessa valutazione di elementi decisivi.
9.3.2.1. Quanto alla prima di tali censure, essa appare inammissibile, giacché “la critica al ragionamento presuntivo svolto dal giudice di merito sfugge al concetto di falsa applicazione quando” – come nel caso di specie – “si concreta o in un’attività diretta ad evidenziare soltanto che le circostanze fattuali, in relazione alle quali il ragionamento presuntivo è stato enunciato dal giudice di merito, avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo (sicché il giudice di merito è partito in definitiva da un presupposto fattuale erroneo nell’applicare il ragionamento presuntivo)”(così, in motivazione, Cass. Sez. 2, ord. 21 marzo 2022, n. 9054, Rv. 664316-01).
In altri termini, l’inammissibilità della suddetta censura deriva dal fatto che la ricorrente – sebbene sotto l’apparenza di denunciare che il giudice di merito avrebbe dato rilievo a indizi privi dei caratteri della gravità, precisione e concordanza – si è limitata a contrapporre un diverso ragionamento inferenziale, rispetto a quello formulato dalla Corte ambrosiana sulla base degli elementi indiziari a sua disposizione.
Deve, pertanto, ribadirsi che la censura di violazione degli artt. 2727 e 2729 cod. civ. “non può invece svolgere argomentazioni dirette puramente e semplicemente a infirmare la plausibilità del ragionamento presuntivo condotto dal giudice di merito, criticando la ricostruzione del fatto che questi abbia operato ed evocando magari altri fatti che non risultino dalla motivazione, dal momento che ciò implicherebbe lo sconfinamento della censura dal paradigma della violazione dell’art. 2729 cod. civ. e il suo approdo in una dimensione che, se del caso, potrebbe piuttosto trovare legittimazione nel paradigma dell’art. 360, comma 1, n. 5) cod. proc. civ., s’intende nei limiti del controllo della motivazione sulla quaestio facti, siccome chiariti da Cass. Sez. Un., n. 8053 del 2014, e innumerevoli successive conformi” (così, in motivazione, Cass. Sez. Lav., sent. 30 giugno 2021, n. 18611, Rv. 661649-01).
9.3.2.2. Inammissibile è, tuttavia, pure la censura di omesso esame, giacché investe una pluralità di circostanze (o meglio, di risultanze istruttorie) che, nella loro ampiezza ed eterogeneità, non possono ricondursi alla nozione di “fatto” decisivo di cui sia stato omesso l’esame. Invero, come è già stato affermato, nitidamente, da questa Corte, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ. (come “novellato” dall’art. 54, comma 1, lett. b, del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134) “è evidente l’inammissibilità di censure, come quelle attualmente prospettate dal ricorrente, che evochino una moltitudine di fatti e circostanze lamentandone il mancato esame o valutazione da parte della Corte d’appello ma in realtà sollecitandone un esame o una valutazione nuova da parte della Corte di cassazione, così chiedendo un nuovo giudizio di merito, oppure chiamando “fatto decisivo”, indebitamente trascurato dalla Corte d’appello, il vario insieme dei materiali di causa” (così, in motivazione, Cass. Sez. Lav., sent. 21 ottobre 2015, n. 21439, Rv. 637497-01).
Analogamente, del resto, anche le Sezioni Unite hanno di recente ribadito l’inammissibilità di quel tipo di censura “che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio” – tale ultima essendo l’ipotesi rilevante nel caso che occupa – “miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito” (da ultimo, Cass. Sez. Un., sent. 27 dicembre 2019, n. 34476, Rv. 656492-03).
10. In conclusione, il ricorso va rigettato.
11. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza, essendo pertanto poste a carico della ricorrente e liquidate come da dispositivo.
12. A carico della ricorrente, stante il rigetto del ricorso, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto secondo un accertamento spettante all’amministrazione giudiziaria (Cass. Sez. Un., sent. 20 febbraio 2020, n. 4315, Rv. 657198-01), ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, condannando la società AA Spa a rifondere, a ZZ, le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 16.000,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
