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Cassazione civile sez. II, 24/04/2019, n. 11225

Massima

In materia di ricusazione del giudice, la sola proposizione dell’istanza non determina automaticamente (“ipso iure”) la sospensione del procedimento. Il giudice “a quo” è tenuto a effettuare una sommaria delibazione dei requisiti formali di ammissibilità dell’istanza, e se questi risultano carenti, il processo può continuare.

Supporto alla lettura

RICUSAZIONE

La ricusazione è un meccanismo attraverso il quale una delle parti coinvolte in un processo può chiedere che il giudice al quale è affidato il processo venga sostituito da un altro giudice; può essere richiesta quando ci sia fondato motivo di dubitare dell’imparzialità del giudice. La legge stabilisce quali sono gli esatti motivi per cui si può chiedere la ricusazione nei processi penali, civili ed amministrativi, inoltre definisce anche le diverse modalità per richiedere la ricusazione del giudice.

La ricusazione può essere richiesta nelle ipotesi indicate dall’art. 51 c.p.c., ove il giudice avrebbe obbligo di astenersi e non vi provvede, ovvero:

  • se ha interesse nella causa o in altra vertente su identica questione di diritto;
  • se egli stesso o la moglie è parente fino al quarto grado o legato da vincoli di affiliazione, o è convivente o commensale abituale di una delle parti o di alcuno dei difensori;
  • se egli stesso o la moglie ha causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito con una delle parti o alcuno dei suoi difensori;
  • se ha dato consiglio o prestato patrocinio nella causa, o ha deposto in essa come testimone, oppure ne ha conosciuto come magistrato in altro grado del processo o come arbitro o vi ha prestato assistenza come consulente tecnico;
  • se è tutore, curatore, amministratore di sostegno, procuratore, agente o da- tore di lavoro di una delle parti; se, inoltre, è amministratore o gerente di un ente, di un’associazione anche non riconosciuta, di un comitato, di una società o stabilimento che ha interesse nella causa.

In ogni altro caso in cui esistono gravi ragioni di convenienza, il giudice può richiedere al capo dell’ufficio l’autorizzazione ad astenersi; quando l’astensione riguarda il capo dell’ufficio, l’autorizzazione è chiesta al capo dell’ufficio superiore.

La ricusazione del giudice si propone mediante ricorso, contenente i motivi specifici e i mezzi di prova. Il ricorso, sottoscritto dalla parte o dal difensore, deve essere depositato in cancelleria 2 giorni prima dell’udienza, se il ricusante conosce il nome dei giudici che sono chiamati a trattare o decidere la causa, e prima dell’inizio della trattazione o discussione della causa nel caso contrario.

Il provvedimento con cui il giudice decide sulla ricusazione assume la forma dell’ordinanza e, se l’accoglie, deve contenere l’indicazione nominale del giudice che sostituisce il ricusato. L’art. 54 c.p.c. impone alla cancelleria l’obbligo di dare notizia dell’ordinanza che decide sulla ricusazione al giudice ed alle parti, e ciò per porre queste ultime nella condizione di provvedere alla riassunzione della causa entro il termine di 6 mesi.

Come stabilito dall’art. 61, c. 2, c.p.c., il giudice può farsi assistere da un consulente tecnico d’ufficio (CTU) considerato ausiliario consulente del giudice, quando vengono formulate domande di natura tecnica. In tal caso il giudice è obbligato a nominare come CTU un professionista iscritto all’albo del tribunale. Se il CTU accetta l’incarico deve prestare giuramento in un’apposita udienza.

Ricevuta la nomina, il consulente può rifiutarsi o astenersi. Secondo quanto disposto dall’art. 89 disp. att. c.p.c., l’istanza di astensione va proposta con ricorso, e dunque in forma scritta; tuttavia, si ritiene anche consentita una sua proposizione in forma orale, potendo essere raccolta in un processo verbale redatto dal cancelliere del giudice competente.

Altro strumento per mezzo del quale si intende garantire l’imparzialità del CTU è la possibilità, riconosciuta a ciascuna delle parti, di sollevare istanza di ricusazione.

Per quanto concerne i possibili motivi di ricusazione, occorre richiamare la norma che disciplina i casi di astensione del giudice, ossia l’art. 51 del c.p.c..

L’istanza di ricusazione deve essere depositata presso la cancelleria del giudice che ha provveduto alla nomina, almeno tre giorni prima dell’udienza fissata per la comparizione del CTU. In caso di mancata proposizione dell’istanza di ricusazione del consulente tecnico d’ufficio entro il termine previsto dall’art. 192, deve intendersi preclusa definitivamente la possibilità di far valere in un momento successivo la situazione di incompatibilità, con la conseguenza che la consulenza rimarrà ritualmente acquisita agli atti del processo.

Ambito oggettivo di applicazione

FATTI DI CAUSA
(omissis) ha ottenuto ingiunzione di pagamento nei confronti di (omissis), a titolo di corrispettivo dei lavori edilizi realizzati in esecuzione del contratto di appalto stipulato in data l’8.12.1990, per l’importo di Lire 124.926.537, oltre accessori e spese legali.

L’ingiunta ha proposto opposizione, lamentando che l’appaltatore aveva sospeso immotivatamente i lavori, non aveva mai presentato gli stati di avanzamento lavori e aveva rifiutato la consegna delle opere, sostenendo, inoltre, che il solaio di uno dei box presentava un’altezza minore di quella progettata.

Ha eccepito di aver già versato in acconto Lire 150.000.000 e che il saldo era stato tempestivamente contestato, essendosi riservata di collaudare le opere e verificarne la conformità ai progetti.

(omissis) ha chiesto di confermare l’ingiunzione ed ha proposto riconvenzionale per il risarcimento del danno provocato dal ritardo nei pagamenti.

(omissis) ha successivamente proposto un autonomo giudizio per far accertare la legittimità del recesso esercitato a norma dell’art. 1671 c.c. e per ottenere la consegna dei cantieri ed il risarcimento dei danni per l’imperfetta esecuzione dell’appalto. Il convenuto, nel contestare la domanda, ha nuovamente chiesto in via riconvenzionale il pagamento del saldo dei lavori e il risarcimento del danno per i ritardi nei pagamenti.

Disposta la riunione delle cause, il Tribunale, preso atto della pronuncia n. 2588/2010 con cui la Corte d’appello di Napoli aveva dichiarato la risoluzione del contratto per inadempimento dell’appaltatore, ha revocato il decreto ingiuntivo ed ha condannato il (omissis) alla restituzione delle somme percepite in esecuzione del provvedimento monitorio e al risarcimento del danno, pari ad Euro 52.426,70 oltre accessori, per l’imperfetta esecuzione del solaio dei locali box.

Nelle more, la sentenza n. 2588/2010 è stata cassata da questa Corte con pronuncia n. 591/2005 e il giudice distrettuale, preso atto della pronuncia di legittimità, ha separato le cause riunite ed ha definito la lite vertente sulla convalida del sequestro giudiziario del cantiere, sulla risoluzione del contratto di appalto ed il risarcimento del danno, disponendo con ordinanza, la prosecuzione del processo di appello avente ad oggetto la pronuncia emessa dal Tribunale a definizione dell’opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dall’appaltatore.

All’esito, in parziale riforma della sentenza di primo grado, disposta la compensazione tra i rispettivi crediti, (omissis) è stato condannato al pagamento di 11.306,23, oltre alla rivalutazione e gli interessi, con compensazione parziale delle spese di lite.

La Corte distrettuale, dopo aver dato atto della presentazione di una prima richiesta di ricusazione del relatore e del Presidente del Collegio, respinta in data 30.1.2005, ha escluso che la successiva istanza, riguardante tutti i componenti del Collegio, fosse idonea a determinare l’automatica sospensione del processo, poichè con detta richiesta la (omissis) aveva riproposto le medesime doglianze poste a fondamento della prima ricusazione e sottoposto a critica il provvedimento di rigetto del ricorso, benchè quest’ultimo non fosse impugnabile.

Ha stabilito che, poichè la causa era stata riservata in decisione all’udienza del 106.2015, con trasmissione della richiesta di ricusazione al Presidente del tribunale per gli adempimenti di competenza, ed era stata rigettata anche la seconda ricusazione in data 17.7.2015, la (omissis) avrebbe dovuto svolgere le attività difensive nei termini perentori previsti dal codice di rito senza attendere alcuna comunicazione dell’esito del procedimento incidentale ex artt. 52 c.p.c. e ss. e senza necessità che il giudizio, che non era stato sospeso, fosse riattivato mediante la notifica di un atto di riassunzione.

Nel merito, preso atto della risoluzione giudiziale del contratto disposta con la sentenza n. 2588/2010, ha ritenuto che non fosse ammissibile statuire sulla legittimità del recesso della committente e sulle richieste di pagamento dell’indennizzo avanzate dal (omissis) a norma dell’art. 1671 c.c., posto che l’appalto era stato sciolto per l’inadempimento dell’appaltatore.

Ha respinto la richiesta di pagamento delle opere realizzate in esecuzione del contratto, ritenendo che il (omissis) avrebbe dovuto proporre sin dal primo grado una domanda di restituzione ex art. 1458 c.c., che non era stata introdotta nè nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, nè in quello vertente sulla convalida del sequestro, domanda che comunque non poteva esser formulata direttamente in secondo grado.

In ordine al motivo di appello con cui l’appaltatore aveva lamentato l’omessa pronuncia sulla richiesta di pagamento dell’indennizzo ex art. 2041 c.c., ha osservato che non erano stati depositati gli atti di primo grado e che la domanda risultava proposta irritualmente solo nelle conclusioni di primo grado, giudicando inammissibile la medesima richiesta introdotta in appello.

Ritenuta l’ammissibilità dell’eccezione di compensazione formulata in secondo grado, in quanto volta al mero rigetto della domanda, ha quantificato il credito del (omissis) in Euro 56.776,87, pari all’ingiustificato arricchimento conseguito dalla committente per effetto della parziale esecuzione delle opere, ed ha detratto tale importo dalle somme liquidate in favore della (omissis) a titolo di risarcimento del danno.

Per la cassazione di questa sentenza (omissis) ha proposto ricorso in 6 motivi, illustrati con memoria.

(omissis), nella qualità di erede di (omissis), ha depositato controricorso.

Gli altri intimati non hanno svolto attività difensive.

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Vanno respinte le censure di inammissibilità del ricorso.La riproduzione, nel corpo dell’atto, dei precedenti atti difensivi e dell’intera sentenza impugnata, non è di ostacolo per la comprensione del contenuto delle critiche mosse alla decisione e alla piena intelligibilità delle questioni dibattute.

I motivi risultano formulati in modo adeguatamente specifico e non sollevano esclusivamente questioni di diritto decise dal giudice di merito in conformità agli orientamenti di legittimità, essendo state sollevate censure (quali la violazione dell’art. 112 c.p.c.), sottratte all’ambito applicativo dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1.

2. Il presente procedimento, pur se vertente sul medesimo rapporto oggetto di quello n. 11698/2014, può essere definito separatamente, non occorrendo disporre la riunione delle due cause.

3. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 1243,2041,2909 c.c., art. 2946 c.c. e ss., artt. 101,324 e 345 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, lamentando che la sentenza, dopo aver correttamente giudicato tardiva la domanda di ingiustificato arricchimento proposta dall’appaltatore, abbia erroneamente ritenuto di riqualificarla ed esaminarla come eccezione di compensazione, benchè la deduzione fosse preclusa dal giudicato di rigetto della domanda di cui alla sentenza n. 3743/2008 e dalla decisione di legittimità n. 591/2005, e benchè la ricorrente avesse dichiarato di non accettare il contraddittorio e la questione fosse nuova, essendo, inoltre, il controcredito privo dei caratteri di certezza e liquidità prescritti dall’art. 1243 c.c..

Il motivo è infondato.

Il giudizio è stato introdotto con ricorso introdotto in data 4.9.1992 e pertanto la causa, come ha dato atto anche la sentenza impugnata, era sottoposta alla disciplina processuale anteriore alle modifiche introdotte dalla L. n. 353 del 1990, per cui, fermo il divieto di domande nuove, le parti potevano proporre nuove eccezioni, produrre nuovi documenti e chiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova (Cass. 120/2016; Cass. 20852/2014; Cass. 18488/2006).

Per giunta, il controcredito vantato dall’appaltatore scaturiva dalla parziale esecuzione dell’appalto e sostanziava il contenuto di un’eccezione di compensazione impropria, sottratta alle preclusioni processuali, dato che la valutazione delle reciproche pretese comportava il semplice accertamento contabile di dare ed avere, al quale il giudice poteva procedere anche in assenza di eccezione di parte o di una specifica domanda riconvenzionale (Cass. 10978/2018; Cass. 8971/2011; Cass. 21646/2016).

La circostanza che, per effetto della parziale esecuzione delle opere appaltate, la committente avesse conseguito un vantaggio indebito era, quindi, oggetto di una deduzione che poteva esser presa in esame per quantificare il controcredito vantato dall’appaltatore e che poteva esser dedotta ed esaminata in appello (Cass. 29114/2017; Cass. 11850/1993), essendo comunque volta a paralizzare in tutto o in parte la domanda risarcitoria spiegata dalla committente (Cass. 23341/2006).

Non era operante alcuna preclusione da giudicato interno, perchè la pronuncia di inammissibilità in rito dell’azione ex art. 2041 c.c. non impediva al giudice di tener conto delle ragioni difensive che ne costituivano il fondamento al solo fine del rigetto – o di un accoglimento solo parziale – delle richieste della committente (Cass. 21472/2016; Cass. 10206/2015; Cass. 11679/2014; Cass. 22552/2009).

3. Il secondo motivo censura la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per aver la sentenza operato la compensazione, accertando un controcredito di Lire 602.062,300, superiore a quello preteso dall’appaltatore (pari ad Euro 80.295,58), tenendo conto del valore dell’immobile desunto dalla successiva vendita del 16.11.1995, il cui prezzo, pari ad Lire 700.000,000, comprendeva anche il valore del suolo su cui insisteva la costruzione.

Il motivo è infondato.

La pronuncia ha quantificato il credito suscettibile di compensazione in base all’ammontare degli esborsi sostenuti per la realizzazione delle opere, con esclusione del mancato guadagno, e ne ha fissato l’ammontare in un importo (Euro 56.776,87), inferiore a quello preteso dal (omissis) (Euro 80.295,58).

Non sussiste quindi il lamentato vizio di ultra-petizione, dovendo inoltre rilevarsi che il valore complessivo dell’immobile ultimato, risultante dalla successiva vendita, è stato preso in esame al solo scopo di verificare che il controcredito non superasse i vantaggi conseguiti dalla committente.

4. Il terzo motivo denuncia la violazione degli artt. 2041,2042 e 2909 c.c., artt. 383 e 394 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, sostenendo che la dichiarazione di risoluzione giudiziale del contratto per inadempimento dell’appaltatore non consentiva di riconoscere alcun credito in favore del resistente, neppure a titolo di ingiustificato arricchimento, poichè l’azione ex art. 2041 c.c. ha carattere residuale e non poteva essere esperita per ridurre il credito risarcitorio derivante dall’inesatta esecuzione delle opere.

Il motivo, nei termini in cui è formulato, non può trovare accoglimento.

La risoluzione del contratto di appalto per colpa dell’appaltatore non osta a che questi, in detrazione alle ragioni di danno spettanti al committente, abbia diritto al riconoscimento di compenso per le opere già effettuate e delle quali, comunque, il committente si sia giovato (Cass. 6181/2011; Cass. 5444/1977).

L’accoglimento dell’eccezione di compensazione non si poneva quindi – in insanabile contrasto con il giudicato di risoluzione e poteva legittimamente condurre ad un’attenuazione degli effetti della pronuncia di risarcimento del danno, occorrendo regolare i reciproci rapporti di dare e avere, tenendo conto della parziale esecuzione dei lavori.

Non veniva in rilievo il carattere sussidiario dell’azione di arricchimento, poichè detta domanda è stata dichiarata inammissibile dalla Corte di appello, mentre nessuna questione ha proposto la ricorrente (neppure nel giudizio di merito) circa la possibilità di sollevare l’eccezione di compensazione (accolta dalla Corte distrettuale) solo in via residuale e sussidiaria.

5. Il quarto motivo censura la violazione degli artt. 1242,1245 e 2935 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver la sentenza riconosciuto la compensazione del controcredito vantato dall’appaltatore sebbene privo dei caratteri di certezza e liquidità, decurtandolo dal credito del committente a titolo risarcitorio, già accertato con precedenti pronunce passate in giudicato.

Il quinto motivo censura la violazione degli artt. 1242,1245, e 2935 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, lamentando che la compensazione, oltre che inammissibile, sia stata effettuata senza indicare il relativo titolo giustificativo (se costituito dalla sentenza n. 3743/2008 o dalla pronuncia di legittimità n. 591/2005), e senza individuare la misura e i parametri da cui era stato ricavato il saldo attivo di Euro 11.306,23, in assenza di un criterio di certezza ed esigibilità delle somme rivendicate dall’appaltatore.

I due motivi, che sono suscettibili di esame congiunto, sono infondati.

Il controcredito da ingiustificato arricchimento di Euro 56.776,87, (pari al cd. speso) è stato detratto dall’importo di Euro 68.083,10 dovuto alla committente per il danno derivante dalla minore altezza dei box (Euro 52.426,70), per lo svuotamento della cantina del materiale di risulta (Euro 12.622,21) e per l’invio dei materiali in discarica (Euro 3.034,19), per un saldo di Euro 11.306,23, e aveva titolo nel medesimo rapporto di appalto dedotto in giudizio, configurandosi, come detto, un’ipotesi di compensazione impropria (Cass. 5024/2009; Cass. 18498/2006). Tale operazione non richiedeva che il credito dell’appaltatore fosse fondato su un titolo giudiziale definitivo, potendo essere accertato dal giudice di merito al limitato scopo di definire le reciproche pretese.

Detto controcredito trovava fondamento giustificativo nell’accertata esecuzione parziale delle opere, essendo quindi richiesta la sola quantificazione giudiziale del loro valore, senza che dovessero ricorrere i requisiti di liquidità ed esigibilità del diritto, che sono richiesti solo in ipotesi di compensazione propria (Cass. 5024/2009; Cass. 3930/2001).

7. Il sesto motivo censura la violazione degli artt. 112 c.p.c., 1243, 1245 e 2935 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, lamentando che la sentenza abbia omesso di pronunciare sull’eccezione di prescrizione del diritto all’indennizzo per ingiustificato arricchimento, trascurando che la prescrizione decorreva non dal momento in cui era divenuta irrevocabile la pronuncia di risoluzione del contratto, ma da quando si erano verificati i relativi fatti costitutivi.

Il motivo è inammissibile poichè il ricorso non specifica in quale atto ed in quale fase del giudizio di merito sia stata sollevata l’eccezione di prescrizione e ciò preclude l’esame della doglianza, dovendo ribadirsi che, anche quando sia dedotta la commissione da parte del giudice di merito di un error in procedendo, riguardo al quale questa Corte è giudice del fatto processuale ed ha accesso agli atti del processo di merito, è comunque indispensabile che il motivo di ricorso sia sufficiente specifico, individuando il contenuto della questione ed il luogo in cui se ne rinviene la formulazione, non potendosi rimettere a questa Corte il compito di selezionare tra gli atti processuali quelli idonei a sostenere la censura (Cass. 22880/2017; Cass. 4388/2016; Cass. 9485/2014).

8. Con il settimo motivo si censura la violazione dell’art. 2909 c.c. e dei principi del giusto processo, del diritto al contraddittorio e alla difesa e dell’obbligo di imparzialità del giudice e di parità di trattamento, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per essersi la Corte distrettuale limitata a trasmettere l’istanza di ricusazione dell’intero collegio al Presidente della Corte d’appello, senza sospendere il giudizio, per aver dato atto che la richiesta era stata respinta in data 17.9.2015, senza però rilevare che la ricorrente aveva preso conoscenza di detta ordinanza solo con la sentenza impugnata, sebbene il relativo procedimento dovesse svolgersi nel contraddittorio delle parti e con la concessione di termini al ricorrente per esporre i motivi dell’istanza.

Si assume inoltre che la ricusazione doveva essere accolta alla luce del comportamento del Collegio, che aveva immotivatamente ed ingiustamente respinto le richieste della ricorrente di sottoporre al c.t.u. la sola quantificazione del risarcimento spettante alla ricorrente e non anche le richieste di determinare l’entità dei crediti vantati dall’appaltatore.

Palese era stata – a parere della (omissis) – la disparità di trattamento riservata alle parti, poichè mentre sull’eccezione di compensazione era stato consentito un supplemento istruttorio, alla ricorrente era stato precluso ogni accertamento in merito alla notevole entità del danno derivato dai vizi delle opere.

Il motivo è infondato sotto tutti i profili dedotti.

Come correttamente evidenziato dalla Corte distrettuale, la sola proposizione del ricorso per ricusazione non determina “ipso iure” la sospensione del procedimento, in quanto compete al giudice “a quo” una sommaria delibazione dell’istanza, all’esito della quale, ove risultino carenti i requisiti formali di ammissibilità, il procedimento può continuare, occorrendo contemperare le contrapposte esigenze, sottese all’istituto, di assicurare alle parti l’imparzialità del giudizio e di impedire, nel contempo, l’uso distorto dell’istituto (Cass. 2011/26267).

La trasmissione degli atti al Presidente della Corte per la decisione sulla istanza di ricusazione costituiva un atto dovuto, in quanto, ferma restando la discrezionalità in ordine alla determinazione dell’effetto sospensivo, era comunque obbligatoria l’attivazione del meccanismo processuale di cui agli artt. 52 c.p.c. e ss..

Non occorreva inoltre alcuna preventiva comunicazione del provvedimento di rigetto, poichè, una volta negata la sospensione del giudizio ed assegnato quest’ultimo in decisione, la ricorrente avrebbe dovuto proporre le proprie difese, sotto ogni profilo controverso, nel rispetto delle successive scansioni procedimentali fissate dall’art. 190 c.p.c., senza necessità di ulteriori adempimenti da parte dell’ufficio (Cass. 22917/2012; Cass. 26267/2011; Cass. 5236/2006).

Non solo invocabili eventuali violazioni connesse alla mancata concessione di termini a difesa, poichè, sebbene l’istanza di ricusazione deve esser trattata nel contraddittorio delle parti, la disciplina dettata dagli artt. 51 e 54 c.p.c. delinea un iter processuale essenziale, volto a decidere rapidamente l’istanza di ricusazione, in consonanza con la tendenziale non complessità in fatto delle questioni in discussione (individuabili sulla base dell’art. 51 c.p.c.), con la natura “incidentale” del procedimento e, soprattutto, col principio di ragionevole durata del processo.

La decisione deve – quindi – essere assunta in tempi brevi (o brevissimi), in ogni caso senza che sia configurabile un diritto a tempi e/o termini predeterminati, non previsti dalla disciplina vigente e non compatibili con le caratteristiche e la natura del procedimento (cfr., in motivazione, Cass. s.u., 16627/2014).

In ogni caso, l’ordinanza di rigetto dell’istanza di ricusazione non è impugnabile in cassazione perchè, pur avendo natura decisoria, manca del necessario carattere di definitività e non preclude il riesame nel corso del processo, attraverso il controllo sulla pronuncia resa dal (o con il concorso del) “iudex suspectus”, occorrendo però che le ragioni di ricusazione risultino fondate, poichè solo in tal caso l’eventuale vizio causato dalla incompatibilità del giudice si risolve in motivo di nullità dell’attività svolta e della sentenza (Cass. 2562/2016; Cass. 1932/2015; Cass. s.u. 17636/2003).

Per altro verso, quanto al merito delle doglianze relative alle condotte che, a parere del ricorrente, avrebbero giustificato la ricusazione, escluse le ipotesi di cui all’art. 51 c.p.c., nn. 1, 2, 4 e 5 la ricusazione non poteva discendere dalle scelte processuali adottate dal Collegio (art. 51 c.p.c., n. 3) se non in presenza di situazioni, eccezionali e patologiche, di violazione macroscopica di principi giuridici, indicativa di un esercizio della giurisdizione volto al perseguimento dello scopo di danneggiare la parte per ragioni di ostilità, riferibili a rapporti estranei al processo che la parte era tenuta a provare ed allegare (Cass. s.u. 12345/2001; Cass. 188976/2015; Cass. s.u. 16627/2014; Cass. 24934/2014). In mancanza di tali deduzioni, non esplicitate neppure in questa sede, la ricusazione non poteva essere accolta, essendo esclusa, anche per tali aspetti, la nullità della sentenza.

Il ricorso è quindi respinto con aggravio di spese secondo soccombenza e con liquidazione in dispositivo.

Sussistono le condizioni per dichiarare che la ricorrente è tenuta a versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1-quater al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13.

P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, pari ad Euro 200,00 per esborsi ed Euro 2500,00 per compenso, oltre ad iva, cnap e rimborso forfettario spese generali in misura del 15%.Si dà atto che la ricorrente è tenuta a versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi dellaL. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1-quater al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13.

Così deciso in Roma, il 24 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 24 aprile 2019

Allegati

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