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Cassazione civile sez. II, 22/07/2022, n. 22974

Massima

In tema di annullamento del testamento, l’incapacità naturale del testatore postula la esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del de cuius, bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti o della capacità di autodeterminarsi; peraltro, poiché lo stato di capacità costituisce la regola e quello di incapacità l’eccezione, spetta a chi impugni il testamento dimostrare la dedotta incapacità, salvo che il testatore non risulti affetto da incapacità totale e permanente, nel qual caso grava, invece, su chi voglia avvalersene provarne la corrispondente redazione in un momento di lucido intervallo.

Supporto alla lettura

TESTAMENTO

Il testamento è un atto revocabile con il quale qualsiasi persona, capace di intendere e volere, dispone delle proprie sostanze per il tempo il cui avrà cessato di vivere.

Nel nostro ordinamento giuridico, vi sono due forme ordinarie di testamento:

  • il testamento olografo;
  • il testamento per atto di notaio.

 

Il testamento olografo è una scrittura privata per la quale sono necessari alcuni requisiti formali:

  • l’autografia (non può essere scritto al computer, ma deve essere di proprio pugno);
  • la datazione;
  • la sottoscrizione.

 

Benché molto semplice e di comune utilizzo, questa forma testamentaria presenta alcuni svantaggi:

  • possibilità di distruzione ad opera di terzi;
  • possibilità di smarrimento;
  • possibilità di errori;
  • possibilità di falsificazioni;
  • possibilità di contestazioni circa l’autenticità del documento;
  • difficoltà di interpretazione in caso di disposizioni particolarmente complesse.

 

Al fine di evitare tali problematiche, è possibile fare ricorso al testamento per atto di notaio: cioè il testamento pubblico che viene ricevuto dal notaio in presenza di due testimoni e presenta notevoli vantaggi:

  • rigoroso accertamento della volontà del testatore;
  • nessuna possibilità di smarrimento o sottrazione;
  • forza probatoria tipica dell’atto pubblico;
  • garanzia di conformità all’ordinamento giuridico;
  • possibilità di utilizzo anche da parte di chi non potrebbe ricorrere al testamento olografo, quali ad esempio analfabeti, stranieri o impossibilitati a scrivere.

 

Oltre al testamento pubblico, esiste anche il testamento segreto (non diffuso nella prassi) che è il testamento scritto dal testatore o da un terzo e consegnato personalmente al notaio (che quindi non ne conosce il contenuto), il quale redige un semplice verbale di ricevimento.

La legge tutela alcune categorie di familiari (legittimari), riservando agli stessi una quota di eredità (legittima) anche contro un’eventuale volontà del defunto espressa per testamento. Questi soggetti sono i discendenti (figli e nipoti), gli ascendenti (genitori, nonni, e così via) e il coniuge.

A seconda della esistenza o meno di tali soggetti al momento del decesso, o di alcuni soltanto di essi, la legge prevede, con calcoli a volte molto complicati, quale sia la quota di eredità riservata a costoro, considerando anche i debiti del defunto ed eventuali donazioni da lui effettuate in vita, e quale sia, quindi, la quota di eredità (disponibile) di cui il testatore può disporre liberamente a favore di chi vuole.

C’è, quindi, un limite alla libertà di fare testamento: se il testamento lede i diritti di un legittimario, questo potrà agire in giudizio per renderle inefficaci.

Ambito oggettivo di applicazione

1.– B.L. e B.M.I. convenivano, davanti al Tribunale di Messina, Be.An. in S., P.G.R. e PR.An., chiedendo che, tenuto conto delle condizioni in cui versava il de cuius Be.Al., all’epoca della redazione dei testamenti olografi del 20 ottobre 2000 e del 1 luglio 2003, detti atti di ultima volontà fossero annullati e conseguentemente fosse dichiarata aperta la successione ab intestato, con ordine ai soggetti che si trovavano nel possesso dei beni di procedere alla reintegrazione completa di tutta la massa ereditaria nella sua consistenza patrimoniale mobiliare, immobiliare e reddituale, oltre alla restituzione dei frutti percepiti e percipiendi.

Indicavano, all’uopo, i beni costituenti l’asse ereditario del de cuius, i quali erano stati sottoposti a sequestro giudiziario, concesso, prima dell’instaurazione del giudizio, limitatamente al patrimonio mobiliare, e successivamente esteso, con provvedimento del 5 maggio 2009, in esito al reclamo proposto dagli attori, anche ai beni immobili.

Esponevano che in data (OMISSIS) era deceduto in (OMISSIS) Be.Al., nato il (OMISSIS), il quale, con testamento olografo datato 20 ottobre 2000, aveva nominato eredi del proprio ingente patrimonio gli attori, in quanto figli del premorto fratello O., B.M.G. e L., in quanto figli del premorto fratello N., P.G.R., in quanto figlio della premorta sorella A., nonché l’unica sorella vivente Be.An. in S. e PR.An., quest’ultimo quale suo amministratore e factotum.

Sostenevano poi che, con successivo testamento del 1 luglio 2003, il de cuius aveva revocato tutti i testamenti precedenti e quello del 20 ottobre 2000, avendo il testatore, in detta ultima scheda testamentaria, revocato le disposizioni in favore dei nipoti B.L. e M.I. (figli del premorto fratello O.) e dei nipoti B.L. e M.G. (figli del premorto fratello N.), con attribuzione degli immobili dapprima lasciati ai predetti nipoti alla sorella Be.An., alla quale venivano altresì lasciati gli altri beni immobili pretermessi nel primo testamento, con pubblicazione di entrambi i testamenti, su istanza di P.G.R., mediante verbale notarile del 20 ottobre 2008.

Deducevano che entrambi i testamenti dovevano ritenersi nulli, a causa dell’incapacità a testare del de cuius, il quale da oltre quarant’anni risultava essere affetto da grave patologia psichiatrica permanente, da sempre curata con farmaci, patologia che aveva determinato numerosi ricoveri e vari trattamenti sanitari obbligatori e che si era aggravata in seguito al suicidio del figlio, affetto da analoga patologia.

Evidenziavano che, proprio a causa delle sue condizioni, il testatore era gestito, tanto nella persona, quanto nel suo patrimonio, da PR.An., senza obbligo di rendiconto da parte di quest’ultimo.

Aggiungevano, quindi, che per tali circostanze, nel gennaio 2003, esso attore aveva proposto ricorso per interdizione, non solo al fine di garantire la gestione del patrimonio dello zio, ma anche per evitare che lo stesso potesse essere oggetto di circonvenzione di incapace, come già era avvenuto da parte di tale Ba.Ro., condannata nel 2001 proprio per tale reato, commesso ai danni del de cuius.

Affermavano, altresì, che nel corso del giudizio di interdizione si era proceduto all’esame di Be.Al., esame dal quale sarebbe emersa con chiarezza l’incapacità del Be., che non aveva nemmeno saputo indicare i beni costituenti il proprio patrimonio.

Precisavano che, in tale giudizio, era stata disposta consulenza tecnica d’ufficio psichiatrica, della quale era stato incaricato lo psichiatra dottor C.P., il quale avrebbe concluso per l’esistenza della patologia, che avrebbe impedito al Be. di prendersi cura dei propri interessi.

Rilevavano, infine, che detto giudizio, nel corso del quale era stato nominato l’attore quale tutore provvisorio, si era concluso con il rigetto dell’invocata pronuncia di interdizione e con l’applicazione della misura dell’amministrazione di sostegno, ritenuta più congrua rispetto all’esigenza di tutelare gli interessi del beneficiario, individuando l’amministratore di sostegno, dapprima, nell’attore B.L. e, successivamente, nell’avvocato L.R.M..

PR.An. si costituiva nel giudizio di merito e resisteva alla domanda, prospettando preliminarmente la propria estraneità al giudizio, poiché aveva donato, con atto del 16 marzo 2009, trascritto il 19 marzo 2009, ossia anteriormente alla notifica dell’atto di citazione, l’appartamento e i beni mobili ricevuti per testamento dal de cuius, in favore di Pr.Do. e Pr.Ma.Ga.. Concludeva, pertanto, per l’estromissione dal giudizio, atteso che gli attori, usando l’ordinaria diligenza, avrebbero potuto avere conoscenza dell’avvenuto trasferimento. Nel merito contestava il contenuto dell’atto di citazione, evidenziando che il de cuius – come sarebbe emerso anche dagli atti del giudizio di interdizione – doveva ritenersi capace di testare.

Si costituiva anche P.G.R., il quale si opponeva all’accoglimento della domanda, rilevando che negli atti del giudizio di interdizione e della procedura per amministrazione di sostegno il Be. aveva dimostrato, sino all’anno 2006, di essere capace di intendere e di volere, tanto che, neppure al momento della nomina dell’amministratore di sostegno, era stato imposto al de cuius il divieto di testare. Deduceva, inoltre, che l’utilizzazione, da parte del de cuius, dell’istitutio ex re certa dimostrava la capacità dello stesso, trovando la revoca – disposta nel secondo testamento – della designazione del nipote L. una giustificazione nel disappunto che il Be. aveva espresso rispetto all’iniziativa del nipote, volta all’instaurazione, ai suoi danni, del giudizio di interdizione.

Rimaneva contumace Be.An..

Intervenivano volontariamente in giudizio B.L. e B.M.G., i quali aderivano alle domande spiegate dagli attori.

Successivamente intervenivano in giudizio anche P.L.S. e P.M.A., eccependo che gli attori non avrebbero potuto far valere alcun diritto nei confronti di P.G.R., il quale aveva loro donato i beni ricevuti in testamento da Be.Al., con atto trascritto anteriormente alla notifica della citazione.

Intervenivano volontariamente altresì Pr.Do. e Pr.Ma.Ga., i quali esponevano di aver ricevuto per donazione i beni oggetto del testamento anteriormente alla notifica della citazione nei confronti del proprio donante e chiedevano, pertanto, il rigetto delle domande formulate dagli attori.

Infine, interveniva Be.An., la quale specificava che non era stata istituita erede dal de cuius ma solo legataria e puntualizzava, ancora, che anche la costituzione in giudizio non doveva essere intesa come accettazione di eredità. Chiedeva, per l’effetto, il rigetto delle domande di parte attrice, stante la mancanza di prove a sostegno delle deduzioni svolte.

Il Tribunale adito, con sentenza n. 2498/2017, depositata il 13 ottobre 2017, rigettava le domande avanzate dagli attori B.L. e B.M.I., figli del premorto fratello O., alle quali avevano aderito gli intervenienti B.L. e B.M.G., figli del premorto fratello N., volte a far dichiarare la “nullità” dei testamenti olografi redatti da Be.Al. in data 20 ottobre 2000 e in data 1 luglio 2003; dichiarava, quindi, l’inefficacia del sequestro giudiziario disposto con provvedimento del 30 gennaio 2009, modificato con provvedimento del 5 maggio 2009, ordinando al conservatore dei registri immobiliari territorialmente competente di procedere alla cancellazione della trascrizione; infine, condannava gli attori e i suddetti intervenienti, in solido, alla rifusione delle spese processuali, ivi comprese quelle della fase del sequestro ante causam.

2.- Avverso la sentenza di prime cure interponevano appello B.L. e B.M.G..

Resistevano P.L.S. e P.M.A. nonché S.P., nella qualità di erede di Be.An., e PR.An., tutti instando per il rigetto del gravame.

Si costituiva nel giudizio di impugnazione anche P.G.R., che proponeva appello incidentale sulle spese nonché appello incidentale condizionato all’accoglimento dell’appello principale.

Si costituivano, infine, B.L. e B.M.I., i quali, dopo aver evidenziato che avevano proposto separato appello avverso la medesima sentenza, preliminarmente chiedevano la riunione dei giudizi ed insistevano nell’accoglimento dell’impugnazione.

3.- All’esito della riunione, sui gravami interposti, la Corte d’appello di Messina, con la sentenza di cui in epigrafe, rigettava gli appelli principali e, in parziale accoglimento dell’appello incidentale proposto da P.G.R., condannava B.L. e B.M.I. nonché B.L. e B.M.G., in solido, al pagamento, in favore dell’appellante incidentale, delle spese del giudizio di prime cure, liquidate in Euro 11.000,00, oltre accessori.

A sostegno dell’adottata pronuncia la Corte territoriale rilevava: a) che, in base alle risultanze delle prove assunte nel giudizio di primo grado, doveva ritenersi incontestato, in punto di fatto, che Be.Al. fosse affetto da un disturbo bipolare di tipo 1, caratterizzato dall’alternarsi di fasi depressive e fasi di eccitamento, comunque di entità medio-lieve, a cui si aggiungevano episodi depressivi di maggiore gravità ed infine rarissimi episodi maniacali; b) che, come era stato accertato dal dottor C. quale consulente tecnico d’ufficio nel procedimento di interdizione, che aveva esaminato il Be. in epoca successiva alla redazione di entrambi i testamenti (ossia negli anni 2004 e 2005) – a tale disturbo si accompagnava un deterioramento mentale medio-lieve, di guisa che il predetto rimaneva quasi sempre, per la maggioranza dei casi, in una situazione patologica che faceva scemare la capacità giuridica, pur non potendosi escludere che in qualche giornata lo stesso fosse in condizioni di normonimia, caratterizzata dal recupero di tutte le sue facoltà; c) che, secondo la deposizione testimoniale resa dal dottor C. – per un verso – nell’anno 2004 il deterioramento era ancora lieve, essendo divenuto medio solo nell’anno 2005, e – per altro verso – nel procedimento di interdizione era stato verificato che al Be. residuava parte della capacità, tanto che veniva suggerita, quale soluzione percorribile, non già l’interdizione, quanto piuttosto l’inabilitazione; d) che, per l’effetto, la fase patologica in cui versava il Be. non equivaleva a totale incapacità, poiché altrimenti sarebbe stato illogico suggerire l’inabilitazione; e) che era significativo che il Tribunale, nell’anno 2005, ossia successivamente alla redazione di entrambi i testamenti, aveva optato per la nomina di un amministratore di sostegno, senza peraltro prevedere alcuna limitazione della capacità di testare, come invece avrebbe potuto fare, anche ex officio, sia con il provvedimento di nomina dell’amministratore, sia mediante successive modifiche; f) che tali conclusioni non erano contrastate dalla deposizione testimoniale resa dalla dottoressa Sc., la quale – pur avendo riferito dei numerosi ricoveri subiti dal testatore, anche a ridosso del periodo di redazione del primo testamento, e segnatamente negli anni 1999-2001, e della correlata prescrizione di psicofarmaci, anche nello stesso giorno di confezionamento dell’atto, e pur avendo affermato che il recupero che si verificava nelle fasi recessive della malattia non era mai completo, perché residuavano delle “difettualità” -, tuttavia, aveva altresì dichiarato di non poter riferire se il predetto, durante le fasi recessive, fosse in grado di ideare un pensiero compiuto e di trasferirlo per iscritto, così da non contraddire le conclusioni del dottor C. circa il recupero delle facoltà cognitive-intellettive nelle fasi di normonimia; g) che, sempre avuto riguardo alle dichiarazioni rese dal dottor C., gli episodi di tipo maniacale o le gravi depressioni, di entità tale da destrutturare completamente il funzionamento psichico dell’interdicendo, erano non frequenti e limitati nel tempo, con la precisazione che, nello spazio limitato di tempo in cui si verificavano, comportavano l’incapacità assoluta di provvedere ai propri interessi, con tutti i risvolti connessi, ivi compresa la possibilità di essere oggetto di circonvenzione; h) che l’amministratore di sostegno, avvocato L.R., aveva evidenziato la cura dell’aspetto estetico da parte del beneficiario, il suo interesse all’acquisto di capi firmati e la propensione a trascorrere le giornate in maniera intensa, consumando i pasti presso ristoranti della zona, e ciò a riprova della ricorrenza di una patologia che non era talmente invalidante da precludere al Be. permanentemente la possibilità di autodeterminarsi; i) che, sebbene nel corso dell’interrogatorio reso davanti al giudice tutelare il Be. non fosse stato in grado di riferire il valore dell’Euro, né di indicare i beni immobili di cui era proprietario, il suo esame aveva rivelato un soggetto capace di interloquire e di comprendere il senso delle domande poste e dell’oggetto del giudizio, benché incapace di fornire risposte specifiche sulla sua posizione economica e sostanzialmente disinteressato alle complesse attività di gestione del suo patrimonio; 1) che, quanto al fraintendimento della deposizione della teste R., secondo cui il marito non era assolutamente in grado di intendere e di volere, la doglianza non teneva conto del fatto che la medesima teste aveva confermato che il Be. alternava momenti in cui stava bene ed altri in cui stava male, così confermando la successione di fasi descritta dal dottor C.; m) che doveva essere condivisa l’affermazione del primo decidente, peraltro non specificamente contestata, in forza della quale lo stabile deficitario funzionamento psichico non determinava di per sé l’esclusione della capacità a testare, imponendo la legge il divieto di testare al solo interdetto, e non già all’inabilitato, quale può essere l’infermo di mente il cui stato non sia talmente grave da far luogo all’interdizione; n) che doveva parimenti condividersi la conclusione circa l’esclusione di un’infermità permanente ed abituale, non essendovi alcuna emergenza processuale atta ad avvalorare l’assunto degli appellanti, secondo cui l’incapacità del Be. avrebbe assunto simili connotazioni a partire dal 1996, epoca del suicidio del figlio; o) che la sentenza di condannai per il delitto di circonvenzione di incapace, commesso ai danni del Be., non assumeva valore dimostrativo della permanente incapacità del predetto, atteso che il giudice penale, sulla scorta delle conclusioni del perito e della deposizione dello psichiatra che aveva in cura il Be., aveva ritenuto che la condizione patologica di quest’ultimo, all’epoca di commissione del fatto, fosse proprio quella di eccitazione maniacale, a causa della quale egli non si era reso conto, in effetti, della realtà che lo circondava e dello stato in cui si trovava; p) che conseguentemente doveva essere confermata l’affermazione del primo Giudice, in base alla quale la certezza della totale esclusione della capacità riguardava esclusivamente i momenti estremi della patologia bipolare e non gli altri momenti, nei quali, pur permanendo uno stabile deficitario funzionamento psichico, non poteva nemmeno escludersi un totale recupero della capacità; q) che in tali condizioni sarebbe stato onere degli appellanti provare che i testamenti erano stati redatti in condizioni di incapacità, ossia in uno di quei momenti in cui il Be. versava nelle fasi acute della malattia; r) che, infatti, in caso di infermità permanente e abituale, l’incapacità si presumeva e la prova che il testamento fosse stato redatto in un momento di lucido intervallo spettava a chi affermava la validità del testamento, mentre nel caso di infermità intermittente o ricorrente, alternandosi periodi di capacità a periodi di incapacità, non sussisteva la presunzione di incapacità e la prova dell’incapacità doveva essere data da chi impugnava il testamento; s) che la sentenza di prime cure aveva dato ampiamente conto degli elementi in forza dei quali aveva ritenuto, in presenza di un’infermità intermittente, che gli attori e gli intervenienti non avessero assolto all’onere di fornire la prova rigorosa dell’incapacità di intendere e di volere del de cuius al momento della redazione delle schede testamentarie; t) che il decidente aveva tenuto conto, non solo del dato clinico – il quale costituiva uno degli elementi su cui il giudice doveva basare la propria decisione -, ma altresì del contenuto degli atti di ultima volontà, evidenziando, con riferimento all’atto del 2003, la coerenza delle relative disposizioni con i sentimenti e i fini che lo avevano ispirato; u) che l’esclusione dei nipoti Be. fu O. e fu N. costituiva, infatti, una reazione naturale e razionale, a fronte delle iniziative assunte dai congiunti del testatore, l’uno dei quali aveva promosso il giudizio di interdizione e l’altro aveva avuto “discussioni” per il pagamento del canone relativo all’immobile di (OMISSIS), dove il de cuius viveva, avendo minacciato di sfrattarlo, come era stato confermato dalla teste L.R.; v) che, dunque, le modifiche delle disposizioni testamentarie erano coerenti rispetto allo stato d’animo del Be.; w) che anche la fattura elevata delle schede testamentarie, definite dagli stessi appellanti complesse ed impegnative, costituiva ulteriore elemento contrastante con la prospettazione dell’incapacità al momento della redazione, in assenza di deduzioni circa eventuali interventi di altri soggetti che avessero inciso sulla volontà del de cuius al momento del confezionamento delle schede o sulle modalità di redazione; x) che il rigetto dell’istanza di espletamento di consulenze tecniche d’ufficio risultava del tutto giustificato dalla completezza delle emergenze istruttorie, tali da escludere la necessità di disporre le richieste indagini tecniche.

4.- Avverso la sentenza d’appello hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, B.M.G. e B.L.. Hanno resistito con controricorso gli intimati S.P., P.G.R., P.L.S. e P.M.A.. Sono rimasti intimati PR.An., Pr.Do., Pr.Ma.Ga., B.L. e B.M.I..

5.- Hanno presentato memoria i ricorrenti e i controricorrenti P.G.R. nonché P.L.S. e P.M.A..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Con il primo motivo i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 428 c.c., in relazione all’art. 2697 c.c., nonché la violazione dei principi fissati dalla giurisprudenza di legittimità in ordine alla ripartizione dell’onus probandi in fattispecie caratterizzate – come quella in esame – da comprovata sussistenza di incapacità, di carattere tendenzialmente permanente, o protraentesi per un rilevante periodo, nonché di accertata incapacità di un soggetto in due determinati periodi prossimi nel tempo, con riguardo al periodo intermedio.

Sul punto, si deduce che la Corte territoriale avrebbe erroneamente confermato la sentenza di primo grado, nella parte in cui aveva rigettato, ritenendola non provata da parte degli attori, la domanda di accertamento della “nullità” del testamento per incapacità naturale del testatore, valutando come certa la totale esclusione della capacità giuridica, in capo a quest’ultimo, nei soli momenti estremi della grave patologia psichiatrica, da cui era indubitabilmente affetto, e non invece negli altri momenti nei quali, pur permanendo uno stabile deficitario funzionamento psichico, non poteva nemmeno escludersi un totale recupero della capacità.

Sicché, soggiungono i ricorrenti, la Corte di merito avrebbe violato il principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui, qualora esista una malattia mentale di carattere permanente, è onere del soggetto che sostiene la validità dell’atto dar prova che esso fu posto in essere durante un lucido intervallo, tanto più che la malattia bipolare da cui era affetto il testatore presentava la caratteristica alternanza di fasi depressive e di fasi di eccitamento, nel quadro di un disturbo psico-affettivo, di talché avrebbe potuto non essere di per sé decisiva la circostanza che l’atto fosse stato posto in essere nell’una o nell’altra fase, considerato che in entrambi i casi poteva esistere incapacità di intendere oppure di volere, seppure non totale.

E inoltre, ad avviso degli istanti, anche per l’incapacità di intendere o di volere non totale potrebbe essere richiamato il principio secondo cui, accertata l’incapacità di un soggetto in due determinati periodi prossimi nel tempo, per il periodo intermedio la sussistenza dell’incapacità è assistita da presunzione iuris tantum, sicché, in concreto, si verifica l’inversione dell’onere della prova, nel senso che, in siffatte ipotesi, deve essere dimostrato, da chi vi abbia interesse, che il soggetto abbia agito in una fase di lucido intervallo.

Per converso, la Corte d’appello avrebbe ritenuto carente la prova dell’incapacità del de cuius al momento della redazione dei testamenti olografi, di cui è stato chiesto l’accertamento della “nullità”, addebitando il corrispondente onere agli attori, benché le peculiarità della fattispecie imponessero l’inversione dell’onere probatorio.

1.1.- Il motivo è infondato.

Ai sensi dell’art. 591 c.c., comma 2, sono incapaci di testare: 1) coloro che non hanno compiuto la maggiore età; 2) gli interdetti per infermità di mente; 3) quelli che, sebbene non interdetti, si provi essere stati, per qualsiasi causa, anche transitoria, incapaci di intendere o di volere nel momento in cui fecero testamento.

Sulla scorta di tale riferimento normativo, l’azione di accertamento della “nullità” dei testamenti olografi redatti da Be.Al. in data 20 ottobre 2000 e 1 luglio 2003 è stata promossa per la ritenuta incapacità naturale del testatore.

1.2.- Senonché va, in premessa, rilevato che, in tema di annullamento del testamento, l’incapacità naturale del testatore postula la esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del de cuius, bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti o della capacità di autodeterminarsi; peraltro, poiché lo stato di capacità costituisce la regola e quello di incapacità l’eccezione, spetta a chi impugni il testamento dimostrare la dedotta incapacità, salvo che il testatore non risulti affetto da incapacità totale e permanente, nel qual caso grava, invece, su chi voglia avvalersene provarne la corrispondente redazione in un momento di lucido intervallo (Cass. Sez. 6-2, Ordinanza n. 3934 del 19/02/2018; Sez. 2, Sentenza n. 27351 del 23/12/2014).

Sempre con riferimento all’annullamento del testamento per incapacità naturale, è stato precisato che, allorché l’infermità sia tipica, permanente ed abituale, l’incapacità del testatore si presume e l’onere della prova che il testamento sia stato redatto in un momento di lucido intervallo spetta a chi ne afferma la validità; qualora, invece, detta infermità sia intermittente o ricorrente, poiché si alternano periodi di capacità e di incapacità, non sussiste tale presunzione e, quindi, la prova dell’incapacità deve essere data da chi impugna il testamento (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1618 del 19/01/2022; Sez. 6-2, Ordinanza n. 505 del 14/01/2021; Sez. 2, Ordinanza n. 18042 del 28/08/2020; Sez. 2, Ordinanza n. 25053 del 10/10/2018; Sez. 2, Sentenza n. 2741 del 04/05/1982; Sez. 2, Sentenza n. 341 del 11/02/1967).

Complementare a questo principio è l’affermazione in forza della quale, in tema di incapacità naturale conseguente ad infermità psichica, una volta accertata la totale incapacità di un soggetto in due periodi prossimi nel tempo, la sussistenza di tale condizione è presunta, iuris tantum, anche nel periodo intermedio, sicché la parte che sostiene la validità dell’atto compiuto è tenuta a provare che il soggetto ha agito in una fase di lucido intervallo o di remissione della patologia (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4316 del 04/03/2016; Sez. 2, Sentenza n. 17130 del 09/08/2011; Sez. 2, Sentenza n. 4539 del 28/03/2002, che si sono tutte pronunciate su domande di annullamento di atti negoziali compiuti inter vivos).

In ultimo, è indirizzo consolidato quello in forza del quale, ai fini del giudizio in ordine alla sussistenza o meno della capacità di intendere e di volere del de cuius al momento della redazione del tesramento, il giudice del merito non può ignorare il contenuto dell’atto di ultima volontà e gli elementi di valutazione da esso desumibili, in relazione alla serietà, normalità e coerenza delle relative disposizioni, nonché ai sentimenti e ai fini che risultano averle ispirate. Nell’ambito di tale valutazione, il dato clinico, comunque necessario, costituisce uno degli elementi su cui il giudice deve basare la propria decisione, non potendosi mai prescindere dalla considerazione della specifica condotta dell’individuo e della logicità della motivazione dell’atto testamentario (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8690 del 28/03/2019; Sez. 2, Sentenza n. 230 del 05/01/2011).

1.3.- La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di tali principi, cui in questa sede si intende dare continuità.

Ed infatti, il mancato assolvimento dell’onere probatorio posto a carico degli attori-appellanti è stato basato sulla natura intermittente dell’infermità da cui era affetto Be.Al., sulla scorta delle risultanze probatorie acquisite e segnatamente della consulenza tecnica d’ufficio esperita nel procedimento di interdizione, intrapreso successivamente alla redazione dei testamenti e poi regredito nella nomina di un amministratore di sostegno.

Segnatamente, in tale giudizio si accertava, secondo quanto emerge dalla sentenza impugnata, che il testatore era affetto da un disturbo bipolare di tipo 1, caratterizzato dall’alternarsi di fasi depressive e di fasi di eccitamento, comunque di entità medio-lieve, a cui si aggiungevano episodi depressivi di maggiore gravità ed, infine, rarissimi episodi maniacali.

Ha aggiunto la Corte di merito che, in base a tali risultanze, la fase patologica in cui versava il Be. non equivaleva a totale incapacità, avendo il consulente d’ufficio, nominato nel richiamato procedimento, suggerito l’inabilitazione, piuttosto che l’interdizione.

Si ricava dalla lettura della sentenza, altresì, che – all’esito del procedimento di interdizione – non era stata dichiarata alcuna incapacità legale, né assoluta né relativa, ma era stato nominato un amministratore di sostegno, senza disporre, nei confronti del beneficiario, il divieto di testare.

Secondo il Giudice del gravame, tale stato era confermato anche dagli altri testimoni escussi.

Sicché la sentenza impugnata ha escluso, con motivazione congrua ed esente da vizi logici e giuridici, che l’infermità da cui era affetto il Be. fosse talmente invalidante da precludergli permanentemente e abitualmente la possibilità di autodeterminarsi.

Tanto perché l’alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del de cuius, a cagione dell’infermità permanente di grado medio-lieve da cui era affetto, non lo rendeva privo in modo assoluto della capacità di intendere e di volere, se non con riferimento ai rari episodi emarginati, di cui gli impugnanti avrebbero dovuto dimostrare la ricorrenza al momento della redazione degli atti di ultima volontà contestati, presupponendo l’incapacità a disporre per testamento, non già che la coscienza dei propri atti fosse ridotta, bensì totalmente esclusa.

E tale condizione intrinseca è stata supportat:a dal riferimento estrinseco al contenuto degli atti di ultima volontà, essendo stata evidenziata, a conferma della sentenza di prime cure, la coerenza delle disposizioni di cui al testamento redatto nel 2003 con i sentimenti e i fini che lo avevano ispirato (segnatamente l’esclusione dei nipoti Be. fu O. e fu N. avrebbe costituito una reazione naturale e razionale a fronte delle iniziative assunte dai congiunti del testatore, uno dei quali aveva promosso il giudizio di interdizione e l’altro aveva avuto discussioni per il pagamento del canone relativo all’immobile in cui lo zio abitava).

In ultimo, la sentenza della Corte di merito ha significativamente richiamato la fattura elevata delle schede testamentarie, definite dagli stessi appellanti complesse e impegnative, elemento, questo, addotto a ulteriore confutazione della prospettata totale incapacità del de cuius al momento della redazione dei testamenti.

Il combinato richiamo a tali aspetti della decisione impugnata, fondato sull’accertamento dei fatti che in questa sede non possono essere sindacati, esclude il vizio di legittimità lamentato, avendo la Corte territoriale fatto buon governo dei principi innanzi esposti.

E precisamente avendo ricavato dai plurimi dati individuati che l’incapacità in modo assoluto di Be.Al. era intermittente e non permanente, sicché avrebbero dovuto essere gli impugnanti a provare detta incapacità del testatore al momento della redazione delle schede testamentarie e non le parti interessate a far valere la validità dei testamenti a dimostrare la capacità del de cuius all’epoca di tale redazione.

2.- Con il secondo motivo, proposto in via subordinata, i ricorrenti si dolgono, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della violazione e falsa applicazione degli artt. 191 c.p.c. e ss. nonché dell’art. 115 c.p.c. e art. 97 disp. att. c.p.c.

Al riguardo, gli istanti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe stata comunque resa in spregio alle ordinarie regole che governano l’onere della prova, di quelle sulla disposizione della consulenza tecnica d’ufficio nonché di quelle sul divieto di scienza privata del giudice, per avere la Corte d’appello, da un lato, affermato l’assenza di prova dell’incapacità naturale del testatore al momento della redazione dei testamenti – prova che avrebbero dovuto dare gli appellanti – e, dall’altro, rigettato la richiesta di espletamento di apposite consulenze tecniche d’ufficio, richiesta rinnovata da B.L. e B.M.G. in grado di appello, proprio per l’ipotesi in cui la Corte d’appello non avesse ritenuto raggiunto l’onere della prova.

2.1.- Anche tale mezzo è infondato.

In ordine a siffatto aspetto, la Corte territoriale ha ritenuto che il rigetto delle istanze istruttorie, a cura del Giudice di prime cure, fosse del tutto giustificato dalla completezza delle emergenze istruttorie, tali da escludere la necessità di disporre le richieste consulenze tecniche d’ufficio. E tra le emergenze espressamente utilizzate risulta nella motivazione il copioso riferimento alla consulenza tecnica d’ufficio espletata nel giudizio di interdizione, oltre che le plurime deposizioni testimoniali dei medici che hanno avuto in cura il Be. o ne hanno esaminato il caso.

2.2.- Ne’, secondo la Corte di merito, nell’insistere nella loro ammissione in sede di gravame le parti hanno dedotto circostanze idonee a consentire l’apprezzamento della loro complessiva rilevanza.

Tanto più che le indagini peritali auspicate avrebbero dovuto essere eseguite “sulla carta”, ricostruendo l’ipotetico stato di capacità o incapacità del testatore all’epoca dei fatti rilevanti, quando invece i rilievi tecnici utilizzati per la decisione erano stati acquisiti quando ancora Be.Al. era in vita, prima della redazione dei testamenti, nel periodo di tale redazione e successivamente alla redazione medesima, e quindi tendenzialmente avrebbero avuto maggiore credibilità logica.

2.3.- Ne discende che il vizio dedotto non sussiste, poiché la decisione di ricorrere o meno ad una consulenza tecnica d’ufficio costituisce un potere discrezionale del giudice, che nella fattispecie è stato esercitato motivando adeguatamente il rigetto dell’istanza di ammissione.

Dal corpo della pronuncia si evince, infatti, che il fine a cui l’ammissione delle indagini tecniche invocate mirava è stato comunque raggiunto, sulla base di corretti criteri, che hanno consentito la soluzione dei problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione.

Ora, secondo il consolidato insegnamento della Corte, il giudizio sulla necessità ed utilità di far ricorso allo strumento della consulenza tecnica d’ufficio rientra nel potere discrezionale del giudice del merito, la cui decisione e’, di regola, incensurabile nel giudizio di legittimità; tuttavia, giusta la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è consentito denunciare in Cassazione, oltre all’anomalia motivazionale, solo il vizio specifico relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che sia stato oggetto di discussione tra le parti, ed abbia carattere decisivo. Ne consegue che il ricorrente non può limitarsi a denunciare l’omesso esame di elementi istruttori, ma deve indicare l’esistenza di uno o più fatti specifici, il cui esame è stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui essi risultino, il “come” ed il “quando” tali fatti siano stati oggetto di discussione processuale tra le parti e la loro decisività (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 7472 del 23/03/2017; Sez. 1, Sentenza n. 17399 del 01/09/2015).

Senonché, nella fattispecie, il vizio motivazionale, nei ristretti limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è stato dedotto, né poteva esserlo, ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c., u.c.

3.- Sulla scorta delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese e i compensi di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater -, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, alla refusione delle spese di lite, che liquida, in favore del controricorrente P.G.R., in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge, in favore dei controricorrenti P.L.S. e P.M.A., in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge, e in favore del controricorrente S.P., in complessivi Euro 4.100,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile, il 6 maggio 2022.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2022

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