Fatto
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza n. 801/2018 il Tribunale di Ragusa rigettava la domanda formulata da Sc.Gi. relativa all’accertamento della portata del titolo esecutivo avente ad oggetto, a dire dell’attrice, la condanna di La.Sa. a demolire non solo un manufatto abusivo, edificato anche in violazione delle distanze dal confine con la proprietà Sc.Gi. (3,60 mt. in luogo dei 7,50 mt previsti per la zona omogenea “E1”), adibito dal La.Sa. a locale tecnico, ma anche la cisterna interrata collocata al suo interno, nonché le diramazioni della rete di riscaldamento verso un immobile residenziale autorizzato con concessione edilizia.
La vicenda traeva origine dal processo penale in cui il La.Sa. era imputato, tra l’altro, per il reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b) D.P.R. n. 380/2001, in relazione previgenti artt. 7 e 20, lett. b), legge n. 47/85, per aver realizzato, in assenza del permesso di costruire, un manufatto con struttura portante in muratura e copertura con solaio, per una volumetria di mc 54,00.
Al termine di un articolato iter processuale, la Corte d’Appello di Catania – Sez. Prima Penale, con sentenza n. 338/2013, ordinava la demolizione del manufatto abusivo e la riduzione in pristino dello stato dei luoghi, a titolo di risarcimento del danno in forma specifica.
Nel procedimento ex art. 612 cpc, il Giudice dell’Esecuzione riteneva che la cisterna interrata non fosse oggetto del procedimento penale.
2. La Sc.Gi. proponeva, quindi, giudizio di merito dinanzi al Tribunale ordinario di Ragusa, che con la citata sentenza n. 801/2018 riteneva che la cisterna interrata fosse estranea al capo di imputazione, rimanendo al di fuori del thema decidendi del processo penale, e che quindi non potesse considerarsi parte del locale tecnico – ormai demolito – che semplicemente la ricopriva.
3. La pronuncia veniva impugnata dalla Sc.Gi. innanzi alla Corte d’Appello di Catania, che rigettava il gravame confermando le statuizioni del giudice di prime cure. Secondo la Corte territoriale, come ritenuto dal primo giudice, la condanna del La Torre riguardava solo il manufatto di cui al capo di imputazione e cioè il locale fuori terra; nulla era detto per la cisterna sotterranea a che, a differenza di quanto sostenuto dall’appellante, aveva una propria autonomia, sulla scorta delle risultanze della consulenza tecnica di ufficio espletata nel procedimento esecutivo.
4. Avverso questa pronuncia propone ricorso per cassazione la Sc.Gi., sulla base di due motivi e memoria. Resiste La.Sa. con controricorso.
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo si deduce omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, ex art. 360, comma 1, n. 5) cod. proc. civ. Lamenta la ricorrente che la Corte d’Appello avrebbe omesso di valutare che il manufatto abusivo oggetto dell’ordine di demolizione è un tutt’uno con la cisterna interrata e con le diramazioni di riscaldamento. Ciò si ricava dagli atti del complesso iter giudiziale e dalla documentazione fotografica: la cisterna interrata, così come è rimasta a séguito delle demolizioni del manufatto, non è affatto autonoma, come argomenta la Corte territoriale: essa non avrebbe altro senso di permanere se non per il conclamato asservimento alle diramazioni e agli impianti tecnologici riposizionati dal La.Sa. in prossimità della parete esterna dell’abitazione. L’illecito penalmente rilevante comprendeva, dunque, l’intero complesso di opere riguardanti il manufatto abusivo, posto che l’abusivismo edilizio consisteva nell’intero complesso di opere (costruzione muraria, cisterna interrata, pompe, tubazioni).
Il motivo è inammissibile: nell’ipotesi di “doppia conforme”, prevista dall’art. 348-ter, comma 5, cod. proc. civ. (vigente ratione temporis, applicabile, ai sensi dell’art. 54, comma 2, del D.L. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012, e quindi applicabile anche al giudizio in esame), il ricorrente per cassazione, al fine di evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, n. 5), cod. proc. civ. per difetto di specificità, deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (ex plurimis: Cass. Sez. 6-2, n. 8320 del 2022-Rv. 664432 – 01; Cass., Sez. 3, 14.07.2022, n. 22244; Cass., Sez. L, 20.07.2022, n. 22782; Cass., Sez. 6-2, 15.03.2022, n. 8320; Cass., Sez. L, 06.08.2019, n. 20994).
Nella specie, il ricorrente non ha indicato le ragioni di diversità fra le due pronunce: il motivo è, dunque, inammissibile per difetto di specificità.
2. Con il secondo motivo si deduce nullità della sentenza o del procedimento ex art. 360, comma 1, n. 4) cod. proc. civ. La sentenza viene censurata nella parte in cui ha ignorato la portata sostanziale del titolo esecutivo emesso dalla Corte d’Appello di Catania – Sez. Prima Penale, con sentenza n. 338 del 2013: nella parte dispositiva di detta sentenza, la cui portata precettiva va individuata tenendo conto anche della motivazione, si ordina la demolizione del manufatto abusivo e la riduzione in pristino dello stato dei luoghi, a titolo di risarcimento del danno in forma specifica. Sotto altro profilo, la ricorrente censura la pronuncia per avere omesso di decidere in merito al rispetto delle distanze, posto che il manufatto abusivo veniva realizzato in zona “E1” (area agricola) del PRG, senza il rispetto della distanza di metri 7,50 dal confine.
Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.
In tema di giudizio di opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi, l’interpretazione del titolo esecutivo giudiziale compete al giudice dell’esecuzione e, in caso di opposizione ex art. 615 c.p.c., al giudice dell’opposizione, che ne individua la portata precettiva sulla base del dispositivo e della motivazione. La sentenza che decide sull’appello in ordine a tale questione è, a sua volta, ricorribile per cassazione per motivi concernenti l’interpretazione fornita dal giudice del merito circa l’accertamento compiuto e l’ordine impartito dal giudice della cognizione nella sentenza della cui esecuzione si tratta, la cui disamina non attribuisce, tuttavia, a questa Corte il potere di valutarne direttamente il contenuto, bensì solamente quello di stabilire se l’interpretazione della sentenza è conforme ai principi che regolano tale giudizio, nonché funzionale alla concreta attuazione del comando in essa contenuto (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10806 del 05/06/2020, Rv. 658033 – 02; Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 32196 del 2018; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 3786 del 14/03/2003, Rv. 561151 – 01).
Nel caso di specie, la censura si limita ad un’interpretazione del titolo alternativa rispetto a quella – congruamente motivata – fornita dal giudice di merito. Di qui l’infondatezza.
Il tema della violazione delle distanze (introdotto a pag. 15 del ricorso) non è trattato nella sentenza impugnata e la ricorrente non fornisce elementi per verificare la sua rituale proposizione nel giudizio di gravame.
Trova pertanto applicazione il principio, costantemente ricorrente nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine
di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente vi abbia provveduto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa (tra le tante, Sez. 2 -, Ordinanza n. 2038 del 24/01/2019; Sez. 2, Ordinanza n. 29742 del 2024).
3. In definitiva, il ricorso va respinto.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Va dato dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1-bis, del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, in favore del controricorrente, che liquida in Euro. 3.000,00 per compensi, oltre ad Euro. 200,00 per esborsi e agli accessori di legge nella misura del 15%.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1-bis, del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
Così deciso in Roma, l’11 settembre 2024.
Depositato in cancelleria il 18 febbraio 2025.
