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Cassazione civile sez. II, 17/11/2022, n.33916

Massima

Il contratto preliminare e il contratto definitivo di compravendita si differenziano per il diverso contenuto della volontà dei contraenti, che è diretta, nel primo caso, a impegnare le parti a prestare, in un momento successivo, il loro consenso al trasferimento della proprietà e, nel secondo, ad attuare il trasferimento stesso, contestualmente o a decorrere da un momento successivo alla conclusione del contratto, senza necessità di ulteriori manifestazioni di volontà. La qualificazione del contratto come preliminare o definitivo costituisce, pertanto, un accertamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione adeguata e non inficiata da vizi logici o giuridici.

Supporto alla lettura

Contratto preliminare

Il contratto preliminare (anche detto compromesso) è un vero e proprio contratto che obbliga entrambe le parti alla stipula del contratto definitivo. Il preliminare deve indicare gli elementi principali della vendita quali il prezzo e la casa da acquistare, l’indirizzo e una precisa descrizione (piani, stanze etc.) con i dati aggiornati del Catasto e la data del contratto definitivo. È opportuno, inoltre, definire tutti gli obblighi reciproci da adempiere prima della consegna dell’immobile. In caso di vendita di immobili in corso di costruzione sono previste dalla legge regole particolari per la redazione del contratto preliminare. È obbligatorio che il contratto preliminare sia stipulato da un notaio nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata. Per garantire la massima tutela al futuro acquirente è molto opportuno che il contratto preliminare sia stipulato dal notaio, mediante scrittura privata autenticata o atto pubblico, in modo che venga trascritto nei Registri Immobiliari. Nelle altre ipotesi, l’opportunità della trascrizione può essere valutata con l’assistenza del notaio.

La trascrizione vale come una vera e propria prenotazione dell’acquisto dell’immobile. Non è più soltanto un accordo privato tra acquirente e venditore, viene reso legalmente valido verso chiunque (tecnicamente è “opponibile nei confronti dei terzi”) e il venditore, di conseguenza, non potrà vendere l’immobile a qualcun altro, né concedere un’ipoteca sull’immobile, né costituire una servitù passiva o qualsiasi altro diritto pregiudizievole. Gli eventuali creditori del venditore non potranno iscrivere un’ipoteca sull’immobile promesso in vendita, né pignorarlo. Dal momento della trascrizione del contratto preliminare, l’immobile è “riservato” al futuro acquirente, e qualsiasi trascrizione o iscrizione non avrebbe effetto nei suoi confronti.
Con la sentenza n. 4628 del 2015 la Corte di Cassazione a Sezioni unite ha riconosciuto validità al cosiddetto preliminare di preliminare. Si tratta di quell’accordo con cui le parti formalizzano il contenuto di una prima fase della trattativa contrattuale e con cui si obbligano a proseguire nella stessa. In questo modo danno spazio alla formazione progressiva del contratto e puntualizzano con un successivo accordo il contenuto giuridico dell’affare.

Ambito oggettivo di applicazione

FATTI DI CAUSA

1.- Con atto di citazione notificato il 7 febbraio 2009, A.L. conveniva, davanti il Tribunale di Bergamo, la Iniziativa Attività Immobiliari S.r.l., chiedendo: 1) che, previo accertamento della natura di contratto definitivo della compravendita stipulata con la convenuta in data 11 luglio 2006, avente ad oggetto due appartamenti e relativi accessori, ne fosse dichiarata la nullità per difetto della dichiarazione D.P.R. n. 380 del 2001, ex art. 46; 2) che, per l’effetto, la medesima società fosse condannata alla restituzione della caparra confirmatoria pari ad Euro 30.000,00, oltre agli interessi legali maturati e maturandi dalla data di sottoscrizione del contratto e fino all’effettiva restituzione.

Si costituiva in giudizio Iniziativa Attività Immobiliari S.r.l., la quale chiedeva che la domanda di controparte fosse respinta, atteso che il contratto in questione doveva essere qualificato come preliminare di compravendita e, quindi, non era assoggettabile alla disciplina richiamata. Inoltre, proponeva domanda riconvenzionale con cui chiedeva che fosse accertata la legittimità del recesso, esercitato a fronte dell’inadempimento della A., con la conseguente condanna della stessa alla perdita della caparra confirmatoria già versata nonché al pagamento delle spese sostenute per la realizzazione delle richieste modifiche al progetto originario, nella misura di Euro 3.264,00, oltre interessi.

Il Tribunale adito, con sentenza n. 1001/2012, depositata il 14 maggio 2012, in accoglimento della domanda spiegata da parte attrice, accertava la natura definitiva del contratto di compravendita in questione e ne dichiarava la nullità; per l’effetto, condannava Iniziativa Attività Immobiliari S.r.l. alla restituzione della somma già versata dall’attrice a titolo di caparra. In ultimo, dichiarava assorbita dalla declaratoria di nullità del contratto la spiegata domanda riconvenzionale.

2.- Con atto di citazione notificato il 17 dicembre 2012, Iniziativa Attività Immobiliari S.r.l. proponeva appello, censurando la sentenza di primo grado per i seguenti motivi: a) erronea trattazione di un punto decisivo della controversia, concernente l’erronea qualificazione del contratto preliminare in data 11 luglio 2006 come definitivo, con conseguente dichiarazione di nullità ex art. 46 T.U. Edilizia; b) inapplicabilità del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 46, al preliminare di vendita in data 11 luglio 2006; c) erronea trattazione di un punto decisivo della controversia, in ordine all’accertamento della nullità del contratto in data 11 luglio 2006, sul presupposto dell’erronea qualificazione del contratto preliminare come definitivo, con conseguente rigetto della domanda di ritenzione della caparra confirmatoria, all’esito dell’accertamento dell’inadempimento della A.; d) erronea trattazione di un punto decisivo della controversia, con riguardo all’accertamento della nullità del contratto di compravendita in data 11 luglio 2006, sul presupposto dell’erronea qualificazione del contratto preliminare come definitivo, con conseguente rigetto della domanda di pagamento della somma di Euro 3.264,00, a titolo di spese anticipate per conto della A..

Sul gravame interposto, al quale resisteva A.L., la Corte d’appello di Brescia, con la sentenza di cui in epigrafe, accoglieva parzialmente l’appello e, per l’effetto, in riforma della pronuncia impugnata, previo accertamento della natura di contratto preliminare dell’atto concluso tra le parti in data 11 luglio 2006, dichiarava la legittimità del recesso esercitato dalla promittente alienante e accertava il conseguente diritto alla ritenzione della caparra confirmatoria, rigettando ogni altra domanda; inoltre, compensava per un quarto le spese di lite e condannava l’appellata a rifondere, in favore dell’appellante, la residua quota parte di dette spese.

A sostegno dell’adottata pronuncia la Corte territoriale rilevava, per quanto interessa in questa sede: a) che, sebbene alcune clausole ed espressioni utilizzate dalle parti nel testo contrattuale fossero compatibili con la natura definitiva del contratto, doveva propendersi per la qualificazione quale contratto preliminare di vendita, in forza della contemplata tempistica degli effetti traslativi; b) che, ove si fosse trattato di contratto di vendita di cosa futura, la vicenda negoziale si sarebbe conchiusa ab initio, con la diretta attribuzione dello ius ad habendam rem nel momento in cui la cosa fosse venuta ad esistenza, giusta il disposto dell’art. 1472 c.c., posto che, in tal caso, non si sarebbe resa necessaria la stipula di un successivo atto per la produzione degli effetti traslativi del negozio; c) che, nel caso in esame, in base alla clausola n. 10 dell’atto, era espressamente previsto che la consegna delle chiavi delle porzioni immobiliari dovesse avvenire contestualmente alla stipula del rogito notarile e che, inoltre, eventuali anticipazioni da parte venditrice sulla consegna delle chiavi, “a parte promissaria acquirente”, prima dell’atto notarile, non avrebbero potuto essere intese come presa di possesso del bene, ad eccezione che in tal momento fosse stata saldata per intero ogni pendenza nei confronti di parte venditrice; d) che, pertanto, il tenore letterale della clausola citata era tale da escludere che la stipula del contratto producesse effetti traslativi e giustificava altresì la detenzione degli immobili da parte dell’appellata prima della stipula del contratto definitivo; e) che l’appellata si era resa inadempiente all’obbligo assunto con il contratto preliminare di compravendita, nella misura in cui si era sottratta alla stipula del rogito notarile, sebbene fosse stata accolta la richiesta di differimento della data di stipula; f) che, conseguentemente, doveva essere riconosciuto il diritto di ritenzione della caparra; g) che la domanda diretta ad ottenere il pagamento della somma di Euro 3.264,00, per gli importi sostenuti al fine della realizzazione delle varianti del progetto iniziale, aveva natura risarcitoria, sicché sussisteva, nel caso di specie, un’assoluta incompatibilità tra ritenzione della caparra e risarcimento del danno.

3.- Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, A.L.. Ha resistito con controricorso, proponendo, a sua volta, ricorso incidentale, articolato in un unico motivo, l’intimata Iniziativa Attività Immobiliari S.r.l..

4.- Le parti hanno presentato memorie illustrative.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1363,1367,1369 e 1371 c.c., per avere la Corte d’appello qualificato il contratto come preliminare di vendita, tralasciando ingiustificatamente di indagare la comune intenzione delle parti e valutando la mera incompatibilità astratta di un’unica clausola contrattuale con lo schema negoziale della compravendita di cosa futura.

Deduce, altresì, che la Corte di merito avrebbe ignorato la rilevanza ermeneutica preminente della coincidenza tra le espressioni contenute nell’intestazione del contratto (nomen iuris) e quelle usate nella parte dispositiva dell’atto stesso, non realizzando l’equo contemperamento degli interessi fra le parti, a fronte dell’esistenza di un dubbio interpretativo.

2.- Con il secondo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1470,1472 e 1476 c.c., per avere la Corte territoriale erroneamente posto a fondamento logico-giuridico del proprio ragionamento l’assunto circa l’identità/inscindibilità in un contratto di compravendita, anche se di cosa futura, tra effetto traslativo del diritto e trasferimento del possesso.

Obietta, sul punto, l’istante che, sulla base di siffatto non condivisibile presupposto di diritto, il Giudice del gravame avrebbe interpretato il significato della clausola contrattuale n. 10, desumendone l’incompatibilità con l’eventuale natura definitiva del contratto in esame e ignorando ogni altra risultanza, sia di cui alla lettera dell’accordo, sia di cui ai comportamenti delle parti.

3.- Le due doglianze – che possono essere affrontate congiuntamente, in quanto avvinte da evidenti ragioni di connessione logica – sono infondate.

Si premette che il contratto preliminare e il contratto definitivo di compravendita si differenziano per il diverso contenuto della volontà dei contraenti, che è diretta, nel primo caso, a impegnare le parti a prestare, in un momento successivo, il loro consenso al trasferimento della proprietà e, nel secondo, ad attuare il trasferimento stesso, contestualmente o a decorrere da un momento successivo alla conclusione del contratto, senza necessità di ulteriori manifestazioni di volontà. La qualificazione del contratto come preliminare o definitivo costituisce, pertanto, un accertamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione adeguata e non inficiata da vizi logici o giuridici (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 21650 del 23/08/2019; Sez. 2, Sentenza n. 24150 del 20/11/2007; Sez. 1, Sentenza n. 7429 del 21/05/2002; Sez. 1, Sentenza n. 564 del 17/01/2001; Sez. L, Sentenza n. 10961 del 02/11/1998).

Nella fattispecie, la lettura resa dalla sentenza di merito è conforme ai criteri ermeneutici che governano l’interpretazione del contratto. Segnatamente, la Corte distrettuale ha individuato i seguenti aspetti: a) l’evidente e reiterata contaminazione fra termini riferiti a un contratto definitivo e quelli riferibili ad un preliminare; b) l’assenza nel comportamento complessivo delle parti di elementi tali da rappresentare inequivocabilmente la volontà di concludere uno o l’altro atto; c) la valenza dirimente della tempistica della produzione degli effetti traslativi, ossia il riferimento alla detenzione degli immobili in favore della appellata prima della stipula del rogito notarile, essendo rimesso al perfezionamento di tale ultimo atto il passaggio del possesso, a nulla rilevando la circostanza che il condominio in cui essi sono ubicati considerasse la promissaria acquirente come proprietaria.

Nel giungere alla delineata conclusione, la Corte territoriale ha posto l’accento sulla circostanza che il trasferimento del possesso all’atto della stipula del rogito notarile fosse emblematico della volontà di trasferire la proprietà dei cespiti al momento del perfezionamento di tale atto pubblico, con valenza di contratto definitivo.

All’uopo, correttamente non è stato attribuito un peso decisivo al nomen iuris risultante dall’intestazione del contratto, in quanto non coincidente con le espressioni usate dai contraenti nella parte dispositiva, la quale esprime il nucleo essenziale della volontà negoziale (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17682 del 14/08/2007; Sez. 3, Sentenza n. 16342 del 20/11/2002; Sez. 2, Sentenza n. 10898 del 05/10/1992).

Sicché ha assunto un ruolo preminente, ai fini dell’accertamento della natura preliminare del contratto di vendita, l’assetto in concreto del regolamento del rapporto, in particolare la natura del bene oggetto del contratto – due appartamenti di un edificio ancora in corso di costruzione all’epoca della stipula dell’atto – e il differimento del trasferimento del possesso, non già all’epoca di ultimazione della costruzione dei beni (o comunque ad un dato frangente storico indipendente dal compimento di ulteriori atti negoziali), bensì al momento della stipula del rogito notarile, con la contestuale previsione della concessione della mera detenzione, nel caso di anticipata consegna, senza il saldo del prezzo.

A tale conclusione la Corte distrettuale è pervenuta, con motivazione esente da vizi logici e giuridici (e, in specie, senza che ciò abbia integrato alcuna lesione dei criteri ermeneutici denunciati), alla stregua della valorizzazione della clausola emarginata, con cui le parti stabilivano che eventuali anticipazioni da parte venditrice sulla consegna delle chiavi, “a parte promissaria acquirente”, prima dell’atto notarile, non avrebbero potuto essere intese come presa di possesso del bene (ossia come acquisto dello ius possidendi o diritto di possedere ovvero al possesso, quale complemento dell’acquisto del diritto dominicale sulla cosa). Mentre è stato escluso che la coerenza della pattuizione negoziale potesse essere sminuita dalla previsione dell’eccezione secondo la quale vi sarebbe stato acquisto del “possesso” prima del rogito, nel momento in cui fosse stata saldata per intero ogni pendenza nei confronti di parte venditrice (formula equivoca, evidentemente riferita ad un concetto di possesso in senso improprio, ossia come mero ius possessionis, inteso come pura relazione materiale con la res, senza che ad essa potesse essere riconosciuto il significato di manifestazione di un’attività corrispondente o ad immagine di un diritto reale).

Proprio il fatto che il trasferimento del possesso fosse subordinato alla stipulazione dell’atto notarile, nonostante la sua possibile previa consegna anticipata, lascia intendere che l’atto interpretato si riferisse all’obbligo di realizzare il futuro passaggio della proprietà e del possesso giuridico, e non già al passaggio del possesso reale o materiale o di fatto del bene già venduto (corpus), mediante la consegna della res. In conseguenza, secondo l’impostazione della pronuncia d’appello, tale passaggio del possesso giuridico sine corpore della res vendita – demandato alla conclusione del rogito notarile – doveva intendersi in concreto funzionale a consentire la produzione dell’effetto traslativo, con la correlata attribuzione al compratore della facoltà di disposizione della proprietà della cosa trasferita, in ragione dell’acquisizione del titolo dominicale, e non già limitato a permetterne il godimento secondo la funzione e destinazione in considerazione della quale il programma negoziale è stato predisposto (sulla discriminazione tra possesso giuridico e possesso materiale Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7171 del 22/03/2018; Sez. 2, Sentenza n. 569 del 11/01/2008; Sez. 2, Sentenza n. 5394 del 17/06/1997).

Diversamente (ossia ove si fosse trattato di un definitivo) sarebbe stata priva di senso, ai sensi dell’art. 1476 c.c., n. 1, la previsione del trasferimento del possesso (materiale e giuridico) del cespite al momento della stipula dell’atto pubblico, nonostante la possibile consegna anticipata della res, recte della mera detenzione qualificata (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 24637 del 02/12/2016; Sez. 2, Sentenza n. 5211 del 16/03/2016; Sez. 1, Sentenza n. 4863 del 01/03/2010; Sez. U, Sentenza n. 7930 del 27/03/2008).

4.- Con l’unico motivo del ricorso incidentale la controricorrente si duole, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della violazione o errata applicazione dell’art. 91 c.p.c., in relazione al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 60, convertito, con modificazioni, in L. n. 36 del 1934, applicabile ratione temporis ai sensi del D.Lgs. n. 179 del 2009, art. 1, comma 1, nonché del D.M. Giustizia n. 55 del 2014, artt. 4 e 5, per avere la Corte distrettuale disatteso, senza alcuna argomentazione, le risultanze della nota spese regolarmente prodotta in giudizio, che aveva indicato in modo distinto e specifico l’importo degli onorari, diritti e spese per il primo grado di giudizio e dei compensi e delle spese per il secondo grado, prendendo, quale base di riferimento, il valore della controversia pari ad Euro 333.000,00, corrispondente al prezzo contemplato nel contratto in data 11 luglio 2006, di cui la controparte aveva chiesto in via preliminare la dichiarazione di nullità, ai fini di ottenere la restituzione della somma versata a titolo di caparra, pari ad Euro 30.000,00.

Secondo la controricorrente, il Giudice del gravame avrebbe erroneamente applicato lo scaglione relativo alle controversie di valore compreso tra Euro 5.200,01 ed Euro 26.000,00, senza giustificare in alcun modo tale scelta, dovendo, invece, farsi riferimento allo scaglione tabellare per le controversie di valore compreso tra Euro 260.000,01 ed Euro 520.000,00.

4.1.- La critica è fondata.

Infatti, con l’atto introduttivo del giudizio di primo grado è stato richiesto l’accertamento della nullità del contratto concluso tra le parti in data 11 luglio 2006, sulla scorta della sua qualificazione come contratto definitivo di vendita. Solo quale esito di tale accertamento è stata richiesta la restituzione della somma di denaro versata a titolo di caparra confirmatoria.

Senonché la regola secondo la quale, nelle cause relative a rapporti obbligatori, il valore, ai fini della competenza (e, per l’effetto, anche ai fini della liquidazione delle spese di lite), si determina – ove sia richiesto, in relazione alla prestazione compiuta, il pagamento di una somma di denaro – sulla base dell’ammontare di questa, non subisce deroga quando il giudice sia chiamato ad esaminare le questioni relative all’esistenza ed alla validità dell’intero rapporto obbligatorio quale premessa logica della decisione richiesta, e non già allorché su tali questioni sia domandata una pronuncia con efficacia di giudicato, come nel caso di specie (Cass. Sez. 6-2, Ordinanza n. 2850 del 06/02/2018; Sez. 2, Sentenza n. 2737 del 23/02/2012; Sez. 2, Ordinanza n. 21529 del 12/11/2004; Sez. 3, Sentenza n. 1838 del 20/02/1987; Sez. 2, Sentenza n. 1765 del 07/06/1972; Sez. 3, Sentenza n. 876 del 28/03/1970).

Nella vicenda in esame il valore della causa era, dunque, pari ad Euro 333.000,00, corrispondente al prezzo contemplato nel contratto di cui è stata invocata, con efficacia di giudicato, la dichiarazione di nullità, con la conseguenza che la quantificazione delle spese doveva avvenire avendo riguardo allo scaglione compreso tra Euro 260.000,01 ed Euro 520.000,00 (cosa che non è accaduta, atteso che le somme liquidate nel dispositivo della sentenza d’appello sono inferiori ai minimi tabellari del corretto scaglione di riferimento).

D’altronde, l’interesse ad impugnare il capo relativo alla liquidazione delle spese è insorto nel momento in cui è stata adottata la sentenza d’appello, che – riformando la pronuncia di prime cure – ha determinato le spese di entrambi i gradi di giudizio, ponendole a carico dell’odierna ricorrente per tre quarti.

5.- Alle considerazioni innanzi espresse consegue il rigetto del ricorso principale e l’accoglimento, nei sensi di cui in motivazione, del ricorso incidentale.

La sentenza impugnata va cassata e, all’esito, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, seconda parte, la causa va decisa nel merito, quanto alla liquidazione delle spese dei due gradi meritali del giudizio, ferma restando la disposta compensazione nei limiti di un quarto.

Infatti, qualora sia impugnato per cassazione il quantum della liquidazione delle spese compiuta dal giudice di merito, e non siano necessari accertamenti di fatto, alla luce del principio di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., che impone di non trasferire una causa dall’uno all’altro giudice quando il giudice rinviante potrebbe da sé svolgere le attività richieste al giudice cui la causa dovrebbe essere rinviata, è consentito alla Corte decidere la causa nel merito ex art. 384 c.p.c., liquidando le spese non solo del giudizio di legittimità, ma anche dei gradi di merito, in quanto sarebbe del tutto illogico imporre il giudizio di rinvio, al solo fine di provvedere ad una liquidazione che, in quanto ancorata a parametri di legge, ben può essere direttamente compiuta dal giudice di legittimità (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 31935 del 05/11/2021; Sez. L, Sentenza n. 14199 del 24/05/2021; Sez. L, Sentenza n. 211 del 11/01/2016; Sez. L, Sentenza n. 26012 del 29/12/2015; Sez. 3, Sentenza n. 1761 del 28/01/2014; Sez. L, Sentenza n. 12856 del 28/12/1998).

Ne discende che la ricorrente deve essere condannata alla refusione, in favore della controricorrente, dei tre quarti delle spese del procedimento di primo grado e di secondo grado, che si liquidano per l’intero, applicando i minimi tariffari, nella misura di Euro 8.710,50 per il giudizio di prime cure, oltre accessori come per legge, e nella misura di Euro 8.460,00 per il giudizio d’appello, oltre esborsi per Euro 998,00 ed accessori come per legge.

Le spese e i compensi del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, -, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso principale, accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, condanna la ricorrente alla refusione dei tre quarti delle spese del giudizio di primo grado, che liquida per l’intero in complessivi Euro 8.710,50, oltre accessori come per legge, e dei tre quarti delle spese del giudizio di secondo grado, che liquida per l’intero in complessivi Euro 8.460,00, oltre Euro 998,00 per esborsi e accessori come per legge.

Condanna, altresì, la ricorrente alla refusione, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 21 ottobre 2022.

Depositato in Cancelleria il 17 novembre 2022

Allegati

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