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Cassazione civile sez. II, 17/08/2023, n. 24730

Massima

La domanda di divisione giudiziale ha efficacia interruttiva del termine per l’usucapione nei confronti del compartecipe che abbia il possesso esclusivo di uno dei beni comuni, poiché l’azione, diretta alla trasformazione della quota ideale in proprietà esclusiva, implica un implicito riconoscimento del diritto comune incompatibile con il possesso ad usucapionem. Tale effetto interruttivo si protrae per tutta la durata del processo fino al passaggio in giudicato della sentenza che lo definisce, anche qualora la domanda sia stata rigettata per un supposto impedimento procedurale e non per negata comunione.

Supporto alla lettura

USUCAPIONE

L’usucapione è un modo di acquisto a titolo originario della proprietà mediante il possesso continuativo del bene immobile o mobile per un periodo di tempo determinato dalla legge. L’istituto dell’usucapione, disciplinato dagli articoli 1158 e seguenti del codice civile, configura una delle ipotesi di acquisto di un diritto su beni mobili o immobili a titolo originario. Per il suo compimento infatti, a differenza degli acquisti a titolo derivativo, non necessita della collaborazione o del consenso di chi era in precedenza titolare del diritto usucapito. Per l’usucapione sono necessari i seguenti requisiti:

• La prima è l’“animus possidendi” cioè la a volontà di possedere un bene come si fosse titolari del diritto di proprietà o dell’altro diritto corrispondente.

• La seconda è l’“animus rem sibi habendi” cioè la volontà di tenere un bene esercitando i poteri corrispondenti a quelli del titolare del diritto reale.

• La terza è il “corpus possessionis”. Questo è lo stato di fatto che si configura in modo tale da far apparire il possessore quale titolare del diritto reale corrispondente.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5087, depositata il giorno 5 marzo 2014 riconoscono la possibilità di usucapire l’azienda con il possesso continuato ventennale. Secondo la Suprema Corte l’azienda, ai fini della disciplina del possesso e dell’usucapione, quale complesso di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, deve essere considerata come un bene distinto dai singoli beni che la compongono, e quindi suscettibile di essere unitariamente posseduta e, nel concorso degli altri elementi indicati dalla legge, usucapita. Secondo la Corte, se il possesso si esercita sulla cosa, e se si intende il termine “cosa” in senso economico-sociale, si possono considerare “cose” anche beni non corporei, come i beni immateriali (proprietà intellettuale, ad esempio) o complessi di beni organizzati, come ad esempio l’azienda, definita dal codice civile stesso come complesso organizzato di beni per l’esercizio di una impresa.

La Corte esprime una concezione “oggettivata” dell’azienda che, senza cancellare il suo collegamento organizzativo e finalistico con l’attività d’impresa, assume una propria autonomia di “cosa”, possibile oggetto di rapporti giuridici e di diritti. Occorre a tal fine separare l’azienda intesa come cosa, dall’insieme dei singoli beni e dall’esercizio dell’impresa.

I giudici in tal senso adducono quali esempi tipici di dissociazione tra proprietà dell’azienda intesa come “res” e esercizio dell’impresa il caso della successione mortis causa a favore di soggetti non imprenditori, l’affitto e l’usufrutto di azienda.

In tutti questi casi la proprietà della stessa è sganciata dal suo esercizio, in quanto l’azienda è nella disponibilità del proprietario della “cosa” senza che da parte dello stesso vi sia esercizio dell’attività di impresa.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Foggia è stato adito da (omissis) con domanda di divisione giudiziale, proposta dall’attrice, fra gli altri, nei confronti di (omissis), in relazione ai beni pervenuti dai comuni genitori. (omissis), costituitosi, ha proposto domanda riconvenzionale per fare accertare l’acquisto per usucapione di una parte dei cespiti comini, che il padre gli aveva concesso in uso dal 1983. Il Tribunale, con sentenza non definitiva, per quanto qui rileva, ha rigettato la domanda riconvenzionale e ordinato la divisione per quote uguali nei confronti di (omissis), (omissis) e (omissis).

La Corte d’appello di Bari, adita da (omissis), ha confermato la decisione. Essa ha rilevato che, nell’anno 1983, fu promosso fra le stese parti un giudizio volto alla divisione di quegli stessi beni oggetto della domanda riconvenzionale del convenuto, il quale si era costituito in quel giudizio senza rivendicare il possesso esclusivo di parte dei beni. Ciò posto, la Corte d’appello ha riconosciuto che la domanda di divisione, infine definita con sentenza di rigetto per il mancato deposito della documentazione ipotecaria e catastale, aveva spiegato effetto interruttivo fino alla sua conclusione, lasciando all’appellante solo il possesso quale condomino.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione (omissis), sulla base di tre motivi.

(omissis) ha depositato tardivamente procura rilasciata al difensore, autenticata da questo in calce.

(omissis) rimane intimato.

Fissata l’adunanza innanzi alla Sezione Seconda civile, con ordinanza del 1 agosto 2019, la causa è stata rimessa alla pubblica udienza sulla questione riguardante l’idoneità della domanda di divisione a interrompere il possesso ad usucapionem rivendicato dal compartecipe su uno dei beni dividendi.

Il ricorrente ha depositato ulteriore memoria, oltre a quella già depositata in vista dell’adunanza camerale dinanzi alla Sesta sezione.

Motivi della decisione

1. Deve essere in primo luogo rilevata l’irritualità della costituzione di (omissis), in quanto avvenuta in forza di procura autenticata dal difensore, laddove, in relazione alla data di introduzione del giudizio in primo grado, anteriore all’entrata in vigore della l. n. 69 del 2009art. 45, la procura non può essere rilasciata in calce o a margine di atti diversi dal ricorso o dal controricorso, sicchè, se non è rilasciata in occasione di tali atti, è necessario il suo conferimento nella forma prevista dal comma 2 dell’art. 383 c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis, e, dunque, con un atto pubblico o una scrittura privata autenticata che facciano riferimento agli elementi essenziali del giudizio, quali l’indicazione delle parti e della sentenza impugnata (Cass. n. 20692/2018).

2. I motivi di ricorso possono così essere riassunti:

1) violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in quanto la Corte territoriale, in contrasto con consolidati principi di giurisprudenza, ha attribuito valore di riconoscimento dell’altrui diritto, incompatibile con il possesso ad usucapionem, a comportamenti privi della necessaria univocità: infatti, l’atteggiamento tenuto dell’attuale ricorrente nel precedente giudizio di divisione, in particolare il non avere fatto valere già in quel giudizio l’acquisto a titolo originario della proprietà su uno dei beni comuni, non era affatto univoco, potendo agevolmente spiegarsi con intenzione di evitare lungaggini giudiziali e per spirito conciliativo;

2) violazione e falsa applicazione degli artt. 11671164 e 2943 c.c., nonchè vizio di motivazione, perchè la corte territoriale, in contrasto con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, ha riconosciuto efficacia interruttiva del corso dell’usucapione anche alla domanda di divisione giudiziale, la quale introduce in giudizio che non ha quale fine il recupero del bene;

3) violazione e falsa applicazione dell’art. 1167, comma 2, c.c.: non solo la domanda di divisione è di per sè inidonea ad interrompere il decorso dell’usucapione, ma nel caso di specie era stata rigettata, conseguendone quindi una ulteriore e definitiva ragione per negare ad essa efficacia interruttiva.

3. I motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente, sono infondati.

Sul tema dei rapporti fra giudizio di divisione e la pretesa di uno dei compartecipi, di avere acquisito per usucapione la proprietà di uno dei beni comuni, questa Corte (Cass. n. 15504/2008) ha chiarito che colui il quale promuova un giudizio di divisione, oppure convenuto in tale giudizio non abbia contestato la comune appartenenza, pone certamente in essere un comportamento incompatibile con il possesso utile per l’usucapione (Cass. n. 15504/2018).

Il ricorrente obietta che, quando fu introdotto il giudizio, non era ancora maturato il tempo necessario per l’acquisto. L’obiezione non coglie nel segno, perchè rimane comunque fermo l’implicito riconoscimento del diritto comune derivante dalla assunzione della qualità di parte del giudizio divisorio (Cass. n. 1778/1970).

A un attento esame l’obiezione sarebbe stata logicamente configurabile a patto di riconoscere che la domanda di divisione non sia compresa fra gli atti giudiziali idonei ad interrompere il termine per l’usucapione. In effetti, questo principio è quello affermatosi nella recente giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 6785/2014), la quale ha giustificato l’assunto in base al rilievo che sono idonei a interrompere il corso dell’usucapione solo gli “atti giudiziali di cognizione o di conservazione od esecuzione diretti al recupero del bene stesso”. Secondo tale giurisprudenza, recentemente ripresa da Cass. n. 18544/2022, la domanda di divisione giudiziale introdurrebbe un “procedimento inteso non alla contestazione diretta ed immediata del possesso da parte della controparte, bensì solo alla mera definizione dei rapporti successori, finalizzato alla divisione del patrimonio ereditario; invero, tali atti ed il consequenziale procedimento non vengono ad incidere sulla continuità nella materiale disponibilità del bene da parte (del possessore n.d.r.), id est mediante manifestazioni idonee a dimostrare il venire meno dell’inerzia del proprietario stesso, in riferimento non alla titolarità del diritto ma alla possibilità della sua materiale estrinsecazione sul bene, con la proposizione di azioni recuperatorie del possesso nei confronti del possessore o con il compimento di attività che, incidendo direttamente sulla situazione possessoria altrui, risultino tali da rendere equivoca o non pacifica la situazione medesima”.

4. Questi rilievi riflettono una concezione del giudizio divisorio che non corrisponde alla sua reale natura, quale risulta dalla giurisprudenza di questa Corte. E’ principio acquisito che la domanda di divisione giudiziale, nella sua essenza, ha quale finalità ultima la trasformazione di un diritto ad una quota ideale su una o più cose comuni in un diritto di proprietà esclusiva su beni individuali (Cass. n. 12003/1992). Pertanto, colui che agisce in giudizio per lo scioglimento della comunione tende sia all’effetto strumentale della cessazione dello stato giuridico della comunione, sia all’effetto finale della attribuzione in suo favore della porzione cui abbia diritto, ma di tali effetti, mentre il primo è strettamente connesso all’esercizio del diritto potestativo alla divisione nelle forme della domanda giudiziale, il secondo per quanto riguarda l’individuazione dell’oggetto del nuovo diritto del singolo prescinde dalle richieste della parte in quanto il giudice provvede in modo autonomo a determinare le porzioni e ad attribuirle ai condividenti, esercitando i propri poteri discrezionali, indipendentemente dalle indicazioni contenute nella domanda in merito alle concrete modalità di attuazione delle operazioni divisionali, ancorchè tali manifestazioni possono influire sull’andamento delle operazioni (Cass. n. 5462/1986).

Insomma, l’azione (petitoria: Cass. n. 2122/1955) di divisione giudiziale, di per sè, è potenzialmente estesa a ottenere la proprietà esclusiva (e il conseguente rilascio) di uno qualsiasi delle più cose oggetto di comunione, comprese, ovviamente, le cose eventualmente al possesso esclusivo di uno o l’altro dei compartecipi. La richiesta di una pronuncia di condanna al rilascio della porzione che fosse assegnata e un’eventuale statuizione in tal senso contenuta nel provvedimento (sentenza o ordinanza) che definisce il giudizio sarebbero pleonastiche e superflue. Invero l’efficacia di titolo esecutivo, attribuita dalla legge (art. 195 disp. att. c.p.c.) al decreto di approvazione dell’attribuzione delle quote nel giudizio di divisione, importa che ciascuno dei condividenti acquista la piena proprietà della quota toccatagli, ed ha quindi la potestà di esercitare tutte le azioni inerenti al godimento del dominio, in esse principalmente compresa quella diretta ad ottenere il rilascio della quota stessa dal condividente, che, in conseguenza della compiuta divisione, non ha più nessun titolo giuridico atto a giustificare l’ulteriore sua detenzione. Detto decreto, poichè le azioni esecutive, accessoriamente collegate alla titolarità di un bene o di un diritto in genere, si trasferiscono automaticamente con la trasmissione di esso, giova inoltre al successore a titolo particolare o universale del condividente assegnatario, il quale, quindi, può agire in forza del decreto esecutivamente per conseguire il possesso del bene (Cass. n. 1015/1955).

Consegue che la domanda di divisione ha tutti i requisiti richiesti per avere efficacia interruttiva del termine per l’usucapione nei confronti del compartecipe, il quale abbia il possesso esclusivo di uno dei beni comuni. Ciò non toglie che il termine per l’usucapione potrebbe cominciare a decorrere dopo il compimento della divisione, tenuto conto che il trasferimento del diritto di proprietà su di un bene individuato effettuato mediante un atto divisionale, non fa presumere il trasferimento del possesso nell’assegnatario e, quindi, la detenzione nomine alieno nel condividente, che prima della divisione ne aveva avuto il possesso esclusivo, se il condividente non assegnatario continua a possedere in via esclusiva ed animo domini la quota in concreto assegnata ad altro condividente (Cass. n. 195/1970).

5. Nella specie si obietta con il terzo motivo che la domanda di divisione è stata rigettata, per cui l’efficacia interruttiva della stessa domanda, qualora in ipotesi sussistente, non avrebbe impedito l’inizio di un nuovo termine del possesso utile per l’usucapione. Il rilievo trascura che, secondo quanto emerge dalla sentenza impugnata, la precedente domanda di divisione è stata rigettata per un supposto (e inesistente: Cass. 10067/2020) impedimento procedurale, ossia la mancanza dei certificati ipotecari e catastali, e non perchè sia stata negata la comunione: nel qual caso, d’altra parte, il problema sollevato dall’attuale ricorrente non si sarebbe posto, perchè la domanda di divisione non sarebbe stata riproponibile.

A tale (anomala) ipotesi di rigetto della domanda di divisione è certamente applicabile il principio fissato dall’art. 2945, comma 2, c.c., inteso in conformità agli insegnamento di questa Corte, la quale ha più volte chiarito che “l’effetto interruttivo della prescrizione conseguente alla proposizione di una domanda giudiziale idonea ad instaurare un valido rapporto processuale si protrae per tutta la durata del processo fino al passaggio in giudicato della sentenza che lo definisce, trova applicazione in tutte le situazioni in cui sia pronunciata una sentenza che definisca il giudizio e sia suscettibile di passare in giudicato, con la sola eccezione, stabilita dallo stesso art. 2945, comma 3, di una pronuncia che dichiari l’estinzione del processo, e pertanto il detto effetto interruttivo permanente si verifica anche nel caso che il giudizio si concluda con sentenza che dichiari improponibile la domanda per difetto di un presupposto processuale c.c. (Cass. n. 7023/1983; n. 5353/1985; n. 5085/1987n. 7664/1995n. 8367/1996n. 9400/1997n. 14243/1999n. 696/2002).

6. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato Nulla va disposto in ordine al governo delle spese del giudizio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

rigetta il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002art. 13, comma 1 quater, inserito dalla l. n. 228 del 2012art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda sezione civile della Suprema Corte di cassazione, il 5 aprile 2023.

Depositato in Cancelleria il 17 agosto 2023

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