1. C.C., al quale in corso di causa subentrerà “iure hereditatis la moglie”, A.A., citò in giudizio B.B., chiedendo che fosse dichiarato il di lui acquisto per usucapione d’un immobile, facente parte di un più ampio fabbricato, venduto alla convenuta da E.E., fratello dell’attore, anche quest’ultimo chiamato in giudizio.
1.1. Si trae dalla sentenza d’appello che l’attore aveva dedotto che l’assegnazione dell’immobile di cui si tratta al fratello E.E., con contratto di divisione, stipulato in uno all’atto di cessione dell’intero fabbricato da parte della curatela del fallimento di D.D., padre di entrambi, sarebbe stato fittizio, in quanto che l’unico proprietario, era C.C., che aveva corrisposto il prezzo dell’assegnazione. In ogni caso, esclusivo possessore dell’immobile con efficacia usucapiente era stato quest’ultimo.
2. Il Tribunale adito, per quel che ancora qui rileva, accertati atti di signoria protratti nel tempo da parte del titolare E.E. e che la prova per testi non aveva comprovato la pretesa, rigettò la domanda.
3. A.A. impugnò la sentenza di primo grado. B.B. si costituì chiedendo il rigetto dell’appello e proponendo impugnazione incidentale nei confronti dell’appellante principale e dell’appellato.
Deceduto E.E., il processo venne riassunto nei confronti dei di lui eredi legittimi.
In sede di precisazione delle conclusioni l’appellante principale, Rina A.A., e quella incidentale, B.B., rinunciarono alle rispettive domande avanzate nei confronti degli eredi di E.E.
L’appellante censurò la sentenza del Tribunale esponendo che:
– in un parallelo giudizio si era affermato, con forza di giudicato, che s’imponeva anche nel presente giudizio, che C.C. aveva usucapito lo stabile;
– che il fratello E.E., che aveva disertato larga parte del processo, aveva confessato che il contratto di divisione, intervenuto nel 1984, era fittizio;
– che non poteva assegnarsi valore interruttivo del tempo utile all’usucapione alle intervenute iscrizioni ipotecarie, ai pignoramenti immobiliari, alle accensioni di mutui e ai pagamenti d’imposte;
– che l’escussione testimoniale aveva confermato il possesso legittimante di C.C.
3.1. La Corte di Ancona, dichiarato estinto il giudizio nei confronti degli eredi di E.E., rigettò l’appello principale e quello incidentale.
4. A.A. ricorre sulla base di quattro motivi.
B.B. resiste con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.
5. Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 228 e 113 cod. proc. civ., 2730, 1414, 1415, 1350 e 2725 cod. civ.
Si assume che la Corte di merito aveva errato a rigettare “la configurazione di una simulazione, o comunque di interposizione fittizia di persona”, essendo stata una tal natura del negozio confessata da E.E. in sede d’interrogatorio formale.
Siffatta confessione, tenuto conto dell’orientamento espresso dalle Sezioni unite con la sentenza n. 6459/2020, rivestiva pieno valore probatorio, trattandosi di accordo fiduciario, la cui prova poteva essere data anche in assenza di controscrittura.
5.1. La doglianza non supera il vaglio d’ammissibilità essendo priva della necessaria specificità sotto il profilo dell’autosufficienza, non avendo la ricorrente prodotto il verbale di causa, dal quale assume doversi trarre l’asserita confessione, riportandone una sintesi confusa e priva di agevole comprensibilità, peraltro puntualmente avversata dal controricorso.
In disparte, val la pena soggiungere che la natura trilaterale del negozio, che vedeva come parti i due fratelli Omissis e la Curatela del fallimento, avrebbe imposto la condivisa volontà di fare figurare come acquirente-assegnatario E.E., invece che C.C. Peraltro, il patto fiduciario appare impropriamente richiamato, stante che esso costituisce un accordo sottostante a un acquisto successivamente effettuato dal fiduciario per conto del fiduciante, con patto di ritrasferire in futuro il bene al fiduciante. Negozio, questo, al quale resta del tutto estraneo l’alienante.
6. Con il secondo motivo viene denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 1158 e 2909 cod. civ.
La A.A. afferma che l’evocata sentenza passata in giudicato, al contrario di quanto sostenuto dalla Corte di Ancona, faceva pieno stato nel presente giudizio.
La Corte d’Appello aveva superficialmente valutato la vicenda, stante che, già prima del “fittizio rogito di divisione” del 1984, C.C. aveva posseduto “uti dominus” l’intero stabile, il quale costituiva “struttura unifamiliare, e quindi non condominiale, dove tutti gli ambienti sono uniti senza soluzione di continuità”.
Al fine di non procurare un insanabile contrasto fra decisioni si sarebbe dovuto assegnare valore di giudicato riflesso all’anzidetta statuizione.
6.1. La censura è infondata.
Correttamente la Corte di Ancona spiega che il giudizio definito dalla sentenza n. 299/2011, emessa dal Tribunale di Ascoli Piceno, non aveva visto in causa B.B. e riguardò l’acquisto per usucapione di altre e distinte unità immobiliari (pur facenti parte del medesimo fabbricato) rispetto all’appartamento posto al secondo piano, venduto da E.E. ad B.B. nel 2003.
L’efficacia riflessa del giudicato presuppone un nesso di pregiudizialità-dipendenza giuridica (che si ha solo allorché un rapporto giuridico, pregiudiziale o condizionante, rientra nella fattispecie di altro rapporto giuridico, condizionato, dipendente), il quale solo legittima l’efficacia riflessa del giudicato nei confronti di soggetti in tutto o in parte diversi, nel rispetto dei diritti costituzionali del contraddittorio e di difesa (S.U. n. 6523, 12/3/2008). Successivamente si è puntualmente spiegato, in termini qui esattamente sovrapponibili, che il giudicato può spiegare efficacia riflessa nei confronti di soggetti rimasti estranei al giudizio quando contenga l’affermazione di una verità che non ammette un diverso accertamento e il terzo non vanti un diritto autonomo rispetto a quello su cui il giudicato è intervenuto (Sez. 6, 08/10/2013, Rv. 627887 – 01).
Tali presupposti – ineludibili per giustificare la deroga alla forza del giudicato, limitata solo alle parti in causa e alla vicenda controversa, come non hanno mancato di spiegare le Sezioni unite con la sentenza sopra richiamata – qui mancano del tutto: il terzo (la B.B.) vanta un diritto autonomo rispetto a quello su cui il giudicato è intervenuto e quell’accertamento non ha carattere di pregiudizialità e, di conseguenza, il diritto di cui qui si discute non ne è dipendente.
7. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1158 cod. civ., nonché “difetto assoluto di motivazione… e/o motivazione apparente”.
La ricorrente sottopone a critica il passaggio motivazionale con il quale la sentenza impugnata aveva negato che la svolta istruttoria non consentiva di affermare che C.C. avesse posseduto ininterrottamente il bene per il ventennio previsto dalla legge, senza aver considerato che l’unico atto che avrebbe potuto avere efficacia interruttiva avrebbe dovuto avere natura giudiziaria diretta al recupero del possesso.
7.1. Il motivo è inammissibile.
La sentenza ha chiaramente spiegato gli atti sulla base dei quali poteva affermarsi che E.E. aveva mantenuto il possesso dell’immobile (iscrizioni ipotecarie, pignoramento immobiliare – e proprio il medesimo venne trovato nel possesso dall’ufficiale giudiziario -, pagamento imposte, ecc.).
Non si tratta, al contrario di quel che si asserisce con il motivo in esame, di atti interruttivi, bensì, come ha spiegato il Giudice d’appello, di atti manifestanti l’esercizio del potere di fatto del proprietario.
Come noto la giustificazione motivazionale è di esclusivo dominio del giudice del merito, con la sola eccezione del caso in cui essa debba giudicarsi meramente apparente; apparenza che ricorre, come di recente ha ribadito questa Corte, allorquando essa, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Sez. 6, n. 13977, 23/5/2019, Rv. 654145; ma già S.U. n. 22232/2016; Cass. n. 6758/2022 e, da ultimo, S.U. n. 2767/2023, in motivazione).
A tale ipotesi deve aggiungersi il caso in cui la motivazione non risulti dotata dell’ineludibile attitudine a rendere palese (sia pure in via mediata o indiretta) la sua riferibilità al caso concreto preso in esame, di talché appaia di mero stile, o, se si vuole, standard; cioè un modello argomentativo a priori, che prescinda dall’effettivo e specifico sindacato sul fatto.
Siccome ha già avuto modo questa Corte di più volte chiarire, la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, con la conseguenza che è pertanto, denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; anomalia che si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (S.U., n. 8053, 7/4/2014, Rv. 629830; S.U. n. 8054, 7/4/2014, Rv. 629833; Sez. 6-2, n. 21257, 8/10/2014, Rv. 632914).
Qui non ricorre alcuna delle ipotesi sopra richiamate, avendo la sentenza, come si è visto, reso giustificazione motivazionale pienamente pertinente e del tutto ripercorribile.
Infine, è del tutto palese che attraverso la denunzia di violazione di legge (in ispecie dell’art. 1158 cod. civ.) la ricorrente sollecita – non determinando essa, nel giudizio di legittimità lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, essendo, all’evidenza, occorrente che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente – un improprio riesame di merito (da ultimo, S.U. n. 25573, 12/11/2020, Rv. 659459).
8. Con il quarto motivo si denuncia il “mancato esame della documentazione prodotta dall’appellante e per aver tenuto conto delle sole prove documentali avversarie”, in relazione all’art. 360, n. 5 cod. proc. civ., nonché violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.
La ricorrente, in sostanza, lamenta che la Corte d’Appello non aveva preso in considerazione la sentenza, dalla quale sostiene essere derivato giudicato riflesso, la produzione delle chiavi da parte di C.C. in primo grado, i certificati di residenza, la domanda di ristrutturazione edilizia presentata da C.C.
Per contro il Giudice d’appello aveva assegnato valore di prova alle azioni esecutive ai danni @6Di,Ma., attribuendo ad esse efficacia interruttiva. Aveva, inoltre “rielabora (to) liberamente le deposizioni testimoniali”.
8.1. Il motivo risulta palesemente inammissibile.
Con esso s’invoca un improprio un riesame di merito.
La ricostruzione probatoria, come noto, anche qualora sostenuta dall’asserita violazione degli artt. 115 e 116, cod. proc. civ., non può essere contestata in questa sede, poiché, come noto, l’apprezzamento delle prove effettuato dal giudice del merito non è, in questa sede, sindacabile, neppure attraverso l’escamotage dell’evocazione dell’art. 116, cod. proc. civ., in quanto, come noto, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito (cfr., da ultimo, Sez. 6, n. 27000, 27/12/2016, Rv. 642299). Punto di diritto, questo, che ha trovato recente conferma nei principi enunciati dalle Sezioni unite in epoca recente (sent. n. 20867, 30/09/2020, conf. Cass. n. 16016/2021), essendosi affermato che in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Rv. 659037). E inoltre che per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Rv. 659037).
Infine, è appena il caso di soggiungere, che la ricorrente, ancora una volta, mostra di confondere gli atti interruttivi del possesso con quelli che manifestano il possesso del proprietario.
9. Rigettato il ricorso nel suo complesso, il regolamento delle spese segue la soccombenza e le stesse vanno liquidate, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonché delle svolte attività, siccome in dispositivo.
10. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della controricorrente, che liquida in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge;
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il giorno 15 maggio 2024.
Depositata in Cancelleria il 17 luglio 2024.
