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Cassazione civile sez. II, 14/09/2022, n. 26984

Massima

Ai fini dell’accertamento sulla sussistenza o meno della capacità di intendere e di volere del de cuius al momento della redazione del testamento, il giudice del merito non può ignorare il contenuto del testamento medesimo e gli elementi di valutazione da esso desumibili, in relazione alla serietà, normalità e coerenza delle relative disposizioni, nonché ai sentimenti ed ai fini che risultano averle ispirate.

Supporto alla lettura

TESTAMENTO

Il testamento è un atto revocabile con il quale qualsiasi persona, capace di intendere e volere, dispone delle proprie sostanze per il tempo il cui avrà cessato di vivere.

Nel nostro ordinamento giuridico, vi sono due forme ordinarie di testamento:

  • il testamento olografo;
  • il testamento per atto di notaio.

 

Il testamento olografo è una scrittura privata per la quale sono necessari alcuni requisiti formali:

  • l’autografia (non può essere scritto al computer, ma deve essere di proprio pugno);
  • la datazione;
  • la sottoscrizione.

 

Benché molto semplice e di comune utilizzo, questa forma testamentaria presenta alcuni svantaggi:

  • possibilità di distruzione ad opera di terzi;
  • possibilità di smarrimento;
  • possibilità di errori;
  • possibilità di falsificazioni;
  • possibilità di contestazioni circa l’autenticità del documento;
  • difficoltà di interpretazione in caso di disposizioni particolarmente complesse.

 

Al fine di evitare tali problematiche, è possibile fare ricorso al testamento per atto di notaio: cioè il testamento pubblico che viene ricevuto dal notaio in presenza di due testimoni e presenta notevoli vantaggi:

  • rigoroso accertamento della volontà del testatore;
  • nessuna possibilità di smarrimento o sottrazione;
  • forza probatoria tipica dell’atto pubblico;
  • garanzia di conformità all’ordinamento giuridico;
  • possibilità di utilizzo anche da parte di chi non potrebbe ricorrere al testamento olografo, quali ad esempio analfabeti, stranieri o impossibilitati a scrivere.

 

Oltre al testamento pubblico, esiste anche il testamento segreto (non diffuso nella prassi) che è il testamento scritto dal testatore o da un terzo e consegnato personalmente al notaio (che quindi non ne conosce il contenuto), il quale redige un semplice verbale di ricevimento.

La legge tutela alcune categorie di familiari (legittimari), riservando agli stessi una quota di eredità (legittima) anche contro un’eventuale volontà del defunto espressa per testamento. Questi soggetti sono i discendenti (figli e nipoti), gli ascendenti (genitori, nonni, e così via) e il coniuge.

A seconda della esistenza o meno di tali soggetti al momento del decesso, o di alcuni soltanto di essi, la legge prevede, con calcoli a volte molto complicati, quale sia la quota di eredità riservata a costoro, considerando anche i debiti del defunto ed eventuali donazioni da lui effettuate in vita, e quale sia, quindi, la quota di eredità (disponibile) di cui il testatore può disporre liberamente a favore di chi vuole.

C’è, quindi, un limite alla libertà di fare testamento: se il testamento lede i diritti di un legittimario, questo potrà agire in giudizio per renderle inefficaci.

Ambito oggettivo di applicazione

1. In data 14 luglio 2010 era deceduto B.G., il cui testamento olografo del 15/11/2000 era pubblicato il 15/11/2010, con il quale il de cuius lasciava alla figlia L. l’appartamento in cui viveva e tutte le altre sostanze al figlio P.. In data 30/07/2010 era stato già pubblicato il successivo testamento olografo datato 02/04/2005, con cui il de cuius istituiva erede universale la figlia L., consentendo, dietro il pagamento di un canone alla sorella, al figlio P. di continuare a occupare la casa da lui abitata.

B.P. conveniva in giudizio la sorella, dinanzi al Tribunale di Lecco, affinché fosse accertata l’invalidità del testamento olografo del 02/04/2005, a causa della non veridicità della data apposta, o, in subordine, per dolo, violenza, errore o captazione. Chiedeva quindi che fosse dichiarato valido il testamento olografo datato 15/11/2000 e che si procedesse alla divisione dei beni in base alle disposizioni ivi contenute. Nella denegata ipotesi in cui fosse stata riconosciuta la validità del testamento del 02/04/2005, chiedeva la reintegrazione della sua quota di legittima.

Si costituiva la convenuta, chiedendo il rigetto delle domande e, nell’ipotesi in cui il Tribunale avesse accertato la lesione della quota di legittima del fratello, di tener conto di quanto da questi ricevuto in vita dal de cuius.

All’esito dell’istruttoria, il Tribunale di Lecco, con la sentenza n. 120 del 01/03/2017, annullava, ex art. 602 c.c., comma 3 e art. 591 c.c., commi 2 e 3, il testamento olografo del 02/04/2005 e conseguentemente disponeva che la delazione dell’eredità di B.G. avvenisse sulla base del testamento olografo del 15/11/2000.

In primo luogo, il Tribunale rigettava l’eccezione della convenuta ex art. 75 c.p.p., comma 1, relativa alla asserita rinuncia agli atti del giudizio da parte del fratello P. a seguito della sua costituzione di parte civile nel procedimento penale, scaturito a seguito della denuncia formulata dal medesimo nei confronti della sorella, per il reato di circonvenzione di incapace, per aver influenzato il de cuius nella redazione del testamento del 02/04/2005.

A sostegno dell’invalidità del testamento del 02/04/2005, il Tribunale, superando l’esito della CTU e valorizzando le conseguenze della malattia del de cuius, rilevava che il testamento non poteva essere stato redatto nel 2005, posto che denotava uno stato di totale incapacità naturale del de cuius. Atteso che gli accertamenti clinici eseguiti sul de cuius al 29 novembre 2007 rivelavano uno stato di decadimento psico-fisico e un deficit di attenzione, il Giudice individuava la data di redazione del testamento verso la fine del 2007, quando già la sua condizione psichica non gli consentiva di apprezzare quanto stesse facendo.

Proponeva appello B.L., deducendo l’erroneità della decisione, con il primo motivo, nella parte in cui non aveva accolto l’eccezione ex art. 75 c.p.p.; con il secondo motivo, nella parte in cui aveva annullato il testamento del 02/04/2005, nonostante non fosse stata raggiunta la prova dell’incapacità del testatore, la quale, anzi, doveva ritenersi smentita da plurime risultanze istruttorie. Tra queste, il fatto che la malattia del de cuius non avesse intaccato le sue facoltà intellettive e cognitive, non potendo l’incerta elaborazione grafica del testamento ascriversi a una redazione inconsapevole, bensì alle condizioni meramente fisiche; il fatto che la TAC del 2007 fosse ininfluente ai fini della decisione; le deposizioni dei testi escussi, chiare e univoche nel senso di escludere che il testatore fosse incapace, essendo rimasto lucido fino a pochi mesi prima della morte; l’erronea valorizzazione della testimonianza della signora L.S., nonostante fosse contraddittoria.

Si costituiva P. B. chiedendo il rigetto dell’appello.

La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 4389/2018 pubblicata il 09/10/2018, rigettava l’appello, con condanna dell’appellante alla refusione delle spese di lite.

Quanto al primo motivo di appello, la Corte riteneva che le argomentazioni dell’appellante dovessero ritenersi infondate, in quanto ostava alla rinuncia ex lege agli atti, in virtù del trasferimento dell’azione civile in sede penale, proprio il fatto che non vi fosse coincidenza tra la domanda proposta in sede civile e l’azione civile esercitata in sede penale.

Confermando la decisione del Tribunale, non riteneva sussistente l’identità di petitum nei due giudizi, dibattendosi, nell’uno, dell’annullabilità del testamento per incapacità naturale o in subordine della nullità del testamento per violenza, errore, dolo o captazione (non necessariamente dovuti all’attività della sorella); nell’altro, del reato di circonvenzione di incapace commesso dalla sorella, con conseguente richiesta di sua condanna al risarcimento dei danni.

Parimenti sottolineava la diversità dell’ambito di accertamento, ben potendo quello relativo all’annullabilità per incapacità prescindere dall’esistenza di un pregiudizio, requisito, invece, necessario ai fini del perfezionamento del reato di circonvenzione di incapace.

Quanto al secondo motivo, la Corte confermava la sentenza del giudice di prime cure, nella parte in cui aveva ritenuto che il secondo testamento non fosse stato redatto il 02/04/2005.

All’esito della CTU medico-grafologica, era stato accertato che il testamento recante la data del 02/04/2005, scritto e sottoscritto dal sig. B.G., fosse compatibile con le patologie riscontrate sul de cuius solo a partire da novembre 2007, e pertanto non poteva essere considerata veritiera la data ad esso apposta, dovendosi considerare redatto in un momento successivo, nel quale erano manifesti i danni cerebrali dovuti alla patologia. E ciò era confermato dalla consulenza, che aveva messo in rilievo le differenze sintattiche e grafologiche rispetto al testamento del 2000 (omissione di parole, sostituzione con parole incongrue, ripetizioni inutili, cancellazioni).

Il fatto che la patologia fosse stata riscontrata soltanto a partire dalla fine del 2007 era confermato anche dai testi escussi.

La Corte, pur avendo il CTU concluso nel senso che la forma e la sostanza del testamento fossero indicative non di una totale incapacità, ma di una alterazione della capacità di intendere e di volere, tuttavia, valorizzando la valutazione psichiatrica dell’ausiliario del CTU, dalla quale emergeva che la patologia del de cuius lo aveva condotto a perdere ogni controllo delle facoltà mentali, nonché la documentazione medica ulteriore, attestante un rapido e continuo peggioramento del disturbo neuro-cognitivo, confermava la sentenza del Tribunale nel senso che il de cuius si trovasse in uno stato di incapacità naturale al momento della redazione della seconda scheda testamentaria.

In tal senso, valorizzava una serie di ulteriori circostanze indiziarie: l’omesso riferimento al primo testamento nel momento in cui mutava le sue ultime volontà; la consegna della scheda testamentaria alla signora B., che non aveva stretti legami con il de cuius, ma solo con la figlia L.; la mancata informazione di I.S., depositaria della prima scheda testamentaria, circa il mutamento delle sue ultime volontà, così da consentirle di distruggere o restituire la prima scheda; il fatto che nessun evento accaduto giustificasse un simile mutamento della volontà testamentaria.

La Corte non ravvisava elementi probatori volti a confermare la tesi secondo cui B.P. avrebbe ricevuto la sua parte quando il de cuius era ancora in vita, emergendo soltanto la prova del possesso di due autovetture nell’arco di diciassette anni e di due viaggi all’estero. Sfornita di prova era, altresì, la circostanza che P. avesse esercitato violenza nei confronti della sorella e dei suoi figli.

A fronte di ciò, gli elementi istruttori offerti dalla difesa dovevano considerarsi inattendibili o inconsistenti, attesa la contraddittorietà della testimonianza B., circa i modi e tempi della consegna del testamento da parte del de cuius.

Viceversa, andava valorizzata la testimonianza di L.S., che riferiva del fatto che il de cuius aveva raccontato a suo marito di come volesse disporre in morte delle sue sostanze, lasciando l’appartamento a L. e tutto il resto a P., nonché della consegna del testamento da custodire a suo marito, avvenuta in sua presenza, e delle richieste di L. di attendere a pubblicare il testamento.

B.L. propone ricorso per la cassazione di tale sentenza sulla base di due motivi, illustrati da memoria.

B.P. ha resistito con controricorso.

2. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 75 c.p.p., ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e 4, per non avere la Corte applicato i principi relativi alla ricaduta processuale della costituzione di parte civile nel processo penale. La sentenza sarebbe errata nella parte in cui non ha tenuto conto che con la costituzione di parte civile, avvenuta il 05/11/2013 quando il giudizio civile era in pieno svolgimento in primo grado, l’attore abbia inteso trasferire nel procedimento penale l’azione civile, con conseguente rinuncia agli atti del giudizio civile, in virtù dell’art. 75 c.p.p. e art. 306 c.p.c., con effetto immediato e definitivo.

L’identità delle due azioni emergerebbe dalle conclusioni presentate dalla difesa del signor B. all’udienza penale del 18 gennaio 2016, per la dichiarazione della falsità del testamento olografo ex art. 537 c.p.p..

Inoltre, essendo tutto l’impianto accusatorio nel giudizio civile e penale rivolto contro B.L., sarebbe erronea la conclusione della Corte secondo cui nel giudizio civile non era chiesto l’accertamento che l’azione induttiva fosse stata perpetrata proprio da B.L..

Infine, la richiesta risarcitoria in sede penale denoterebbe la volontà di trasferire l’intera azione in ambito penale.

Il motivo è infondato.

Questa Suprema Corte, se pure con riferimento all’art. 24 c.p.p., previgente, norma riprodotta sostanzialmente in quella di cui all’art. 75, comma 1, del vigente codice (circostanza che giustifica l’applicazione dei medesimi principi), ha affermato che la regola di cui all’art. 24 citato, secondo cui il trasferimento dell’azione civile in sede penale comporta di diritto la rinuncia dell’attore al giudizio civile che di conseguenza va dichiarato estinto anche d’ufficio, postula che tra le due azioni vi sia identità di oggetto, in relazione alla causa petendi e al petitum e di soggetti, il cui accertamento – che prescinde dall’esame della fondatezza dell’azione esperita con la costituzione di parte civile – è rimesso all’apprezzamento di fatto del giudice di merito, come tale incensurabile in sede di legittimità ove non siano dedotti vizi di motivazione (cfr. Cass., Sez. 3, Sentenza n. 7633 del 16/05/2012; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 6293 del 18/04/2003; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 3439 del 25/05/1981).

Del resto, alla luce del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 introdotto dalla L. n. 134 del 2012, l’interpretazione operata dal giudice di appello riguardo al contenuto e all’ampiezza della domanda giudiziale è assoggettabile al controllo di legittimità limitatamente al caso in cui l’anomalia motivazionale si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata (a prescindere dal confronto con le risultanze processuali). Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. S.U. 8053/2014).

Nel caso in esame, la valutazione compiuta dal giudice di merito circa l’identità delle due azioni è adeguatamente motivata sulla scorta del puntuale esame delle domande proposte dall’attore nel giudizio civile e nel procedimento penale. La Corte d’Appello ha interamente confermato la decisione del giudice di primo grado, che aveva evidenziato la differenza in termini di petitum tra le due azioni (da una parte, annullabilità del testamento per incapacità naturale o sua nullità per violenza, errore, dolo o captazione – non necessariamente dovuti all’attività della sorella – dall’altra, reato di circonvenzione di incapace imputato alla sorella), mettendo in evidenza anche le differenze degli accertamenti necessari nelle due azioni, ben potendo il primo prescindere dal requisito del pregiudizio. Rilevava anche il fatto che solo nella costituzione di parte civile nel procedimento penale fosse stata avanzata la domanda risarcitoria nei confronti della sorella, assente nel giudizio civile.

Circostanza, questa, che, di per sé, sarebbe idonea ad escludere l’applicabilità dell’art. 75 c.p.p., che, alla luce della giurisprudenza di questa Suprema Corte, presuppone che sia stata esperita un’azione di danni in sede civile e sia poi stata trasferita in sede penale.

In tal senso si veda quanto affermato da Cass. n. 26332/2011 secondo cui, in tema di sospensione necessaria del processo civile, ove l’azione esercitata riguardi non già il risarcimento dei danni derivati dal reato per cui pende il processo penale, ma l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto, ai sensi dell’art. 2932 c.c., il rapporto tra il giudizio civile sospeso ed il giudizio penale non può essere disciplinato dall’art. 75 c.p.p. (cfr. altresì Cass., Sez. U, Sentenza n. 6538 del 18/03/2010; Cass., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 18918 del 15/07/2019; Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 5224 del 10/03/2006; Cass., Sez. 5, Sentenza n. 20823 del 26/10/2005).

E’ stata, così, congruamente valutata la mancata sussistenza del presupposto dell’identità delle due azioni.

In ogni caso, la doglianza della ricorrente non sarebbe sorretta da alcun interesse dal momento che allo stato attuale non potrebbe essere dichiarata l’estinzione del giudizio, proprio perché, come sostenuto dalla stessa ricorrente, il procedimento penale è giunto al termine, con sentenza di proscioglimento dell’imputata. A tale riguardo, le sezioni unite di questa Suprema Corte hanno affermato che il trasferimento dell’azione civile nel processo penale, regolato dall’art. 75 c.p.p., determina una vicenda estintiva del processo civile riconducibile al fenomeno della litispendenza, e non a quello disciplinato dall’art. 306 c.p.c., in quanto previsto al fine di evitare contrasti di giudicati. Ne consegue che detta estinzione è rilevabile anche d’ufficio, ma può essere dichiarata solo se, nel momento in cui il giudice civile provvede in tal senso, persista la situazione di litispendenza e non vi sia stata pronuncia sull’azione civile in sede penale (cfr. Cass., Sez. U, ordinanza interlocutoria n. 8353 del 05/04/2013; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 17639 del 18/07/2013; si veda anche Cass., Sez. 3, Sentenza n. 15995 del 21/07/2011, che ha escluso l’estinzione del giudizio civile laddove, al momento della declaratoria, nel frattempo, il processo penale si sia concluso senza una pronuncia sull’azione civile).

3. Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 602 c.c., comma 3 e art. 591 c.c., comma 2, art. 115 e 116, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e 5, per non avere la Corte riconosciuto i principi in materia di annullamento del testamento per incapacità del testatore, che impongono l’accertamento di una incapacità assoluta al momento della redazione dell’atto di ultima volontà.

La Corte d’Appello si sarebbe limitata a desumere l’incapacità totale da erronee presunzioni svolte dal Tribunale, senza tenere conto di altri elementi, essenziali e incontrovertibili, che attesterebbero l’insussistenza dei presupposti richiesti dalla legge ai fini della declaratoria di annullamento per incapacità. Tra questi, il fatto che il CTU avesse espressamente dichiarato che la forma e la sostanza del testamento fossero indicativi non di totale incapacità, ma di una alterazione della capacità di intendere e di volere; le testimonianze (tra cui quella del sacerdote) che confermavano che il de cuius fosse autonomo e capace di autodeterminarsi fino a pochi mesi prima della morte, avvenuta a luglio 2010; la documentazione medica dalla quale risultava che almeno fino al 2009 il signor B. fosse adeguatamente compos sui.

La sentenza sarebbe erronea anche nella parte in cui ha ritenuto che il testamento fosse stato redatto in un momento successivo, individuato a fine 2007, senza analizzare tutti gli scritti di comparazione grafologica, da cui emergeva un quadro involutivo del de cuius a livello grafico non progressivo, a conferma del fatto che nel 2005 il signor B., ancora in grado di intendere e di volere e capace di autodeterminarsi, scrivesse con un tratto più involuto e meno strutturato rispetto agli anni precedenti. Significativo sarebbe poi il documento allegato al testamento, nel quale il de cuius si scusava per la cattiva grafia e ortografia.

La Corte non avrebbe poi attribuito rilievo al fatto che la CTU avesse evidenziato perplessità rispetto al testamento del 2000, sospettato di essere frutto di etero-determinazione e suggestione, per essere stato redatto con un linguaggio del tutto logico e appropriato, proprietà linguistica e ricercatezza nell’uso dei termini, in modo, cioè, del tutto sorprendente, tenuto conto che il de cuius non aveva conseguito il diploma di quinta elementare ed era abituato a parlare in dialetto.

Del tutto illogica sarebbe poi la sentenza nella parte in cui desumeva dalla mancata revoca esplicita delle precedenti disposizioni un elemento indiziario dell’assenza di capacità del testatore, omettendo di considerare la contraddittorietà della testimonianza di L.S..

Errata sarebbe anche la valutazione delle risultanze istruttorie, da cui emergeva che il de cuius fosse intimorito dal figlio P. e che tale fosse la ragione del contegno di riservatezza sull’esistenza della seconda scheda testamentaria, per evitare una reazione violenta del figlio, laddove ne fosse venuto a conoscenza.

Le testimonianze confermavano l’aggressività e violenza della condotta di B.P. nei confronti di tutti i componenti della famiglia, circostanze che di per sé spiegherebbe il motivo del mutamento delle disposizioni di ultima volontà del de cuius. Per la stessa ragione la signora S. non sarebbe stata informata della redazione della seconda scheda testamentaria.

Il motivo è destituito di fondamento.

La ricorrente deduce la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., lamentando che il giudice abbia mal esercitato il proprio prudente apprezzamento delle prove.

Tuttavia, per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove” (Cass. n. 11892 del 2016; Cass. S.U. n. 16598/2016; Cass. S.U. n. 20867/2020).

La censura della ricorrente non è ammissibile neppure ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, che nell’interpretazione di questa Corte ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053). Costituisce, pertanto, un “fatto”, agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non una “questione” o un “punto”, ma un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass. Sez. 1, 04/04/2014, n. 7983; Cass. Sez. 1, 08/09/2016, n. 17761; Cass. Sez. 5, 13/12/2017, n. 29883; Cass. Sez. 5, 08/10/2014, n. 21152; Cass. Sez. U., 23/03/2015, n. 5745; Cass. Sez. 1, 05/03/2014, n. 5133).

Quanto alla violazione degli artt. 591 e 602 c.c. preme osservare che in tema di capacità naturale del testatore trovano applicazione le regole ordinarie circa la valutazione delle prove e la formazione del convincimento da parte del giudice di merito, i cui apprezzamenti di fatto non sono censurabili in sede di legittimità se sorretti da congrua motivazione (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 1851 del 19/03/1980).

Questa Suprema Corte ha affermato ripetutamente che in tema di annullamento del testamento, nel caso di infermità tipica, permanente e abituale, l’incapacità del testatore si presume e l’onere della prova che il testamento sia stato redatto in un momento di lucido intervallo spetta a chi ne afferma la validità (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 27351 del 23/12/2014); qualora, invece, detta infermità sia intermittente o ricorrente, poiché si alternano periodi di capacità e incapacità, non sussiste tale presunzione e, quindi, la prova dell’incapacità deve essere data da chi impugna il testamento (Cass., Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 3934 del 19/02/2018; Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 25053 del 10/10/2018).

In ogni caso l’incapacità naturale di testare non si identifica in una generica alterazione del normale processo di formazione ed estrinsecazione della volontà, ma richiede che, a cagione di una infermità transitoria o permanente o di altra causa perturbatrice, il soggetto, al momento della redazione del testamento, sia assolutamente privo della coscienza dei propri atti ovvero della capacità di autodeterminarsi, così da versare in condizioni analoghe a quelle che, con il concorso dell’abitualità, legittimano la pronuncia di interdizione (Cass., Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 3934 del 19/02/2018; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 27351 del 23/12/2014; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 1444 del 30/01/2003).

Sulla scorta di questi principi, la sentenza della Corte d’Appello risulta esente da vizi tali da giustificare la sua cassazione, avendo ritenuto che, per effetto delle circostanze evidenziate dalla CTU, il testamento fosse compatibile con le patologie riscontrate nel paziente a partire dalla fine del 2007, essendo espressione di decadimento cognitivo e di deficit di attenzione, come confermato anche dal parziale decadimento grafico.

Questo significa che al momento della redazione del secondo testamento il de cuius era affetto da un’infermità tale da giustificare, a parere della Corte, la conclusione per cui la redazione doveva essere avvenuta dopo il 2007, quando era già insorta la patologia incapacitante. A tal fine la Corte valorizzava quanto riferito dall’ausiliario del CTU, Dott. S., in ordine all’accertamento del disturbo DNC Vascolare Maggiore, malattia che causava alterazioni delle funzioni cognitive superiori, tra cui la pianificazione, il processo decisionale, la memoria, l’attenzione complessa, sì da rendere il soggetto non più autonomo e incapace di autodeterminarsi, con compromissione della capacità di compiere atti e negozi. Ciò era poi confermato dall’ulteriore documentazione medica in atti (verbale di pronto soccorso dell’Azienda Ospedaliera di Lecco del 29/11/2007, documentazione della commissione medico-legale della ASL della Provincia di Lecco del 26/03/2009).

La Corte superava espressamente la conclusione del CTU, a parere del quale la forma e la sostanza del testamento erano indicativi non di totale incapacità, ma di una alterazione della capacità di intendere e di volere, valorizzando una serie ulteriore di elementi, a conferma del fatto che la patologia lo condusse alla perdita di ogni controllo delle facoltà mentali (tra questi la valutazione psichiatrica del Dott. S., allegata alla CTU, inerente al rilevamento da parte di un medico di pronto soccorso di una sintomatologia neuropsicologica caratteristica), con un continuo peggioramento del disturbo neurocognitivo (già la TAC del 2007 evidenziava lesioni patognomiche di demenza e sintomi clinici di declino cognitivo; certificazione specialistica neuropsicologica di demenza a carattere degenerativo di gennaio 2009; successiva conferma della diagnosi con peggioramento dei test neuropsicologici a maggio 2009 e accertamento dell’invalidità civile).

La Corte, infine, ha individuato una serie di elementi che confermerebbero l’assunto secondo il quale, anche a voler ritenere che il testamento fosse stato redatto prima del 2007, comunque denotava uno stato di incapacità di intendere e di volere del de cuius al momento della redazione della scheda testamentaria.

Questi elementi sono ravvisati nell’omissione del riferimento al precedente testamento, la consegna del secondo testamento a persona con cui non aveva rapporti stretti (a differenza della figlia); il mancato avvertimento della nipote, consegnataria della prima scheda, in ordine al mutamento della sua volontà testamentaria, nonché la mancata richiesta di restituzione o distruzione del primo testamento; nessun accadimento esteriore che giustificasse un mutamento tale della volontà testamentaria; la mancata prova di quanto B.P. avrebbe ricevuto in vita (eccetto due macchine e due viaggi); la mancata prova di violenze e minacce da quest’ultimo perpetrate ai danni del padre e della sorella.

Così facendo, la Corte d’Appello ha dato seguito alla giurisprudenza di questa Suprema Corte, secondo cui, ai fini dell’accertamento della sussistenza o meno della capacità di intendere e di volere del de cuius al momento della redazione del testamento, il giudice del merito non può ignorare il contenuto del testamento medesimo e gli elementi di valutazione da esso desumibili, in relazione alla serietà, normalità e coerenza delle relative disposizioni, nonché ai sentimenti e ai fini che risultano averle ispirate (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 230 del 05/01/2011; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 5620 del 22/05/1995).

La Corte ha, altresì, motivato in ordine all’inattendibilità e inconsistenza delle prove fornite dalla difesa, a causa della contraddittorietà della testimonianza B., rispetto ai modi e tempi della consegna del testamento e della carta d’identità per la pubblicazione del testamento, inattendibile in quanto compiacente agli interessi dell’appellante.

Ha valorizzato, al contrario, la testimonianza S., che riferiva delle intenzioni del de cuius di lasciare l’appartamento alla figlia L. e tutto il resto al figlio P.; nonché della circostanza della consegna del testamento al marito affinché lo custodisse e delle circostanze strane della pubblicazione del testamento.

In definitiva, la censura si risolve nel tentativo di sostituire, a quella fatta propria dal giudice di merito, la propria alternativa ricostruzione dei fatti, il che ne impone il rigetto.

4. Il ricorso deve pertanto essere rigettato, dovendosi regolare le spese in base al principio della soccombenza, con attribuzione all’avvocato M. C. dichiaratasene anticipataria.

5. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge, con attribuzione all’avv. M. C., dichiaratasene distrattaria.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, art. 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 luglio 2022.

Depositato in Cancelleria il 14 settembre 2022

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