SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 12 aprile 2010, la (omissis) s.r.l. – in qualità di condomina e proprietaria di due edifici ad uso industriale poi ristrutturati in cinque unità abitative – evocava, dinanzi al Tribunale di Milano, il CONDOMINIO (Omissis), al fine di ottenere la condanna al risarcimento dei danni derivanti dall’illegittimo diniego di autorizzazione all’utilizzo delle parti comuni, in particolare degli impianti di acqua, luce, gas, citofono, antenna TV e fognature, il cui allacciamento con i cinque lofts realizzati dalla società implicava lo scavo del cortile interno condominiale e l’interramento di cavi e tubazioni, operazione espressamente autorizzata dal giudice all’esito di un preventivo procedimento ex art. 700 c.p.c..
Costituitosi in giudizio il CONDOMINIO che spiegava domanda riconvenzionale, il Tribunale di Milano, con sentenza n. 13546/2013, rigettava le domande attore e, in accoglimento della riconvenzionale, condannava la (Omissis) alla rimozione di tutti gli allacciamenti agli impianti ed ai servizi condominiali creati a vantaggio delle unità immobiliari di proprietà della stessa società. Secondo il primo giudice l’utilità che l’attrice pretendeva di trarre dall’uso dei beni comuni non violava i limiti di cui all’art. 1102 c.c., ma costituiva un’utilità del tutto nuova e aggiuntiva rispetto a quella preesistente, perché non riferita al capannone ma ai singoli lofts, considerato che la creazione delle nove unità immobiliari richiedeva la realizzazione di nuove condutture con scavo nel cortile comune, il quale veniva così gravato dal passaggio di nuove linee prima inesistenti.
Sul gravame interposto dalla società, la Corte di appello di Milano, nella resistenza dell’appellato, con sentenza n. 3067/2016, in accoglimento parziale dell’appello, dichiarava inammissibile la domanda di rimozione degli allacciamenti eseguiti dalla società e compensava le spese di lite.
In particolare, la Corte distrettuale affermava che la società appellante, condomina a tutti gli effetti, aveva diritto ad utilizzare la cosa comune (nella specie il cortile e il sottosuolo) per posizionarvi le condutture necessarie ai collegamenti degli immobili di sua proprietà; sicché era del tutto ininfluente accertare se le opere eseguite da (Omissis) all’interno della porzione immobiliare di sua proprietà fossero consistite in ristrutturazione o nuova edificazione o se l’immobile fosse o meno in precedenza allacciato agli impianti condominiali, in quanto il diritto di eseguire le opere di allacciamento derivava dall’essere comproprietario del bene comune.
Precisava, inoltre, la Corte che la consistenza dell’intervento edilizio avrebbe potuto al più costituire motivo di revisione delle tabelle di ripartizione delle spese relative ai nuovi impianti a servizio dei lofts, questione che tuttavia non rientrava nell’oggetto della controversia. In riferimento alla pretesa risarcitoria dell’appellante principale, la Corte di merito rilevava che delle prime due voci di danno, tra loro alternative, la società non aveva fornito alcuna prova, mancando in atti qualsiasi elemento dal quale desumere che il ritardo nell’esecuzione dei lavori di allacciamento agli impianti avesse comportato la perdita di concreta possibilità di vendita dei singoli immobili. Aggiungeva a tal riguardo la Corte che la società aveva unicamente prodotto copia di un incarico di mediazione conferito il 21 settembre 2007 a (Omissis) per la vendita complessiva delle dieci unità immobiliari al prezzo di Euro 1.895.000,00, senza dedurre alcuna prova sui motivi dell’esito negativo dell’incarico.
In riferimento alla richiesta alternativa di danno derivante dalla perdita di importi corrispondenti a canoni di locazione asseritamente non percepiti nel periodo 2007/2009 a causa della condotta del CONDOMINIO, la Corte di appello accertava che la (Omissis) aveva solo documentato di aver locato alcuni degli immobili nel corso del 2009, senza provare di avere perso delle concrete possibilità di locazione in epoca anteriore ed anzi risultando dall’incarico di mediazione un’iniziale intenzione di vendere gli immobili anziché locarli.
Ne’ risultava provato il lamentato danno derivante dal costo delle opere di allacciamento, non essendo stato prodotto il contratto di appalto che avrebbe dimostrato – secondo la società – la previsione di dette opere nello stesso.
Infine, la Corte del merito affermava che non poteva nemmeno valere la liquidazione equitativa delle voci di danno patrimoniale, stante le lacune probatorie circa l’ammontare del danno, con conseguente inoperatività dell’art. 1226 c.c., non potendo il giudice sopperire in via equitativa alle mancanze probatorie delle parti.
Per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Milano, la (Omissis) propone ricorso fondato su due motivi, cui resiste il CONDOMINIO proponendo altresì ricorso incidentale fondato su tre motivi.
In prossimità della pubblica udienza il Sostituto Procuratore, Dott. Alessandro Pepe, ha depositato una relazione, con la quale ha rassegnato le conclusioni nel senso del rigetto di entrambi i ricorsi. Entrambe le parti hanno curato il deposito di memorie illustrative.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
Con il primo motivo la ricorrente principale deduce ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, l’omessa, insufficiente, contraddittoria o apparente motivazione in relazione a fatti decisivi oggetto della di discussione tra le parti, nonché la violazione degli artt. 1102 e 1223 c.c., per non aver il giudice del gravame esaminato le conseguenze provocate dall’illegittimo comportamento tenuto dal CONDOMINIO a danno della (Omissis).
In particolare, ad avviso della ricorrente, la corte di appello non avrebbe minimamente considerato che il CONDOMINIO, impendendo alla società attrice di poter utilmente vendere o quantomeno locare tempestivamente i cinque lofts, avrebbe determinato di per sé il danno, sostanzialmente riferibile alla indisponibilità degli appartamenti oggetto di causa.
Ebbene, i danni di cui la ricorrente chiede il ristoro consisterebbero nel mancato profitto sulla vendita o sulla locazione delle unità immobiliari, nel pagamento degli interessi passivi sul mutuo fondiario concluso dalla società per l’acquisto degli immobili, nei costi sostenuti per il ritardo negli allacciamenti e nelle spese legali sopportate per il procedimento cautelare promosso contro il Condominio.
Pertanto, la società ricorrente si duole della mancata ammissione delle prove testimoniali idonee a dimostrare l’intento della società di vendere l’immobile e della CTU richiesta per la determinazione dell’entità della svalutazione monetaria subita dagli immobili e, comunque, dell’omessa quantificazione dei danni subiti dalla società, in considerazione della documentazione prodotta e della mancata specifica contestazione del Condominio sul punto.
Il motivo è inammissibile sotto vari profili.
In primo luogo, va ribadito che, in linea con le Sezioni Unite di questa Corte, la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, disposta con il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, secondo cui è deducibile esclusivamente “l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti” deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione denunciabile in sede di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” ” (Cass., Sez. Un., n. 8053 del 2014).
Pertanto, il controllo previsto dall’art. 360 c.p.c., nuovo n. 5, concerne “l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato.avrebbe determinato un esito diverso della controversia)” (sempre Cass., Sez. Un., n. 8053/2014 cit.).
Nella specie, la doglianza oltre a non rispettare il paradigma di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, verte su apprezzamenti di fatto rimessi all’esclusivo esame del giudice di merito, come tali non censurabili in questa sede se esenti da vizi logico – formali.
Difatti, è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che il ricorso per cassazione non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare l’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti, dando così prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cfr. Cass. n. 331 del 2020; Cass. n. 7523 del 2017; Cass. 24679 del 2013; Cass. n. 27197 del 2011).
Ora, la Corte milanese, nell’esercizio del suo potere discrezionale, ha respinto la richiesta risarcitoria relativa ai danni derivanti dalla mancata messa in vendita degli appartamenti, rilevando la carenza probatoria e la mancanza in atti di qualsiasi elemento dal quale desumere che il ritardo nell’esecuzione dei lavori di allacciamento agli impianti avesse comportato la perdita concreta della possibilità di vendere i singoli immobili.
Inoltre, il giudice del gravame ha altresì accertato che la società si era limitata a produrre copia di un incarico di mediazione conferito. il 21 settembre 2007 a (Omissis) per la vendita complessiva delle dieci unità immobiliari al prezzo di Euro 1.895.000,00 senza tuttavia dedurre alcuna prova sui motivi dell’esito negativo dell’incarico.
Ancora, in riferimento alla richiesta alternativa di danno derivante dalla perdita di importi corrispondenti a canoni di locazione asseritamente non percepiti nel periodo 2007/2009 a causa della condotta del CONDOMINIO, la Corte di appello ha rilevato che la (Omissis) aveva solo documentato di aver locato alcuni degli immobili nel 2009, senza tuttavia provare di avere perso delle concrete possibilità di locazione in epoca anteriore, anzi risultando dall’incarico di mediazione un’iniziale intenzione di vendere gli immobili anziché locarli.
Anche in relazione al lamentato danno derivante dal costo delle opere di allacciamento il giudice di appello ha riscontrato lacune probatorie, non essendo stato prodotto il contratto di appalto che avrebbe dimostrato – ad avviso della società – la previsione di dette opere nel regolamento contrattuale.
Infine, con riferimento ai capitoli di prova la Corte di appello ha valutato che gli stessi non erano in grado di colmare le evidenti lacune probatorie.
Quanto alla doglianza relativa al mancato espletamento di CTU ai fini di quantificare i danni subiti dalla società, osserva il Collegio che la consulenza tecnica d’ufficio è mezzo istruttorio (e non una prova vera e propria) sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice di merito, rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione di disporre la nomina dell’ausiliario giudiziario e la motivazione dell’eventuale diniego può anche essere implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato effettuata dal suddetto giudice (Cass. n. 15219 del 2007; Cass. 326 del 2020).
In relazione alla dedotta violazione di legge per sussistenza del danno in re ipsa, va chiarito che di tale tipologia di danno può al più parlarsi nella diversa ipotesi di occupazione sine titulo, non ravvisabile nel caso di specie riguardante il (presunto) mancato sfruttamento commerciale delle unità abitative ai fini della vendita e della locazione da parte della ricorrente.
In ogni caso, la giurisprudenza di questa Corte anche in riferimento al danno subito dal proprietario per indisponibilità del cespite a causa dell’occupazione sine titulo altrui, ha ribadito che detto danno può definirsi “in re ipsa“, inteso in senso descrittivo, ossia di normale inerenza del pregiudizio all’impossibilità stessa di disporre del bene, senza comunque far venir meno l’onere per l’attore quanto meno di allegare, e anche di provare con l’ausilio delle presunzioni, il fatto da cui discende il lamentato pregiudizio, ossia che se egli avesse immediatamente recuperato la disponibilità dell’immobile, l’avrebbe subito impiegato per finalità produttive, quali il suo godimento diretto o la sua locazione (Cass. n. 25898 del 2016). Ebbene, nella specie la Corte di appello, oltre a rilevare la carenza probatoria, ha altresì precisato che la (Omissis)non aveva fornito nemmeno la prova dell’intenzione di locare gli immobili, assegnati ad un’agenzia di mediazione con l’incarico di provare a venderli e non a locarli.
Con il secondo motivo la ricorrente principale lamenta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, l’omessa, insufficiente, contraddittoria o apparente motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio, nonché la violazione degli artt. 1226 e 2697 c.c., artt. 114 e 115 c.p.c., per aver il giudice di appello ritenuto di non procedere alla liquidazione dei danni in via equitativa, malgrado la formulazione di una specifica domanda subordinata sul punto, essendo particolarmente difficile la quantificazione dei danni.
Il motivo va respinto.
L’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa che, pertanto, presuppone che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile per la parte interessata provare il danno nel suo preciso ammontare, non riguardando – invece anche l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, onere quest’ultimo che deve essere già assolto dalla parte.
In sostanza, con il giudizio di equità non è possibile surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza che deve essere già assolto presupponendo già assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del danno, non essendo la parte interessata esonerata dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, così da ricondurre l’apprezzamento equitativo alla sua funzione di colmare solo le lacune insuperabili nell’iter della determinazione dell’equivalente pecuniario del danno (Cass. n. 13288 del 2007; Cass. n. 10670 del 2010; Cass. n. 18804 del 2015; Cass. n. 16344 del 2020).
Nella specie, come si evince dalla motivazione della sentenza impugnata, la carenza probatoria non ha consentito al giudice di appello di ricorrere al giudizio in via equitativa a norma dell’art. 1226 c.c.
Passando all’esame del ricorso incidentale, con il primo motivo il ricorrente lamenta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione dell’art. 112 e la nullità della sentenza per non essersi il giudice del merito pronunciato sull’eccezione sollevata dal CONDOMINIO relativa alla estraneità della (Omissis) dagli impianti di causa perché di proprietà esclusiva degli altri condomini.
Ebbene, sostiene il ricorrente che, nei precedenti gradi di giudizio, pur avendo dettagliatamente illuminato e documentato l’originario stato dei luoghi al fine di dimostrare l’infondatezza della pretesa di controparte di ritenersi in quanto condomina anche proprietaria degli impianti ad uso abitativo di gas, luce, antenna TV, citofono, la Corte distrettuale non si sarebbe pronunciata.
Peraltro, dal materiale probatorio prodotto nelle precedenti fasi di merito, si evincerebbe la collazione dell’originaria installazione delle predette utenze presso il solo stabile di sei piani fuori terra, il posizionamento dei relativi impianti nei locali dello stesso al piano seminterrato, l’assenza – prima dell’interno di (Omissis) – di qualsivoglia tubazione o conduttura interrata nel cortile interno, diretta a collegare il capannone agli impianti uso abitativo installati nello stabile residenziale, la conseguente esclusione del proprietario del capannone dalla contribuzione alle relative spese per riscaldamento, impianto elettrico ed ovviamente antenna TV incompatibile con la destinazione d’uso originaria.
Con il secondo motivo il ricorrente incidentale denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1117,1118 e 1123 c.c., per non aver la Corte di appello esaminato lo stato dei luoghi come emergente dalla documentazione prodotta, motivato sull’eccezione del CONDOMINIO quanto al mutamento della prospettazione in fatto operata dalla (Omissis), nonché motivato in ordine alla natura condominiale o meno degli impianti di causa, questione quest’ultima decisiva ed oggetto di contestazione tra le parti.
Ad avviso del ricorrente incidentale, gli impianti sarebbero di proprietà esclusiva degli altri condomini dell’edificio principale di sei piani, stante la licenza di occupazione dello stabile condominiale rilasciata dal Comune di Milano che – oltre a dare atto della data di edificazione – non menzionerebbe né il laboratorio né il capannone successivamente acquistati dalla controparte, il regolamento condominiale approvato all’unanimità dei partecipanti che – da un lato – non avrebbe indicato i suddetti impianti tra le parti comuni e – dall’altro – avrebbe espressamente esonerato la proprietaria del capannone dalla contribuzione delle spese relative a tali servizi, tra cui il riscaldamento.
Quanto alla destinazione funzionale degli impianti ad uso abitativo oggetto di causa, il CONDOMINIO aggiunge che sarebbero permanentemente destinati ad alimentare le sole unità abitative dell’edificio principale di sei piani e, pertanto, sarebbero legittimamente destinati all’uso ed al godimento dei soli condomini proprietari di dette unità.
Infine, con il terzo motivo il CONDOMINIO lamenta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1102,1117,1118 e 1058 c.c., per aver il giudice del gravame ritenuto legittimo uso discrezionale della cosa comune da parte della (Omissis), non valutando che i lavori di escavazione eseguiti dalla predetta società andassero oltre i limiti di cui all’art. 1102 c.c..
I motivi di ricorso, da trattare congiuntamente in quanto connessi sotto il profilo argomentativo, sono privi di pregio.
La Corte di merito non ha omesso di pronunciarsi sulla questione relativa alla comproprietà o meno degli impianti oggetto di causa, ma – al contrario – ha accertato la titolarità del diritto di proprietà anche in capo alla società appellante, essendo quest’ultima condomina a tutti gli effetti e come tale comproprietaria del cortile comune e degli impianti di gas, luce, acqua, antenna TV, citofono. Del resto, proprio per tale motivo, la (Omissis) è stata autorizzata – a seguito del procedimento ex art. 700 c.p.c. – ad eseguire i lavori sul sottosuolo del cortile comune al fine di allacciarsi ai predetti impianti.
Così operando, la Corte milanese ha fatto buon governo dei principi di diritto enunciati da questa Corte sul tema: difatti è pacifico nella giurisprudenza di legittimità che il comproprietario di un cortile può porre nel sottosuolo tubature per lo scarico fognario e l’allacciamento del gas a vantaggio della propria unità immobiliare, trattandosi di un uso conforme all’art. 1102 c.c., in quanto non limita, né condiziona, l’analogo uso degli altri comunisti (Cass. n. 18661 del 2015). In altri termini, non ricorre l’ipotesi di una servitù ma quella di un uso del bene comune ex art. 1102 c.c., e la differente sussistenza fra le due fattispecie costituisce un accertamento di fatto, come tale non censurabile in sede di legittimità se non nei limitati confini di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
D’altro canto, in tema di Condominio, l’allaccio di nuove utenze ad una rete non costituisce di per sé una modifica della stessa, perché una rete di servizi – sia fognaria, elettrica, idrica o di altro tipo – è per sua natura suscettibile di accogliere nuove utenze; sicché è onere del Condominio, che ne voglia negare l’autorizzazione, dimostrare che – nel caso particolare – l’allaccio di nuove utenze incida nella funzionalità dell’impianto, non potendo – peraltro opporre che il divieto all’allaccio sia finalizzato ad impedire un mutamento di destinazione della unità immobiliare (Cass. n. 21832 del 2007).
Del resto, che si tratti di comproprietà e di condomini anche per quanto attiene allo stabile “ex capannone” costituisce un accertamento di merito formato, oltre che sulla presunzione ex art. 1117 c.c., anche dall’esame del Regolamento condominiale e dall’attribuzione di una quota millesimale, seppur minima.
Peraltro, il mutamento di destinazione di una unità immobiliare può essere impedito dal condominio solo ove detta limitazione sia prevista dal regolamento condominiale di natura contrattuale; né tale scopo può essere indirettamente perseguito frapponendo ostacoli all’uso di quei servizi comuni indispensabili all’eventuale mutamento, in violazione del diritto del condomino di esercitare sui beni comuni i poteri attribuitigli dall’art. 1102 c.c., comma 1 (Cass. n. 21832/2007, cit.).
Accertata – quindi – la qualità di condomino e la relativa comproprietà dei beni comuni (tra cui il cortile su cui insistevano gli impianti), ben ha fatto la Corte di merito a ritenere ininfluente l’accertamento dello stato originario dei luoghi, affermando al contempo che la consistenza dell’intervento edilizio avrebbe potuto al più costituire motivo di revisione delle tabelle di ripartizione delle spese relative ai nuovi impianti a servizi dei lofts, questione tuttavia non oggetto della controversia.
Peraltro, la circostanza che la (Omissis) non pagasse originariamente le spese relative alle utenze offerte dagli impianti non incide sul suo diritto di proprietà, ma deriva semplicemente dalla mancata fruizione di tali servizi prima di eseguire le opere di allacciamento agli impianti che – come precisato – sono suscettibili per loro natura di accogliere nuove utenze.
In conclusione vanno rigettatati entrambi i ricorsi, principale e incidentale.
Le spese del giudizio di legittimità, stante la reciproca soccombenza, vanno interamente compensate fra le parti.
Ne consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese sostenute dalla controricorrente nel presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo.
Poiché i ricorsi sono stati proposti successivamente al 30 gennaio 2013 e sono rigettati, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto l’art. 13, comma 1 quater, del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, sia da parte del ricorrente principale sia da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta entrambi i ricorsi;
dichiara interamente compensate fra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1 qualer, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte sia del ricorrente principale sia del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 1 marzo 2022.
Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2022
