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Cassazione civile sez. II, 09/08/2023, n.24300

Massima

Il giudizio di divisione, pur articolato nel suo svolgimento in una molteplicità di fasi presenta, tuttavia, un carattere unitario e deve, quindi, considerarsi un processo unico avente quale finalità ultima la trasformazione di un diritto a una quota ideale in un diritto di proprietà su beni determinati; di talché, fino a quanto tali scopi non siano stati integralmente raggiunti, le sentenze emesse nel corso del procedimento divisionale assumono la natura di non definitività, eccettuata l’ultima che provvede, ai sensi degli artt. 789 e 791 c.p.c., alla formazione definitiva dei lotti, anche quanto rimetta alla fase successiva le operazioni relative al sorteggio delle quote.

 

Supporto alla lettura

COMUNIONE E DIVISIONE EREDITARIA

COMUNIONE: quando al defunto succedono più eredi, i quali diventano comproprietari dei beni e contitolari dei diritti e dei debiti che fanno parte dell’eredità, quindi se vi sono più eredi (es. figli e coniuge), ciascuno dei coeredi diventa contitolare di una quota dei beni e dei rapporti appartenenti al defunto. Le quote possono essere diverse stabilite dal defunto nel testamento, in mancanza di testamento deve farsi riferimento alle regole della successione legittima di cui agli artt. 565 e ss. c.c. (es. se il defunto lascia un coniuge e due figli, in assenza di testamento le quote ereditarie saranno di 1/3 per il coniuge ed 1/3 per ciascuno dei figli).

L’art. 752 c.c. dispone che gli eredi rispondono dei debiti ereditari in proporzione alle loro quote ereditarie, salvo diversa disposizione del testatore, tale regola vale solo per i debiti ereditari, questo significa che i crediti ereditari possono essere riscossi per l’intero anche da un solo degli eredi, ma su di essi si forma comunque la comunione ereditaria.

È previsto un diritto di prelazione, ossia un diritto di precedenza in capo agli altri coeredi: l’art. 732 c.c. prevede infatti che il coerede, il quale intenda alienare la propria quota (o parte di essa) ad un estraneo, sia tenuto a notificare la proposta di alienazione con indicazione del prezzo, agli altri coeredi, i quali possono far valere la propria volontà di acquistare la quota con precedenza rispetto ad un estraneo.

DIVISIONE: procedimento che scioglie la comunione e consente al coerede di diventare unico proprietario dei beni che gli sono assegnati ed il cui valore corrisponde a quello della sua quota ereditaria. Si distinguono diversi tipi di divisione ereditaria:

  • divisione contrattuale: quando i coeredi concordano sull’effettuazione della divisione e sul suo contenuto, in questo caso la divisione si realizza attraverso un accordo tra i coeredi, c.d. contratto di divisione, che deve essere stipulato tra tutti i coeredi a pena di nullità. Se ha ad oggetto beni immobili o altri diritti reali immobiliari (es. l’usufrutto) deve avere forma scritta, essere autenticato da un notaio e trascritto. Se nella divisione è coinvolto un soggetto incapace (come un minore o un interdetto), è necessaria l’autorizzazione del giudice;
  • divisione giudiziale: quando i coeredi non riescono ad accordarsi, in tal caso dovranno rivolgersi al giudice. La legge prevede due tipi di procedimento.
  • divisione a domanda congiunta: presuppone che i coeredi siano d’accordo sul fatto di dividere il patrimonio ereditario e  sull’entità delle rispettive quote, ma non sui beni da cui ciascuna delle porzioni da assegnare in proprietà ai singoli coeredi deve essere composta. E’ un procedimento semplificato che consente di passare direttamente alla formazione dei lotti o porzioni da assegnare in proprietà esclusiva a ciascun coerede, ed è avviata con un unico ricorso sottoscritto da tutti i coeredi, depositato presso la cancelleria del Tribunale in cui si è aperta la successione (ossia il luogo di ultimo domicilio del defunto);
  • divisione giudiziale ordinaria: causa civile ordinaria, che può essere azionata quando i coeredi non concordano sul fatto di dividere i beni di cui sono comproprietari oppure non concordano sulle modalità per attuare la divisione. La causa può essere avviata da ciascun coerede innanzi al Tribunale dove si è aperta la successione, tutti i coeredi devono essere citati in giudizio, ma prima dell’avvio del giudizio, è sempre necessario esperire un tentativo di mediazione innanzi ad un organismo di conciliazione riconosciuto dal Ministero;
  • divisione testamentaria: è lo stesso defunto ad aver stabilito nel testamento le modalità con cui effettuare la divisione tra i coeredi. In particolare il testatore:
    1. può stabilire particolari regole per la formazione delle porzioni che spettano a ciascun coerede (es. stabilendo che ogni porzione sia composta da un certo numero di beni mobili o immobili);
    2. può disporre che la divisione venga effettuata secondo la stima di un terzo da lui stesso indicato, c.d. arbitratore;
    3. può dividere direttamente tra i coeredi i beni che compongono il suo patrimonio.

Ambito oggettivo di applicazione

Fatto
FATTI DI CAUSA

Nella causa divisione fra i fratelli T., A. e V.V., derivante dalla successione ab intestato del comune genitore V.F., deceduto il (Omissis), il Tribunale di Latina, con sentenza non definitiva n. 1646/2010, dichiarava aperta la successione, accertava i beni relitti e determinava le quote da attribuire ai coeredi. In particolare, accertava che nella divisione occorreva considerare, in relazione a una donazione di quota indivisa di un terreno fatta dal de cuius alla figlia T., anche i fabbricati su di esso edificati, incluso quello attribuito a T. in esito a divisione del 1980.

Disposta la prosecuzione della causa con separata ordinanza, questa era poi definita con sentenza definitiva n. 2132 del 2012, con l’attribuzione dei beni.

V.T. ha proposto appello contro le due sentenze dinanzi alla Corte d’appello di Roma, che ha dichiarato inammissibile l’appello contro la sentenza n. 1646 del 2010, ritenendo inefficace la riserva a suo tempo formulata da V.T., stante il carattere di sentenza definitiva della pronunzia. La corte territoriale ha poi rigettato l’appello contro la sentenza n. 2132 del 2012, rilevando che il Tribunale aveva esaurientemente motivato circa la propria adesione alla consulenza tecnica.

Avverso questa sentenza V.T. ha proposto ricorso affidato a due motivi.

V.V. ha resistito con controricorso.

S.A., V.F., VA.FE. (eredi di V.A., contumace nel giudizio d’appello) restano intimati.

Le parti hanno depositato memoria.

Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE

I motivi di ricorso possono essere così riassunti:

1) violazione e falsa applicazione degli art. 279 c.p.c., comma 2, art. 340 c.p.c., comma 1, e art. 327 c.p.c., comma 1, per avere la Corte di merito qualificato come definitiva la sentenza n. 1646 del 2019, la quale, in ragione del suo contenuto, aveva indubbiamente natura di sentenza non definitiva, in quanto la pronunzia aveva solamente risolto le contestazioni fra le parti in ordine ai beni compresi nell’asse;

2) nullità della sentenza per carenza della motivazione, perché la corte territoriale ha superato il complesso delle censure mosse dall’appellante sulla sentenza definitiva mediate generica adesione alla sentenza di primo grado, in assenza di un’effettiva considerazione dei motivi di gravame.

Il primo motivo è fondato.

In sintonia con la dottrina dominante, la giurisprudenza ravvisa nel giudizio divisorio un processo unico che si svolge in due fasi, “l’una diretta ad accertare il diritto alla divisione, l’altra a determinarne il contenuto” (Cass. n. 3510/1972)

Se il procedimento divisorio è articolato nel suo svolgimento in una molteplicità di fasi, presenta, tuttavia, un carattere unitario, e deve quindi, considerarsi un processo unico avente quale finalità ultima la trasformazione di un diritto a una quota ideale in un diritto di proprietà su beni determinati (Cass. n. 10066/1966).

Dal carattere unitario del giudizio si fa conseguire che, fino a quanto tali scopi non siano stati integralmente raggiunti, le sentenze emesse nel corso del procedimento divisionale, non rappresentano la definizione di una serie di processi dall’ambito chiuso e limitato, ma costituiscono altrettante tappe di un unico iter processuale la cui fase ultima si conclude con la concreta attribuzione di beni a ciascun condividente. Da ciò consegue che le varie sentenze assumono tutte la natura di sentenze non definitive, eccettuata l’ultima che provvede, ai sensi degli art. 789, 791, alla formazione definitiva dei lotti (Cass. n. 11293/1998; n. 5203/2007; n. 29829/2011).

Si chiarisce che la sentenza che provvede a formare in via definitiva i lotti ai sensi degli art. 789 e 791 è definitiva anche quanto rimetta alla fase successiva le operazioni relative al sorteggio delle quote (Cass. n. 4080/1986; n. 15466/2016)

Nel procedimento divisionale confluiscono normalmente una pluralità di domande, distinte e diverse dalla divisione e certamente proponibili anche in un giudizio autonomo (resa del conto, collazione, impugnazione di testamento, riduzione di disposizioni lesive della legittima ecc.). E’ innegabile, però, che se tali domande vengono cumulate con la divisione, la decisione che le riguarda, per una via o per l’altra, finisce con l’incidere sul risultato della ripartizione o sulla formazione della massa. Secondo la tesi prevalente, pertanto, anche queste sentenze sono non definitive nell’ambito dell’unitario giudizio divisionale, al pari delle sentenze che riguardano il diritto alla divisione o altri aspetti controversi difficilmente ipotizzabili fuori dall’iter divisorio. In particolare, sono state qualificate “non definitive”, fra le altre, le sentenze accertano nel contrasto fra le parti la specie e l’entità dei beni comuni (Cass. n. 974/1967); inoltre le sentenze che risolvono la contestazione tra i coeredi in ordine all’oggetto della collazione “dato che queste sentenze non esauriscono la materia del contendere ma sono destinate a dare impulso alle successive operazioni di divisione, rendendo possibile, nella successiva fase, la concreta determinazione ed attribuzione delle quote” (Cass. n. 4827/1994).

In palese e stridente contrasto con questi principi, la corte territoriale ha ravvisato la natura di sentenza definitiva, suscettibile solamente di impugnazione nei termini ordinari, nella sentenza che aveva statuito sia in ordine alla problematica della donazione della metà del fabbricato, riportato nell’asse ereditario, “disattendendo la tesi sostenuta dalla sorella – (attuale ricorrente n.d.r.) – di essere proprietaria esclusiva dell’edificio edificato a sue spese sul terreno suo tempo donatole per metà del padre, sia in ordine allo scioglimento della comunione ed alle quote spettanti ai singoli coeredi, rimettendo a una fase successiva solo le operazioni relative alla concreta determinazione delle quote”.

La Corte territoriale non si è neppure avveduta che, attraverso tale descrizione (letteralmente trascritta), ha richiamato in modo esemplare la nozione di sentenza non definitiva delineata dalla giurisprudenza di legittimità in relazione al giudizio divisorio. E’ stato ampiamente chiarito che, secondo tale nozione, come in modo contraddittorio ricorda la stessa corte romana nel capoverso successivo della decisione impugnata, è definitiva la sola sentenza che scioglie la comunione rispetto a tutti i beni. E’ fin troppo ovvio che la decisione, impropriamente considerata definitiva, aveva lasciato persistere la comunione, infine sciolta con la successiva sentenza definitiva.

In termini generali deve ancora ricordarsi che nella specie la sentenza considerata “non definitiva” non aveva disposto, né la separazione delle cause, né aveva deciso sulle spese, avendone rimesso espressamente la decisione al definitivo. Conseguentemente, sia in rapporto al contenuto intrinseco della decisione, sia in relazione agli indici formali della definitività di una sentenza, la conclusione della corte di merito si appalesa del tutto priva di giustificazione.

La circostanza, inutilmente richiamata dalla Corte d’appello, che nel dispositivo della decisione il primo giudice avesse usato l’espressione “definitivamente pronunziando”, nel contesto decisorio sopra richiamato, non era suscettibile di creare alcuna incertezza. E’ opportuno infine richiamare il principio secondo cui “Ai fini dell’individuazione della natura definitiva o non definitiva di una sentenza che abbia deciso su una delle domande cumulativamente proposte dalle parti stesse, deve aversi riguardo agli indici di carattere formale desumibili dal contenuto intrinseco della stessa sentenza, quali la separazione della causa e la liquidazione delle spese di lite in relazione alla causa decisa. Qualora il giudice, con la pronuncia intervenuta su una delle domande cumulativamente proposte, abbia liquidato le spese e disposto per il prosieguo del giudizio in relazione alle altre domande, al contempo qualificando come non definitiva la sentenza emessa, in ragione dell’ambiguità derivante dall’irriducibile contrasto tra indici di carattere formale che siffatta qualificazione determina e al fine di non comprimere il pieno esercizio del diritto di impugnazione, deve ritenersi ammissibile l’appello in concreto proposto mediante riserva” (Cass. S.U., n. 10242/2021).

Il secondo motivo è inammissibile, in quanto diretto contro la sentenza definitiva, che rimane caducata per effetto della cassazione della decisione nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto inammissibile l’appello contro la sentenza non definitiva, stante la pregiudizialità fra le pronunce (cfr. Cass. n. 5550/2021).

Pertanto, in accoglimento del primo motivo, la sentenza va cassata, con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, perché decida sull’appello. Ad essa si demanda pure la liquidazione delle spese di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso; dichiara inammissibile il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa innanzi alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione Seconda civile, il 17 maggio 2023.

Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2023

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